Lost in Translation

 

Pur avendo vissuto a Tōkyō solo per sei mesi, sono stati abbastanza per lasciarmi travolgere dal ritmo frenetico della città. Una città che è caotica, ma riesce ad esserlo in modo ordinato, una città dove basta svoltare l’angolo per ritrovarsi di fronte a un tempio scintoista dove l’unico suono che si percepisce è quello dei propri passi. Questo è lo scenario che si incontra a Shinjuku. Definirla semplicemente una zona è pressappoco riduttivo: è una vera e propria metropoli a se stante, a ovest sede degli uffici governativi, le cui vie sembrano a tratti ricordare una New York esente da passanti, a est, un tripudio di luci colorate, di negozi e di locali che farebbero provare un senso di straniamento a chiunque, come accade al protagonista del film di Sofia Coppola, Lost in Translation.

 

Nel momento in cui si arriva alla stazione di Shinjuku bisogna fare i conti con il fatto che, trovare la giusta uscita, può essere una questione di pochi minuti, se si è fortunati, o di ore (la seconda opzione è decisamente quella più probabile). Non c’è da meravigliarsi, in fondo ogni giorno ci passano più di 3 milioni di persone, più o meno l’equivalente della popolazione romana. Una volta usciti da questo enorme labirinto, con lo stupore ancora in faccia dopo aver visto una miriade di giapponesi che corrono da una parte all’altra o con un cellulare in mano o leggendo un libro senza sfiorarsi neanche una volta, ci si scontra con la realtà di Shinjuku.

 

Spaesamento e meraviglia sono solo due delle possibili reazioni che ogni turista prova e nel momento in cui si scorge, anche solo in lontananza, un altro gaijin occidentale, spunta sul viso un sorriso quasi spontaneo che infonde sicurezza. Mano a mano che ci si incammina lungo la Meiji-dōri ci si lascia però travolgere da quell’inusuale atmosfera che circonda Shinjuku e proseguendo lungo la Yasukuni- dōri si arriva fino al Kabuki- chō, il cosiddetto quartiere a luci rosse costeggiato dai ben più famosi pachinko. Mentre attraverso queste vie era sorprendete il livello di sicurezza con la quale mi aggiravo e avevo la consapevolezza che, pur essendo da sola e straniera in un paese che non conosco, non mi poteva accadere niente.

 

Bastano davvero poche ore per familiarizzare con questa parte di Tōkyō e già sulla via del ritorno non sorprende più vedere una lunga coda di giapponesi presso la gelateria Grom oppure vedere un sosia di Johnny Depp, travestito da Jack Sparrow, aggirarsi lungo la via principale; neanche le voci strillanti di camerieri e di commesse che incitano i passanti a fermarsi proprio in quel locale o in quel ristorante danno più fastidio e a ogni angolo si cerca disperatamente di incontrare una di quelle giovani che distribuiscono fazzoletti gratuitamente. Non ci si meraviglia neanche di come facciano quelle strade a essere così pulite, considerando che i cestini dell’immondizia sono praticamente assenti. Tutto questo può succedere solo a Tōkyō.

Giulia Bianco


Visitando Takamatsu 高松

 

Quando si decide di visitare il Giappone, spesso e volentieri ci si concentra sulle classiche mete turistiche: Tōkyō, perché è la capitale, nonché paradiso tecnologico per molti occidentali, e Kyōto, perché rappresenta l’essenza culturale del paese, quella brezza orientale che piace così tanto agli stranieri. Qualcuno a volte allarga i propri orizzonti concedendosi un tour più completo lungo tutta l’isola Honshū, fermandosi a Kamakura, Ōsaka e Nara. Alcuni si spingono fino alla regione del Chūgoku per fare visita al parco della pace di Hiroshima o per ammirare uno dei più rinomati simboli del Giappone, i famosi torii galleggianti del santuario Itsukushima (purtroppo quando ci andai questa porta scintoista era ben lontana dall’essere immersa nell’acqua, complice una bassa, anzi bassissima marea).

E lo Shikoku? Questa piccola isola, quarta a livello di grandezza, ha da subito catturato la mia attenzione nel momento in cui stavamo programmando il nostro tour nella parte meridionale del Giappone. Dovrà pur esserci qualcosa di interessante da vedere, visto che è una meta per milioni di pellegrini che ripercorrono i passi del giovane monaco Kukai (fondatore del buddhismo Shingon) facendo visita agli 88 templi dell’isola.

La nostra scelta cade su Takamatsu e su Naruto, entrambe sulla costa settentrionale dell’isola e ben collegate con lo Honshū. Qui è come se il tempo si fosse fermato, è come se tutto quel processo di occidentalizzazione/americanizzazione, così evidente nelle grandi metropoli, non sia mai arrivato. È un altro Giappone quello che si percepisce nello Shikoku (o forse è il vero Giappone?): Takamatsu è avvolta da una tranquilla quiete sin dalle prime luci del mattino. La stazione centrale è quasi deserta e di stranieri manco l’ombra. Gli unici “turisti” sono probabilmente altri giapponesi venuti dalla main island. Decidiamo di affidarci alla mia guida turistica che dedica alla città un quarto di pagina, un po’ poco, però è sempre meglio di niente.

Il castello di Takamatsu è immerso nel parco Tamamo, dove ogni sfumatura di verde appare in forte contrasto con lo splendore delle pietre, sistemate perfettamente in linea per tracciare i piccoli sentieri da intraprendere per raggiungere una delle sale da tè. Il castello sembra essere la versione in miniatura di quelli più famosi di Himeji e di Ōsaka, però si può percepire alla stessa maniera il potere esercitato dallo shōgun nel XVII secolo. Dal parco Tamamo decidiamo di dirigerci verso il rinomato museo delle cere - un Madame Tussaud’s giapponese che riprende minuziosamente i punti salienti dello Heike monogatari. È in questo momento che ci rendiamo conto non solo di essere le uniche turiste della città, ma di essere anche le poche persone che camminano per strada. Per fortuna lungo il nostro cammino ci sono dei konbini, dove poter chiedere informazioni, altrimenti sarebbe stato impossibile raggiungere il museo, che si trova in un posto praticamente abbandonato, ricordante più un parcheggio in periferia che una tipica meta turistica. La gentilezza dei giapponesi non smetterà mai di sorprendermi ed è uno dei tanti motivi per i quali adoro questo paese, in particolare in una città come Takamatsu, dove è ben evidente la “carenza” di turismo occidentale, gli abitanti cercano di fare del loro meglio per darci le giuste indicazioni e nel momento in cui esordiamo con la tipica frase Nihongo de daijōbu desu (“Va bene anche in giapponese”), vediamo come i loro volti e i loro occhi si riempiono di gioia e di stupore ed è in quel momento che la loro volontà di volerci aiutare diventa maggiore. Come ultima tappa decidiamo di andare al parco Ritsurin, un’immensa distesa verde dove la natura sembra aver trovato la sua tranquillità: ogni angolo del giardino è talmente perfetto, quasi da sembrare irreale. È come un’oasi pacifica, nonché un luogo ideale per lasciarsi abbandonare alla meditazione, almeno per due ore, il tempo necessario per visitare tutto il parco.

Giulia Bianco


Un ponte dal Giappone

La rush hour non può essere descritta fino a che non la si è vissuta. Ogni spazio fino a circa un metro e sessanta centrimetri da terra è inesorabilmente occupato, con non poche difficoltà per le persone con statura più bassa.

Testo e foto di Rachele Grassi


Un ponte dal Giappone

Nonotante sia vissuto diversamente da come lo intendiamo noi, infatti qui è una festività per lo più alle coppie di innamorati, il Natale nella sua magia di luci e sensazioni si può avvertire anche qui. A Shinjuku, le terrazze vicino alla stazione sono adornate da moltissime luci dall'effetto suggestivo.

Foto e testo di Rachele Grassi


Un ponte dal Giappone

Per quanto da noi possa essere considerato sconveniente, in Giappone capita che all'interno di una chiesa cristiana, in occasione di una festa di Natale, ci sia il momento per dimostrazioni di arti marziali e di espressioni di altre culture.

Rachele Grassi