Tutti i titoli giapponesi su Netflix

Per tutti coloro appassionati di cultura giapponese o che semplicemente hanno voglia di spezzare la noia estiva, abbiamo creato una nuova rubrica in cui vi proporremo i titoli giapponesi più interessanti presenti sulle diverse piattaforme di streaming.

 

Rorouni Kenshin

Partiamo oggi dal catalogo Netflix: se siete appassionati di saghe cinematografiche hollywoodiane, c’è un titolo tutto giapponese che potrebbe fare al caso vostro, stiamo parlando di Rorouni Kenshin.

Si tratta di una serie di live action adattati dal manga Kenshin - Samurai vagabondo di Nobuhiro Watsuki e dal relativo anime.

La saga conta ad oggi ben 5 film, di cui il primo è uscito nel 2012 e l’ultimo, recentemente, nel 2021.

Ambientato nell’epoca Meiji, il film racconta la storia di Kenshin Himura, interpretato da Takeru Satou, un giovane ex-samurai reduce delle rivolte che dieci anni prima segnarono l'inizio della nuova epoca moderna.

Conosciuto per la sua straordinaria forza e ferocia con il nome di Battousai, è ora uno spadaccino errante che ha vietato a se stesso di uccidere ancora. Come promemoria del suo voto, porta con sé una katana a lama invertita, con cui difende i propri compagni dai nemici e dagli oppressori che di volta in volta si troverà ad affrontare.

La prima pellicola ripropone una storia alternativa dei primi capitoli del manga. La seconda e la terza sono uscite a distanza di qualche mese nel 2014 e narrano la saga di Kyoto. La quarta e la quinta sono uscite entrambe nel 2021. La prima rappresenta l’arco finale della saga, mentre la seconda è un prequel che parla del passato del protagonista.

L’uscita di ogni film è accompagnata da una nuova canzone degli One Ok Rock, una band giapponese molto famosa anche in Occidente, ormai titolare di tutte le ending. Per questo scopo sono infatti uscite canzoni che probabilmente conoscerete come The Beginning, Mighty long Fall, Heartache, Renegades e Broken Heart of Gold.

 

Yasuke

Il secondo titolo che vi consigliamo è un anime storico.  Si chiama Yasuke e si tratta di una serie giappo-americana che rilasciata su Netflix nel 2021. Creata da LeSean Thomas e animata dallo studio MAPPA (un nome una garanzia) e basata sulla figura di Yasuke, un guerriero africano che servì il daimyo Oda Nobunaga nel XVI secolo in Giappone.

In aggiunta alle clamorose animazioni, possiede una notevole colonna sonora composta da Flying Lotus, musicista e rapper statunitense che ha raggruppato elementi hip-hip con percussioni giapponesi e africane.

Inoltre, si tratta di uno dei pochi anime, non basato su un manga, ma da cui è nato un adattamento a fumetti, pubblicato su Monthly Big Comic Spirits a partire da Luglio del 2021.

 

Alice in Borderland

Con il terzo titolo, andiamo invece nell’epoca moderna, anzi distopica.

Parliamo, infatti, di Alice in Borderland, una serie televisiva di genere fantascientifico e drammatico basata sull’omonimo di Haro Aso.

Arisu, il protagonista, interpretato da Kento Yamazaki, è un giovane disoccupato che passa le sue giornate a giocare ai videogiochi con i suoi migliori amici, con cui un giorno si ritrova in una Tokyo abbandonata.

Quando iniziano la loro ricerca di civiltà, il trio scopre di essere intrappolato in una città in cui sono costretti a partecipare a dei game molto pericolosi per sopravvivere.

Dopo aver lanciato la prima stagione nel 2020, la serie è stata subito rinnovata per una seconda che dovrebbe arrivare a dicembre del 2021, covid permettendo.

La colonna sonora è stata composta interamente da Yutaka Yamada, che aveva precedentemente lavorato nei live action di Bleach del 2018 e Kingdom del 2019.

 

 

Amanda De Luca


"Aki no aware": la compenetrazione emotiva nell’autunno di Dolls e Little Forest

Siamo agli albori dell’XI secolo, quando la dama di corte Murasaki Shikibu compone ciò che i critici letterari contemplano come primo esempio di romanzo psicologico, nonché cardine della letteratura giapponese: ci riferiamo senza dubbio al Genji monogatari. Uno dei maggiori contributi dell’opera, che ruota intorno alle vicende amorose del “Principe Splendente”, è quello di aver riportato in auge un concetto basilare dell’estetica giapponese, il mono no aware.

Nel Genji monogatari, infatti, questo termine raggiunge la massima espressione, acquisendo una rinnovata definizione. Più che concetto estetico volto a sottolineare una bellezza che desta un coinvolgimento personale alla vista, il mono no aware assume un carattere di melancolia derivante dalla consapevolezza che ciò che si osserva sarà destinato a sfiorire.

La “sensibilità (aware 哀れ) delle cose (mono 物)” delinea così una percezione che accomuna ciascun soggetto nella partecipazione emotiva alla trasformazione degli elementi naturali nel tempo. Alla base della cultura estetica, della poesia e della letteratura giapponese, questo concetto ha fortemente influenzato anche gran parte delle opere cinematografiche moderne e contemporanee.

Registi del calibro di Mizoguchi Kenji e Ozu Yasujirō, in film come Tarda primavera (Banshun, 1949) e Tardo autunno (Akibiyori, 1960), hanno tentato di suscitare l’empatia dello spettatore nei confronti dei personaggi attraverso una poetica incentrata sull’ordinarietà della vita quotidiana e l’inevitabile susseguirsi delle stagioni. E di certo, a rivelare maggiormente la sensazione di caducità, disillusione e isolamento dell’essere umano nel suo rapporto complesso con la natura è, tra tutte le stagioni, l’autunno (aki 秋).

Il capolavoro Dolls (2002), diretto da “Beat Takeshi” Kitano, ne è una chiara testimonianza. Il film si svolge su un intreccio di tre vicende che indagano il tema dell’amore. Quello rappresentato da Kitano, però, non è l’amore ardente e impulsivo che prelude a un intuibile lieto fine. Al contrario è silenzioso e all’apparenza celato, tuttavia carico di una potenzialità emotiva che sfocia in disperazione, follia e inevitabilmente violenza.

In particolare, la condizione di incomunicabilità che affligge i personaggi (tematica affrontata in modo magistrale da Michelangelo Antonioni nel cinema italiano) è evidente nel primo episodio, il più emblematico. I due “vagabondi legati”, Matsumoto e Sawako, iniziano infatti un lento cammino senza meta, quasi come unica reazione possibile a un legame ormai compromesso. E’ in questo processo di accettazione del destino che il senso di solitudine, il silenzio e la frustrazione prendono il sopravvento sulle personalità dei personaggi, indifferenti alle risa dei passanti e all’incessante scorrere del tempo.

La cura dell’altro e la dipendenza reciproca generano così un progressivo autoannullamento dei due innamorati, fisicamente legati soltanto da una corda rossa durante l’intero cammino. Nessuna possibilità di evasione, ma in fin dei conti nessuna vera intenzione. Qui l’allusione romantica del regista è riconducibile al “filo rosso del destino” (Unmei no akai ito), una leggenda popolare cinese diffusa in Giappone secondo cui ogni persona è legata alla propria anima gemella da un indistruttibile filo rosso.

Il principale riferimento culturale della pellicola, da cui la scelta del titolo, riguarda però le marionette dello spettacolo bunraku. Il film si apre infatti con una scena dell’opera teatrale I Messi dell'Inferno (Meido no hikyaku) di Chikamatsu Monzaemon. E’ proprio il drammaturgo del periodo Edo, ribattezzato lo "Shakespeare del Sol Levante", ad aver rappresentato in alcuni suoi drammi la pratica dello shinjū (心中), letteralmente il “doppio suicidio d’amore”.

La totale assenza di dialogo o di contatto fisico definisce così l’apatica fuga delle “bambole”, che percorrono le quattro stagioni tra giardini in fiore, spiagge deserte, boschi autunnali e interminabili distese di neve. E dove non riescono i personaggi nell’intento di esprimere le proprie emozioni, il compito è lasciato all’impatto visivo della natura e dei suoi colori ricorrenti, primo su tutti il rosso della foglia d’acero che percorre le vicende trasportata dal fiume, creando una perfetta analogia con il sangue sull’asfalto.

Insomma, più mono no aware di così, si muore.

L’imprescindibile legame tra essere umano e natura è tema fondamentale anche in Little Forest di Mori Jun'ichi, una miniserie basata sull’omonimo “slice of life” manga di Igarashi Daisuke. Complessivamente, l’opera è divisa in 2 parti: Summer/Autumn (2014) e Winter/Spring (2015).

Il racconto si svolge nella fittizia e circoscritta comunità di Komori (“piccola foresta”) nella regione del Tōhoku, dove la giovane Ichiko, interpretata dall’incantevole Hashimoto Ai, vive da sola in seguito all’inaspettata partenza della madre. In totale armonia con l’ambiente rurale che la circonda, Ichiko è immersa nelle tradizioni culinarie giapponesi e si dedica con meticoloso impegno a tutte le attività agricole necessarie per il proprio sostentamento. In base alle variazioni climatiche scandite dalla graduale evoluzione delle stagioni, la protagonista ci mostra la ripetitività delle azioni quotidiane nella vita agreste, come la coltivazione del riso, il taglio del legname e infine la preparazione dei piatti.

Anche Little Forest presenta pochissimi dialoghi, perlopiù inerenti agli incontri di Ichiko con gli amici Yūta e Kikko e con gli altri abitanti della comunità. Gran parte del parlato consiste di fatto in monologhi e descrizioni dettagliate delle ricette e dei metodi agricoli, nonché commenti conclusivi sulla riuscita o meno dei piatti. A intervallare i momenti di solitudine sono alcuni flashback, in cui la ragazza ricorda gli insegnamenti di cucina della madre, e gli autoreferenziali “itadakimasu” pronunciati prima delle degustazioni.

Nonostante lo stile pressoché documentaristico del film e la staticità generale della trama, Little Forest offre una miriade di spunti riflessivi. Innanzitutto, l’opera rimanda implicitamente alle differenze di vita tra campagna e città, un leitmotiv del cinema giapponese moderno. Ichiko mostra infatti sentimenti contrastanti riguardo al suo ritorno nel paese natale, una scelta perlopiù forzata, e rivela in varie occasioni le sue incertezze riguardo a una permanenza futura.

Accompagnato da una colonna sonora piuttosto suggestiva e da favolose immagini dei paesaggi circostanti, il film espone così il conflitto interiore della giovane nel suo delicato viaggio introspettivo alla ricerca di un posto nel mondo, nella costante riflessione su una possibile ricongiunzione con la madre.

Decisamente consigliato per gli appassionati di cucina giapponese. Come afferma Ichiko nell’episodio dedicato all’autunno, “nel periodo in cui gli alberi cambiano colore, le castagne candite diventano protagoniste”. Un invito da cogliere al volo, no?

Lorenzo Leva

 

Lorenzo Leva nasce a Fermo nel 1990 ed è laureato in Lingue, Mercati e Culture dell’Asia (Università di Bologna). Ha approfondito le sue conoscenze riguardanti l'economia, la cultura e la società giapponese durante un periodo di sei mesi presso la Université Paris Diderot-Paris VII di Parigi, con un Master in Asian Studies presso l'Università di Lund e un'esperienza di fieldwork presso la Waseda University a Tokyo.
Coltiva da anni una forte passione per il cinema orientale e giapponese in particolare, di cui ha analizzato l’evoluzione e le caratteristiche.

Contatti:
lorenzo.leva@gmail.com


Cinema giapponese: la nuova produzione nella "seconda epoca d’oro"

A metà del ventesimo secolo, per l’industria cinematografica giapponese ebbe inizio un glorioso periodo di rinascita che avrebbe percorso gli anni Cinquanta nel cosiddetto "secondo decennio d’oro".

In seguito alla ripresa economica del dopoguerra, nello scenario cinematografico il decisivo confronto con gli Stati Uniti, sebbene avesse determinato una riorganizzazione dell’assetto industriale, aveva offerto alle case giapponesi l’occasione di espandersi nel mercato internazionale, attraverso una produzione rinnovata e per la prima volta orientata all’esportazione. Il dopoguerra vide inoltre la fioritura di numerose personalità che difficilmente si sarebbero imposte negli anni precedenti a causa del tipico sistema di apprendistato giapponese, per cui la quasi totalità dei registi si vedeva affidare la piena responsabilità di un film solo dopo un lungo tirocinio come assistenti.

Uno tra questi fu senza dubbio Kurosawa Akira, che già nel 1943 aveva esordito con Sugata Sanshiro. Con Rashomon, infatti, nel 1950 una nuova era di rinnovamento e prosperità si era affacciata alle porte del cinema giapponese, che fino a quel momento aveva sviluppato uno stile proprio nella costante alternanza tra codici provenienti dall’esterno e rappresentazioni minuziose dei costumi del popolo. Il film riscosse un successo senza precedenti: fu premiato l’anno successivo al Festival di Venezia con il Leone d’Oro e in seguito con l’Oscar come miglior film straniero a Hollywood, dando così la possibilità al cinema nazionale di essere conosciuto e apprezzato all’estero per la prima volta.

L’ambiguità del trionfo conseguito dalla pellicola derivò dall’innovativa interpretazione del genere jidaigeki proposta da Kurosawa, che tramite questo esperimento d’avanguardia stabilì un punto di rottura rispetto alla tradizione e ai film in costume convenzionali ai quali il pubblico era abituato. A ossessionare il popolo giapponese, oltre Kurosawa stesso, era la preoccupazione di aver fornito al resto del mondo un’immagine troppo eccentrica della cultura nipponica. Tuttavia Rashomon diede al regista l’opportunità di trasporre al meglio il suo stile espressivo, ma soprattutto rappresentò un passo importante verso l’internazionalizzazione del cinema giapponese, che in breve tempo avrebbe conquistato l’attenzione dei grandi festival europei.

L’iniziale diffidenza di Nagata Masaichi della Daiei riguardo alla produzione di Rashomon fu così smentita, tanto che il presidente della casa si convinse a produrre una quantità sempre maggiore di jidaigeki per il mercato straniero. Inoltre, Nagata lanciò un programma di produzioni a colori permettendo alla Daiei di diventare la prima major giapponese a servirsi del colore non solo sul piano sperimentale. Il procedimento utilizzato per questa novità era il Fujicolor, già impiegato dalla Shochiku in Carmen torna a casa del 1951; quest’ultimo film, diretto da Kinoshita Keisuke, aveva ottenuto un grande successo al botteghino che consentì alla casa produttrice di recuperare il potere perduto a causa della mancata adesione agli standard moderni, concentrandosi piuttosto sui classici melodrammi destinati a un pubblico prevalentemente femminile.

In seguito alla nuova disposizione postbellica dell’apparato industriale, il numero delle major era aumentato a tal punto che il monopolio del mercato fu spartito tra sei grandi case: Nikkatsu, Shochiku, Daiei, Toho, Shintoho e la neocostituita Toei. Mentre la Daiei era occupata nella realizzazione di film di alta qualità e continuava a rivolgere la sua attenzione al mercato estero, la Toho era ancora troppo debole per reggere il confronto con le altre case. In tale contesto, la Toei si fece avanti proponendo un piano di produzione il cui scopo era distribuire un nuovo doppio programma ogni settimana: il piano permise alla casa di concentrarsi sulla produzione interna di film in costume con budget decisamente ridotti.

Dal 1950 ci fu anche una rinnovata proliferazione di compagnie indipendenti, interessate principalmente alla politica. Nello stesso anno, infatti, un provvedimento del Comandante Supremo delle Forze Alleate aveva allontanato i comunisti da tutti gli organismi di comunicazione di massa attraverso la cosiddetta red purge, che aveva già coinvolto numerosi nomi celebri a Hollywood. Le più importanti tra queste case nascenti furono la Studio 8, fondata da Gosho Heinosuke, la Kindai Eiga Kyokai e la Shinsei Eigasha. In alcuni casi la scelta dell’indipendenza risiedeva piuttosto nel desiderio di usufruire di una libertà creativa fino ad allora limitata da alcune major, come la Shochiku.

Mentre già nel 1953 la quasi totalità delle sale cinematografiche proiettava spettacoli a doppio programma, l’industria aveva l’onere di soddisfare sia le esigenze del pubblico locale che quelle dell’audience straniera. Tuttavia, a causa di una fiacca coordinazione tra le major non fu possibile attuare in questi anni una politica esportatrice adeguata; soltanto nel 1957 la creazione della UniJapan Film compensò l’assenza di un organismo centrale destinato all’esportazione.

Lorenzo Leva

 

Lorenzo Leva nasce a Fermo nel 1990 ed è laureato in Lingue, Mercati e Culture dell’Asia (Università di Bologna). Ha approfondito le sue conoscenze riguardanti l'economia, la cultura e la società giapponese durante un periodo di sei mesi presso la Université Paris Diderot-Paris VII di Parigi, con un Master in Asian Studies presso l'Università di Lund e un'esperienza di fieldwork presso la Waseda University a Tokyo.
Coltiva da anni una forte passione per il cinema orientale e giapponese in particolare, di cui ha analizzato l’evoluzione e le caratteristiche.

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lorenzo.leva@gmail.com


Storia del cinema giapponese: l'influenza americana

L’industria cinematografica giapponese è stata soggetta nel corso degli anni a notevoli trasformazioni, dovute principalmente al confronto con realtà esterne che sin dal principio hanno esercitato sul Paese del Sol Levante un grande fascino. L’interesse per le innovazioni straniere, tuttavia, ha da sempre dovuto scontrarsi con un atteggiamento ricorrente di fronte a qualsiasi tipo di novità: iniziale curiosità ed entusiasmo prima della piena assimilazione dell’idea e del conseguente adattamento ai propri modelli.

Tra le modernità importate, il cinema registrò da subito un’immediata popolarità. Il rapido processo di divulgazione della “settima arte” fu così attuato dalle prime case di produzione, che diedero un contributo essenziale alla nascita del sistema industriale cinematografico, nell’intento di ottenere una repentina espansione all’estero, attraverso l’importazione di nuovi macchinari provenienti dalla Francia.

Il successo riscosso dall’apertura del nuovo circuito di sale Fukuhodo di Tōkyō nel 1909 confermò i buoni propositi nel redditizio settore della produzione: la Fukuhodo fu tre anni dopo accorpata alle altre case in un grande trust plasmato sulla Motion Picture Patent Company americana, la Nikkatsu Corporation.

Dopo la costruzione di un nuovo studio nelle vicinanze di Asakusa, la prima major giapponese si specializzò nella realizzazione di drammi dello shinpa (la “nuova scuola”), arrivando già nel 1914 a produrre 14 film al mese e a possedere nel 1921 più della metà delle 600 sale cinematografiche dell’intero paese. Nel frattempo, con lo scoppio della prima guerra mondiale, gli Stati Uniti iniziarono a estendere il proprio dominio su Francia e Italia, i due paesi esportatori più importanti fino a quel momento.

L’egemonia del cinema americano nel primo dopoguerra e conseguentemente per l’intero decennio successivo fu testimoniata in particolar modo dalla nascita dello "studio system", un efficiente apparato industriale che prevedeva la fusione delle piccole compagnie in aziende maggiori a concentrazione verticale, capaci dunque di controllare produzione, distribuzione e proiezione delle pellicole, tramite l’acquisto o la costruzione delle sale.

Altre novità consistevano nella specializzazione dei ruoli attraverso l’introduzione di una nuova figura accanto a quella del regista, il producer, e nella nascita dello "star system": l’attore principale, spesso legato alla rispettiva casa da contratti a tempo indefinito, rappresentava dunque il mezzo fisico attraverso cui pubblicizzare i film, nonché il cardine di questo nuovo sistema produttivo che avrebbe funto poi da modello per lo sviluppo dell’industria cinematografica giapponese.

All’inizio degli anni Venti, il contributo più rilevante verso una nuova fase di radicale rinnovamento e prosperità provenne dall’intervento di Kido Shirō, direttore dei nuovi studi di Kamata della casa Shōchiku, che incrementò la produzione di opere gendaigeki: queste consistevano in drammi di ambientazione contemporanea, in forte contrapposizione con i film in costume denominati jidaigeki, ai quali era stato prevalentemente rivolto l’interesse del pubblico fino a quel momento.

In particolare, a favorire la proliferazione di opere jidaigeki fu l’imprescindibile influenza del teatro tradizionale sul cinema degli albori. Le prime produzioni cinematografiche, infatti, consistevano in rappresentazioni di geisha danzanti, attori famosi di kabuki e melodrammi popolari shinpa: questa forma teatrale ebbe origine in seguito alla restaurazione Meiji per l’impossibilità del kabuki di presentare commedie d’ambientazione contemporanea. Pur avendo esordito come teatro rivoluzionario e di propaganda della politica liberale e antifeudale, mantenne figure tradizionali come l’oyama (l’attore che interpretava i ruoli femminili, anche denominato onnagata).

La forte influenza del teatro si era manifestata inoltre nella necessità di trovare un personaggio che riuscisse a dare una spiegazione anticipatoria della rappresentazione, a fornire la voce ai vari personaggi, tradurre e commentare le scene in lingua straniera dei film importati e descrivere le tecniche cinematografiche utilizzate durante la proiezione. Questi compiti erano stati affidati al benshi, ruolo svolto principalmente da uomini che si sarebbe poi rivelato decisivo nello sviluppo del cinema giapponese.

Il potere incantatore dei benshi si sposava alla perfezione con le esigenze del pubblico e costituiva uno scoglio notevole per chi tentasse di scardinarlo o, addirittura, proporre nuove tecniche di ripresa; nonostante ciò, verso la fine degli anni Dieci era stato introdotto in Giappone il flashback, in seguito agli esperimenti tecnici di D. W. Griffith. Quest’ultimo aveva svolto un ruolo decisivo nell’applicazione all’interno del cinema americano del director system, che prevedeva la centralità nella figura del regista, e nell’elaborazione dell’innovativo montaggio alternato.

Il Paese, dunque, non era ancora preparato a un intero sconvolgimento del sistema tradizionale: il maggiore ostacolo al processo di “americanizzazione” era ancora rappresentato dalla presenza dei benshi, la cui popolarità aveva raggiunto il picco massimo tra la fine del primo conflitto mondiale e la metà degli anni Venti.

Lorenzo Leva

 

Lorenzo Leva nasce a Fermo nel 1990 ed è laureato in Lingue, Mercati e Culture dell’Asia (Università di Bologna). Ha approfondito le sue conoscenze riguardanti l'economia, la cultura e la società giapponese durante un periodo di sei mesi presso la Université Paris Diderot-Paris VII di Parigi, con un Master in Asian Studies presso l'Università di Lund e un'esperienza di fieldwork presso la Waseda University a Tokyo.
Coltiva da anni una forte passione per il cinema orientale e giapponese in particolare, di cui ha analizzato l’evoluzione e le caratteristiche.

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