Lost in Translation

 

Pur avendo vissuto a Tōkyō solo per sei mesi, sono stati abbastanza per lasciarmi travolgere dal ritmo frenetico della città. Una città che è caotica, ma riesce ad esserlo in modo ordinato, una città dove basta svoltare l’angolo per ritrovarsi di fronte a un tempio scintoista dove l’unico suono che si percepisce è quello dei propri passi. Questo è lo scenario che si incontra a Shinjuku. Definirla semplicemente una zona è pressappoco riduttivo: è una vera e propria metropoli a se stante, a ovest sede degli uffici governativi, le cui vie sembrano a tratti ricordare una New York esente da passanti, a est, un tripudio di luci colorate, di negozi e di locali che farebbero provare un senso di straniamento a chiunque, come accade al protagonista del film di Sofia Coppola, Lost in Translation.

 

Nel momento in cui si arriva alla stazione di Shinjuku bisogna fare i conti con il fatto che, trovare la giusta uscita, può essere una questione di pochi minuti, se si è fortunati, o di ore (la seconda opzione è decisamente quella più probabile). Non c’è da meravigliarsi, in fondo ogni giorno ci passano più di 3 milioni di persone, più o meno l’equivalente della popolazione romana. Una volta usciti da questo enorme labirinto, con lo stupore ancora in faccia dopo aver visto una miriade di giapponesi che corrono da una parte all’altra o con un cellulare in mano o leggendo un libro senza sfiorarsi neanche una volta, ci si scontra con la realtà di Shinjuku.

 

Spaesamento e meraviglia sono solo due delle possibili reazioni che ogni turista prova e nel momento in cui si scorge, anche solo in lontananza, un altro gaijin occidentale, spunta sul viso un sorriso quasi spontaneo che infonde sicurezza. Mano a mano che ci si incammina lungo la Meiji-dōri ci si lascia però travolgere da quell’inusuale atmosfera che circonda Shinjuku e proseguendo lungo la Yasukuni- dōri si arriva fino al Kabuki- chō, il cosiddetto quartiere a luci rosse costeggiato dai ben più famosi pachinko. Mentre attraverso queste vie era sorprendete il livello di sicurezza con la quale mi aggiravo e avevo la consapevolezza che, pur essendo da sola e straniera in un paese che non conosco, non mi poteva accadere niente.

 

Bastano davvero poche ore per familiarizzare con questa parte di Tōkyō e già sulla via del ritorno non sorprende più vedere una lunga coda di giapponesi presso la gelateria Grom oppure vedere un sosia di Johnny Depp, travestito da Jack Sparrow, aggirarsi lungo la via principale; neanche le voci strillanti di camerieri e di commesse che incitano i passanti a fermarsi proprio in quel locale o in quel ristorante danno più fastidio e a ogni angolo si cerca disperatamente di incontrare una di quelle giovani che distribuiscono fazzoletti gratuitamente. Non ci si meraviglia neanche di come facciano quelle strade a essere così pulite, considerando che i cestini dell’immondizia sono praticamente assenti. Tutto questo può succedere solo a Tōkyō.

Giulia Bianco


Il canto dei carri: Saibara

Poche volte, anche in Giappone, si incontra il termine Saibara quando si guarda superficialmente alla storia della musica giapponese e spesso viene erroneamente confuso o associato ad altri repertori vocali afferenti il composito universo del Gagaku. Eppure tale tipologia di canti sono sicuramente tra i più rappresentativi e antichi della tradizione giapponese, risalenti ad origini, secondo l'ipotesi oggi più accreditata, popolari. Il termine, per quanto non con una traduzione univoca, fa riferimento infatti ai "conducenti di carri", funzionari che in epoca Heian erano principalmente addetti alla riscossione dei tributi nelle varie regioni del paese.

Portato al suo massimo splendore da Minamoto no Masanobu (920 - 993), si ritrovano echi di tale genere ancora nel Genji Monogatari, grazie ad una tradizione continuata a corte, che inserì il Saibara nel repertorio vocale del Gagaku garantendone anche la sopravvivenza. Dei cinquantacinque canti oggi superstiti però soltanto sei fanno ancora parte di tale repertorio di cui soltanto due eseguiti ancora in maniera quasi stabile. Proprio il fatto di appartenere oggi ad un repertorio di origine non autoctona rende però difficile la possibilità di ricostruire la loro forma popolare, poiché rimasti soggetti, loro come molte altre composizioni, ad una riscrittura che adattò la musica e i testi alla nuova funzione di corte. Le musica ed il canto, oggi ricostruibili solo attraverso due "intavolature" musicali, si caratterizza per un allungamento vocalico con l'aggiunta di formule decorative che danno varietà al canto mentre l'orchestra è costituita dall'ensemble classico normalmente utilizzato nel Gagaku con l'aggiunta di quello che in occidente potrebbe essere chiamato "maestro di coro", Kutou, che da il tempo con il battito degli Shakubyoshi.

Edmondo Filippini


Takarazuka - una compagnia di sole donne

Il Takarazuka 宝塚 rappresenta uno dei fenomeni più affascinanti quanto misteriosi del panorama teatrale giapponese, definito spesso come un luogo eccentrico, perverso e ben distante dal mondo reale. La compagnia, composta esclusivamente da ragazze, venne fondata nel 1913 da Kobayashi Ichizō 小林一三 e, in un primo momento, nacque come un’organizzazione amatoriale con lo scopo di intrattenere i turisti nell’omonima località termale Takarazuka, una piccola cittadina del Kansai. Con il passare degli anni la compagnia si espanse in modo notevole diventando per molte giovani un ottimo escamotage per sfuggire, almeno temporaneamente, alla rigida etichetta di ryōsai kenbo 良妻賢母 (“essere una buona moglie e una saggia madre”), promossa dal governo nei primi anni del XX secolo. In verità il Takarazuka si colloca in una via di mezzo tra due estremi: da una parte offriva la possibilità a molte ragazze di intraprendere una carriera a sé stante e di uscire così dalla semplice routine, dall’altra, però, incarnò il rigore e la ferrea disciplina imposta dalla società giapponese.

Le takarasienne (così vengono definite le “attrici” della compagnia) si specializzano in ruoli maschili (otokoyaku 男役) o in ruoli femminili (musumeyaku 娘役), la cui rappresentazione è volutamente lontana dal potersi definire reale. Il Takarazuka, del resto, si pone come obiettivo quello di “vendere dei sogni” e di far trasportare lo spettatore verso un mondo onirico, grazie anche a una scenografia particolarmente sfarzosa, a costumi molto elaborati e a un ingegnoso gioco di luci.

La compagnia è suddivisa al suo interno in cinque troupe:

* la hana gumi 花組 (troupe dei fiori);

* la tsuki gumi 月組 (troupe della luna);

* la yuki gumi 雪組 (troupe della neve);

* la hoshi gumi 星組(troupe delle stelle);

* la sora gumi 宙組 (troupe del cielo).

e ognuna di esse, oltre a essere rappresentata da una coppia di cosiddette Top Star, ovvero le due takarasienne più rinomate e talentuose del momento, è caratterizzata da un proprio stile interpretativo. La yuki gumi, ad esempio, è solita mettere in scena drammi appartenenti alla letteratura giapponese, al contrario della tsuki gumi, che si è specializzata nella rappresentazione di musical occidentali.

Il Takarazuka propone ogni anno un vasto assortimento di spettacoli, che spazia dai grandi melodrammi a rappresentazioni giapponesi reinventate in stile occidentale, dai musical della golden age broadwayana a quelli tratti dalla letteratura o basati su eventi storici, ognuno dei quali si conclude con un’imponente parata, durante la quale tutte le attrici si esibiscono per l’ultima volta indossando costumi molto appariscenti.

Nonostante la compagnia sia stata definita per molti versi “eccentrica” e piena di riferimenti riguardanti la presunta ambiguità sessuale delle ragazze, in particolare nei confronti di quelle che ricoprono ruoli maschili, l’intento del Takarazuka non è mai stato quello di scandalizzare o di promuovere un comportamento amorale; al contrario il messaggio che si cerca di tramandare è quello di un puro intrattenimento teatrale che fa da cardine ai tre principi promossi da Kobayashi:

kiyoku, tadashiku, utsukushiku 清く、正しく、美しく, ovvero “Sii pura, sii onesta, sii bella!”.

Giulia Bianco

 

 


Estetica giapponese

Foto di Alberto Moro

 

Lo studio moderno di un’estetica giapponese nel senso occidentale è iniziata soltanto poco più di due secoli fa. Ma, con il termine estetica giapponese, tendiamo a significare non i presente studio moderno ma una serie di ideali antichi che includono il wabi (la bellezza passeggera e rigida), sabi (la bellezza della patina naturale e dell’invecchiamento), e yūgen (profonda grazia e sottigliezza).1) Questi ideali, e altri, sottendono molte delle norme culturali ed estetiche giapponesi su ciò che è considerato di gusto o bello. Così, mentre è vista come una filosofia nelle società occidentali, il concetto di estetica in Giappone è vista come parte integrante della vita quotidiana.2) L’estetica giapponese abbraccia ora una varietà di ideali, alcuni dei quali sono tradizionali mentre altri sono moderni e talvolta influenzati da altre culture.3)

 

Shinto-Buddismo

Lo shintoismo è considerato essere la sorgente della cultura giapponese.4)  Con la sua enfasi sull’interessa della natura e il carattere dell’etica, e la sua celebrazione del paesaggio, stabilisce il tono dell’estetica giapponese. Ciononostante, gli ideali estetici giapponesi sono prevalentemente influenzati dal Buddismo giapponese.5) Nella tradizione buddista, tutte le cose sono considerate sia evolvere che dissolvere nel nulla. Questo “nulla” non è uno spazio vuoto. È, piuttosto, uno spazio di potenzialità.6) Se prendiamo i mari come rappresentanti del potenziale allora ogni cosa è come un’onda che deriva da esso e ritorna ad esso. Non esistono onde permanenti. Non esistono onde perfette. In nessun punto, un’onda è completa, anche al suo apice. La natura è vista come un interoo dinamico che deve essere ammirato e apprezzato. Questo apprezzamento della natura è stato fondamentale per molti ideali estetici giapponesi, “arti” e altri elementi culturali. A tale riguardo, la nazione di “arte” (o il suo equivalente concettuale) è anche abbastanza differente dalle tradizioni occidentali (vedi arte giapponese).

 

Wabi-sabi

Articolo principale: Wabi-sabi

Wabi e sabi si riferiscono a un attento approccio alla vita quotidiana. Nel corso del tempo i loro significati si sono sovrapposti e sono convertiti fino a unificarsi in Wabi-sabi, l’estetica definitiva la bellezza delle cose “imperfette, impermalenti e incomplete”.6) Le cose in bocciolo o le cose in decadenza sono più evocative del wabi-sabi delle cose in piena fioritura perché suggeriscono la transienza delle cose. Mentre le cose vengono e vanno, presentano segni del loro andare e venire e questi segni sono considerati belli. In questo, la bellezza è uno stato alterato della consapevolezza e può essere vista  nel mondano e nel semplice. Le firme della natura possono essere così sottili che solo una mente tranquilla e un occhio coltivato le possono discernere.7) Nella filosofia Zen esistono sette principi estetici per raggiungere il Wabi-Sabi.8

 

Fukinsei: asimmetria, irregolarità; Kanso: semplicità; Koko: fondamentale, patinato; Shizen: senza pretese, naturale; Yugen: grazia sottilmente profonda, non ovvia; Datsuzoku: slegato dalle convenzioni, libero; Seijaku: tranquillità.

 

Ciascuna di queste cose si trovano in natura ma possono suggerire virtù del carattere umano e appropriatezza del comportamento. Ciò, a sua volta suggerisce che la virtù e la civiltà possono essere instillate attraverso l’apprezzamento e la pratica delle arti. Quindi, gli ideali estetici hanno una connotazione etica e pervadono molta della cultura giapponese.9)

 

Miyabi

 

Articolo principale: Miyabi

 

Miyabi è uno degli ideali estetici giapponesi tradizionali più antichi, anch se non prevalente come l’iki e il wabi-sabi. Nel giapponese moderno, la parola è tradizionalmente tradotta con “eleganza”, “raffinatezza” o “cortesia” e talvolta si riferisce a un “rubacuori”.

 

L’ideale aristocratico di Miyabi richiedeva l’eliminazione di tutto quello che era assurdo o volgare e la “limatura delle maniere, della dizione e dei sentimenti per eliminare tutta la rozzezza e crudezza così da raggiungere la massima grazia”. Esprimeva quella sensibilità alla bellezza che è la pietra miliare dell’epoca Heian. Miyabi è spesso strettamente connesso alla nozione di Mono no aware, una consapevolezza agrodolce della transienza delle cose e così si pensava che le cose in declino presentassero un gran senso di miyabi.

 

Shibui

Articolo principale: Shibui

Shibui (aggettivo), shibumi (nome) o shibusa (nome) sono parole giapponesi che si riferiscono a una particolare estetica o bellezza della bellezza semplice, sottile e non vistosa. Originatosi nel periodo Muromachi (1336-1392) come shibushi, il termine si riferiva in origine a un gusto amaro o astringente, come quello di un kaki non maturo. Shibui mantiene ancora questo significato letterale e rimane l’antonimo di amai, che significa “dolce”. Come altri termini estetici giapponesi, quali iki e wabi-sabi, shibui si può applicare a un’ampia varietà di soggetti, non solo all’arte o alla moda. Shibusa include le seguenti qualità essenziali: 1) gli oggetti shibui appaiono un insieme semplice ma includono sottili dettagli, quali la trama, che bilanciano la semplicità con la complessità. 2) Questo equilibrio di semplicità e complessità garantisce il fatto di non stancarsi di un oggetto shibui ma di trovare costantemente nuovi significati e una bellezza arricchita che provoca la crescita del suo valore estetico nel corso degli anni. 3) Shibusa non deve essere confuso con wabi o sabi. Benché molti oggetti wabi o sabi siano shibui, non tutti gli oggetti shibui sono wabi sabi. Gli oggetti wabi o sabi possono essere più severi e talvolta esagerare le imperfezioni intenzionali in una tale misura che possono apparire artificiali. Gli oggetti shibui non sono necessariamente imperfetti o asimmetrici, benché possano includere queste qualità. 4) Shibusa cammina su un filo teso fra concetti estetici contrastanti quali elegante e rozzo o spontaneo e controllato.

 

Iki

Articolo principale, Iki (ideale estetico)

Iki è un ideale estetico tradizionale in Giappone. La base dell’iki si pensa si sia formato fra la classe mercantile urbana (Chōnin) a Edo nel periodo Tokugawa. Iki è un’espressione della semplicità, sofisticatezza, spontaneità e originalità. È effimero, diretto, misurato e inconsapevole. L’iki non è esageratamente raffinato, pretenzioso, complicato. L’iki può significare un tratto personale o un fenomeno artificiale che presenta la volontà o la consapevolezza umana. L’Iki non è utilizzato per descrivere fenomeni naturali ma può essere espresso nell’apprezzamento umano della bellezza naturale o nella natura degli essei umani. L’espressione iki è utilizzata generalmente nella cultura giapponese per descrivere qualità che sono esteticamente attraenti e quando è applicata a una persona, a quello che fa o ha, costituisce un grosso complimento. L’iki non si trova in natura. Mentre analogamente a wabi-sabi in quanto disdegna la perfezione, l’iki è un termine ampio che abbraccia varie caratteristiche relative alla raffinatezza con gusto. Le manifestazioni di gusto della sensualità possono essere iki. Etimologicamente, l’iki ha una radice che significa puro e non edulcorato. Comunque, comunica anche una connotazione di un appetito nei confronti della vita.10)

 

Jo-ha-kyū

Jo-ha-kyū è un concetto di modulazione e movimento applicato a un’ampia varietà di arti tradizionali giapponesi. Approssimativamente tradotto con “inizio, interruzione, rapido”, inferisce un ritmo che parte lentamente, accelera e quindi finisce velocemente. Questo concetto si applica agli elementi della cerimonia del tè giapponese, al kendō, al teatro tradizionale, al Gagaku e alle forme di verso collegato collaborative tradizionali renga e renku (haikai no renga):11)

 

Yūgen

Lo yūgen è un importante concetto nell’estetica tradizionale giapponese. La traduzione esatta della parola dipende dal contesto. Nei testi filosofici cinesi, da cui è stato tratto il termine, lo yūgen significa “tetro”, “profondo” o “misterioso”. Nella critica della poesia waka giapponese, è stato utilizzato per descrivere la sottile profondità delle cose che sono solo vagamente suggerite dalle poesie ed è anche stato il nome di uno stile poetico (uno dei dieci stili ortodossi delineati da Fujiwara no Teika nei suoi trattati).

Lo yūgen suggerisce che al di là di quello che possa dirsi non è un’allusione a un altro mondo.12) Riguarda questo mondo, questa esperienza. Tutti questi sono portali per lo yūgen:

“Guardare il sole immergersi dietro alla collina rivestita di fiori. Camminare in un’immensa foresta senza pensiero di ritorno. Stare in piedi sulla spiaggia e osservare una barca che scompare dietro alle isole in lontananza. Contemplare il volo delle anatre selvatiche viste e perse fra le nuvole. E le sottili ombre del bambù sul bambù.” Zeami Motokiyo

Zeami è stato il creatore della forma d’arte drammatica del teatro Noh e ha scritto il libro classico sulla teoria drammatica (Kadensho). Utilizza immagini della natura come metafora costante. Ad esempio, “la neve in una coppa d’argento” rappresenta il Fiore della Tranquilllità”. Lo yūgen si dice significhi “un senso profondo e misterioso della bellezza dell’universo… e la triste bellezza dell’umana sofferenza”.13)  È utilizzato per riferirsi all’interpretazione di Zeami della “raffinata eleganza” nella performance del Noh.14)

 

Geidō

Il geidō si riferisce alla modalità delle arti giapponesi tradizionali: il Noh (teatro), il kadō (disposizione giapponese dei fiori), lo shodō (calligrafia giapponese), il Sadō (cerimonia del tè giapponese) e lo yakimono (ceramica giapponese). Tutte queste modalità presentano una connotazione etica ed estetica e apprezzano il processo della creazione.9) Per introdurre la disciplina nel training, i guerrieri giapponesi seguivano l’esempio delle arti che sistematizzavano la pratica attraverso forme prescritte chiamate kata – pensate alla cerimonia del tè. L’allenamento nelle tecniche di combattimento incorporava le modalità delle arti (Geidō), la pratica nelle stesse arti e l’instillare i concetti estetici (ad esempio, lo yūgen) e la filosofia delle arti (geido ron). Ciò portò a tecniche di combattimento diventate conosciute come arti marziali (anche oggi, David Lowry dimostra in “La spada e il pennello: lo spirito delle arti marziali”, l’affinità delle arti marziali con le altre arti). Tutte queste arti sono una forma di tacita comunicazione e possiamo rispondere ad esse apprezzando questa tacita dimensione.

 

Ensō

Articolo principale: Ensō

 

Ensō è una parola giapponese che significa “cerchio”. Simbolizza l’Assoluto, l’illuminazione, la forza, l’eleganza, l’Universo e il vuoto; può essere preso anche a simbolo l’estetica stessa giapponese. I calligrafi buddisti Zen possono “credere che il carattere dell’artista sia pienamente esposto nel modo in cui disegna un ensō. Alcuni artisti praticheranno il disegno di un ensō quotidianamente, come una sorta di esercizio spirituale.”15)

 

L’estetica e le identità culturali giapponesi

A causa della sua natura, l’estetica giapponese ha una rilevanza più ampia di quella solitamente accordata all’estetica in Occidente. Nel suo illuminante libro, 16) Eiko Ikegami rivela una storia complessa di via sociale in cui gli ideali estetici diventano centrali per le identità culturali giapponesi. Lei dimostra come le reti nelle arti performanti, la cerimonia del tè e la poesia abbiano forgiato tacite pratiche culturali e come la gentilezza e la politica siano inseparabili. Sostiene che ciò che in Occidente è normalmente disperso, come l’arte e la politica, sono stati e sono nettamente integrate in Giappone..

Dopo l’introduzione delle nozioni occidentali in Giappone, gli ideali dell’estetica wabi sabi sono stati riesaminati con i valori occidentali, sia dai giapponesi che dai non giapponesi. Pertanto, le recenti interpretazioni degli ideali estetici inevitabilmente riflettono le prospettive giudeo-cristiane e la filosofia occidentale.17)

 

Gastronomia

Molti criteri estetici giapponesi tradizionali si manifestano, e sono discussi come parti, dei diversi elementi della cucina giapponese.18)

 

Kawaii

 

Articolo principale: Kawaii

Fenomeno moderno, dagli anni Settanta la graziosità o kawaii, (letteralmente amabile, grazioso o adorabile) è diventato un importante criterio estetico della cultura popolare giapponese, dell’intrattenimento, della moda, del cibo, dei giocattoli, dell’aspetto personale, del comportamento e del manierismo.19)

Come fenomeno culturale, la graziosità è sempre più accettata in Giappone come parte della cultura giapponese e dell’identità nazionale. Tomoyuki Sugiyama, autore di “Cool Japan” ritiene che la “graziosità” sia radicata nella cultura giapponese che ama l’armonia e Nobuyoshi Kurita, professore di sociologia alla Musashi University a Tokyo, ha dichiarato che “carino” è un “termine magico” che abbraccia tutto ciò quello che è accettabile e desiderabile in Giappone.20)

 

Traduzione di Mariella Minna


Iki (ideale estetico)

 Iki, è un ideale estetico tradizionale in Giappone. La base dell’iki si pensa si sia formata fra i cittadini comuni (Chōnin) a Edo nel periodo Tokugawa. Iki è talvolta compreso male come se indicasse semplicemente “qualsiasi cosa di giapponese” ma è in realtà un ideale estetico specifico, distinto dalle nozioni più eteriche di trascendenza o povertà. In quanto tale, i samurai, ad esempio in quanto classe, essere tipicamente considerati privi di iki (vedi yabo). Allo stesso tempo, i singoli guerrieri sono rappresentati spesso nell’immaginazione popolare contemporanea come incarnanti gli ideali dell’iki come maniera semplice ed elegante e con una sincerità schietta e incrollabile. Il termine si diffuse nei moderni circoli intellettuali attraverso il libro La struttura dell’”iki” (1920) di Kuki Shūzō.

 

Interpretazione

Iki, essendo emerso dalla mondana classe dei mercanti giapponesi, può apparire in qualche modo un’espressione più contemporanea dell’estetica giapponese dei concetti quali wabi-sabi. Il termine è utilizzato comunemente nelle conversazioni e per iscritto ma non esclude necessariamente altre categorie di bellezza.

 

Iki è un’espressione di semplicità, sofisticatezza, spontaneità e originalità. È effimero, romantico, diretto, misurato, audace, brillante e inconsapevole.

 

Iki non è esageratamente raffinato, pretenzioso, complicato, vistoso, abile, civettuolo o generalmente carino. Allo stesso tempo, l’iki può esibire qualsiasi di questi tratti in maniera brillante, diretta e impassibile.

 

Iki può significare un tratto personale, o un fenomeno artificiale che mostra la volontà o la consapevolezza umana. L’Iki non è utilizzato per descrivere i fenomeni naturali ma può essere espresso nell’apprezzamento umano della bellezza della natura o nella natura degli esseri umani. Murakami Haruki (nato nel 1949), che scrive in uno stile chiaro e senza fronzoli – a volte sentimentale, fantastico e surreale – è descritto come un’incarnazione dell’iki. In contrasto, Kawabata Yasunari (1899-1972) scrive in una vena più poetica, con un’attenzione più vicina al “complesso” interiore dei suoi protagonisti, mentre le situazioni e le ambientazioni presentano una sorta di wabi-sabi. Ciò detto, le differenze stilistiche possono tendere a distrarci da una soggettività emotiva similare. In realtà, l’iki è fortemente legato alle tendenze stilistiche.

 

Iki e tsū

L’ideale indefinito del tsū si può dire riferisca a una sensibilità altamente coltivata ma non necessariamente solenne. La sensibilità Iki/tsu resiste essendo stata costruita all’interno del contesto di regole ultra specifiche sul che cosa potrebbe essere considerato volgare o gretto.

L’iki e lo tsu sono considerati sinonimi in determinate situazioni ma lo tsu si riferisce esclusivamente alle persone, mentre l’iki può riferirsi anche alle situazioni/oggetti. In entrambi gli ideali, la proprietà di raffinatezza non è accademica per natura. Lo tsu coinvolge talvolta un’eccessiva ossessione e la pedanteria culturale (ma non accademica) e in questo caso, differisce dall’iki che non sarà ossessivo. Lo tsu è utilizzato, ad esempio, per sapere come apprezzare adeguatamente (mangiare) le cucine giapponesi (sushi, tempura, soba ecc.). Lo tsu (e qualche stile iki) può essere trasferito da persona a persona sotto forma di “consigli”. Mentre lo tsu è più focalizzato sulla conoscenza, potrebbe essere considerato superficiale dal punto di vista dell’iki, dal momento che l’iki non può essere raggiunto facilmente con l’apprendimento.

 

Iki e Yabo

Termine principale: Yabo

Yabi è l’antonimo di iki. Busui, letteralmente “non-iki”, è sinonimo di yabo.

 

Iki e Sui

Nell’area del Kansai, l’ideale del sui è prevalente. Sui è rappresentato anche dall’ideogramma “..”. Il senso di sui è simile all’iki ma non identico e riflette varie differenze regionali. Anche i contesti del loro utilizzo sono diversi.

 

Note

1. Gallaher, John. Geisha. A unique World of Tradition. Elegance and Art. p. 8

 

Traduzione di Mariella Minna


Mai mai scorderai, l'attimo, la terra che tremò

Con queste parole, sulle note di una indimenticabile sigla, arriva nel 1986 in Italia una delle serie che più ha lasciato il segno nell'immaginario collettivo e nel panorama dell'animazione degli ultimi trent'anni: Ken il Guerriero, in lingua originale Hokuto no Ken, letteralmente il pugno di Hokuto.

Già in quel periodo la TV italiana aveva trasmesso serie caratterizzate da personaggi cupi e violenti, come Devilman, l'Uomo Tigre e Bem. I ragazzi italiani quindi non erano del tutto a digiuno di scene di sangue o di violenza. Ken il Guerriero però era diverso.

E colpì tutti al cuore.

In un mondo futuristico post-atomico, Kenshiro, l'uomo dalle sette stelle, l'erede della divina scuola di Hokuto, inizia il suo cammino in un mondo in preda al caos. Alla ricerca della sua amata Julia, andrà in aiuto dei più deboli per difenderli dai soprusi dei più forti, per ridare al mondo la pace e agli uomini la speranza.

La storia di Ken infatti narra in maniera estremamente delicata e profonda l'eterna lotta tra il bene e il male. Racconta di un Buono che non è solo buono ma è umano, ama e uccide, soffre e lotta perché nessuno soffra più. Un personaggio all'apparenza molto freddo e schivo che non esita a schiacciare il nemico se merita di morire, ma è pronto a sacrificare la propria vita per l'amore stesso.

I temi dell'amore, della giustizia, della pace e dell'onore, raccontati attraverso una violenza continua, il sangue e la sofferenza (altri temi molto cari ai manga giapponesi), hanno portato la serie di Ken ad acquisire la fama che ancora oggi lo accompagna. Tutte le storie dei  personaggi principali della serie gravitano attorno all'amore che muove ogni cosa, l'amore che unisce un uomo e una donna, che lega due amici, o una madre al figlio. Anche i più crudeli avversari di Ken in punto di morte si pentono ed esprimono il rimpianto e la disperazione per non essere stati amati, e per avere rinunciato nella loro vita ad ogni forma d'amore.

Il messaggio di Kenshiro è un messaggio di pace, dell'importanza di amare il prossimo e, pur di proteggerlo, di non arrendersi di fronte a nulla – ad ogni costo. Il fatto che la violenza e la morte siano all'ordine del giorno nello scenario in cui si muove l'eroe è funzionale al suo percorso. Più le prove sono ardue, più il delitto è efferato, maggiormente il sacrificio di Ken assume contorni epici e quasi messianici: non a caso viene spesso chiamato il Salvatore.

Verso la metà degli anni '90, in un panorama televisivo che non era ampio come l'attuale e con la diffusione capillare di Internet ancora da venire, le forti immagini e situazioni proposte dalla serie – unite a episodi di cronaca nera in cui venne tirata in ballo la cattiva influenza di Ken sulle giovani menti – hanno spaventato reti televisive e genitori preoccupati, che reputarono la serie diseducativa e fonte di comportamenti antisociali. Sull'onda emozionale, le continue repliche sulle piccole emittenti locali venne interrotta più o meno bruscamente. Qualche anno dopo venne riproposta sulla neonata La7 ma pesantemente censurata e rimaneggiata nelle scene più cruente. Inutile dire che il successo non fu lo stesso; le nuove generazioni avevano già trovato altri eroi.

Sia quel che sia il personaggio di Ken divenne in poco tempo un'icona tra i più giovani e la sua storia, negli anni, è stata seguita e amata da più di tre generazioni. Il mondo del manga e dell'animazione deve un tributo a Buronson e Hara per aver creato un mito, non tanto per le soluzioni grafiche (comunque di rilievo) o per i dialoghi brillanti e profondi, quanto per aver creato un personaggio e una storia che parlano in maniera unica di valori universali e immortali. Un'opera che nel suo complesso rimarrà a lungo una pietra di paragone per chi ama, fa e legge fumetti.

 

Alessandro Castrati

Hokuto no Ken

 

1° edizione Manga:                                             1° trasmissione Anime (prima e seconda serie):

Autori: Buronson - Tetsuo Hara                           Studio: Toei Animation -Fuji Tv  (1984 -1988)

Ed. Shueisha (1983 -1988)

 

Ricordiamo con l'occasione che domani, domenica 13 maggio, continua l'evento Japan Sundays organizzato presso WOW Spazio Fumetto di Milano. Rimandiamo al nostro sito per ulteriori informazioni.


Kodomo no hi, la festa dei bambini

 Il 5 maggio è kodomo no hi (chiamato, tradizionalmente, tango no sekku), il giorno dei bambini. Cerimonie e feste in cui si augurano felicità e prosperità a tutti i maschietti si tengono in tutto il Giappone.

Nelle case vengono esposte armature o kabuto (elmi) a scopo beneaugurante, affinché i ragazzi sviluppino uno spirito guerriero forte e salutare. Le cosiddette gogatsu ningyō, le bambole di maggio, sono esposte su una piccola piattaforma a tre gradini su cui vengono sistemati un’armatura, un elmo, un tamburo e altri simboli dell’arte della guerra secondo la tradizione dei bushi. A volte la statua di un cavallo accompagna l’armatura: anticamente, infatti, la giornata era anche chiamata “festa del cavallo” poiché questo nobile animale simboleggiava nell’immaginario tradizionale le caratteristiche della mascolinità, del coraggio e della forza.

Durante kodomo no hi si appendono sulle porte di casa foglie di iris e di artemisia in segno di augurio e si prendono bagni caldi nelle vasche in cui galleggiano petali e foglie di iris affinché le foglie di questa pianta, la cui forma allungata e appuntita ricorda quella di una spada, instillino lo spirito combattivo di un guerriero in chi si vi immerge. Del resto la festa era anticamente chiamata anche shōbu no sekku, festa dell’iris. Anticamente era tradizione, nella prefettura di Hyōgo, nel Giappone centrale, di strappar fuori dalla terra delle radici di iris (shōbu) e sistemarle accuratamente in una corona verde facendone emergere due rizomi, simili alle corna di un toro. Si regalavano poi queste corone naturali ai maschietti che, indossandole per la giornata, avrebbero ottenuto la forza caratteristica di quell’animale.

Un altro costume legato a questo giorno di festa  è quello di  mangiare polpettine di riso avvolte in foglie bambù e chiamate chimaki e dolci di riso ripieni di pasta di fagioli azuki e avvolti in foglie di quercia, chiamati kashiwa mochi.

Ma un’altra tradizione legata a questa festa connota in senso fiabesco il paesaggio giapponese agli inizi di maggio.

Fuori dalle case, infatti, si espongono pali di bambù che recano stendardi colorati a forma di carpa (koinobori), tanti quanti sono i figli maschi e di grandezza proporzionata all’età dei ragazzi di casa. Tradizionalmente vanno legati a un pennone, detto fukinagashi, una carpa nera, rappresentante il padre, detta magoi, una carpa rossa per la madre, chiamata higoi e carpe più piccole, una per ogni figlio. La carpa che risale la corrente è infatti simbolo di resistenza e di forza e i ragazzi devono imitarla, affrontando con coraggio e ottimismo le difficoltà della vita.

Anche se è ormai molto raro che vengano utilizzate carpe di carta dipinte a mano mentre è capillarmente diffuso l’uso di carpe di cotone stampato e di nylon, non è difficile ancora ammirare, soprattutto nel Giappone rurale, carpe in cotone dipinte a mano di varie dimensioni e in bellissimi colori. Questi stendardi dalla forma particolare, che agitano la coda al minimo alito di vento, costituiscono un elemento caratteristico del paesaggio giapponese in questo scorcio di maggio e restano a lungo nella mente del viaggiatore come un’immagine di giocosa bellezza.

Rossella Marangoni

Sarà possibile ammirare un corredo di guerriero per la festa dei bambini durante la manifestazione Japan SunDays, che prevede dimostrazioni ed esposizioni di arti tradizionali giapponesi e che si terrà domenica 6 maggio presso WoW Museo del Fumetto di Milano, in viale Campania 12. Orario di apertura: 15-20. Ingresso libero.


Basta mettere i fiori dentro il vaso

 

Il chabana è spesso difficile e mi intimidisce abbastanza perché in realtà non ci sono molte regole, linee guida e procedure. Bisogna farlo e guardare i risultati, ripetendo di volta in volta.Il modo in cui sono disposti i fiori dice molto del padrone di casa.Attraverso la sua scelta dei fiori, del vaso e della disposizione, vediamo nel suo cuore.

Spesso, abbiamo poche scelte di fiori in inverno ma ora c’è abbondanza di fiori tra cui scegliere. Ne servono solo alcuni. Talvolta si è fortunati e gli abbinamenti si producono da soli. Ad esempio, ho avuto molto piacere per la disposizione di questo mese per la dimostrazione del tè del Giardino Giapponese di Portland.

Sono uscita di mattina presto nel mio quartiere per cercare i fiori per il chakai. Un mio vicino ha un’azalea molto grossa e gli ho chiesto se potevo raccoglierne qualcuna.Dopo aver ottenuto il permesso, ho visto questo ramo a cascata e l’ho portato nella stanza del tè per disporlo.

I fiori hanno una sfumatura leggermente rosata verso i bordi dei petali. Il ramo a cascata era sottostante il livello dell’apertura e il gambo era piuttosto corto e il vaso di bambù era perfetto. L’ho messo con attenzione nel vaso per guardarlo. Non ho fatto nient’altro dopo di ciò.  Non l’ho agitato, non l’ho ridisposto, non l’ho spuntato. I fiori e le foglie erano ancora umidi per la pioggia mattutina e la disposizione, benché un po’ selvatica, aveva un aspetto piuttosto innocente.

In questo caso la lezione per me è iniziare a disporre il chabana ancora prima di aver tagliato i fiori. Cercare e cercare i fiori e immaginare in quale vaso dovrebbero stare. Prima scegliere i fiori e poi il vaso.

Tradotto dal blog di Sweet Persimmon da Mariella Minna


L’iki e la modernità

 

L'”Iki” e la “modernità”, applicati al Kimono, sono difficili da spiegare – ma nella misura in cui la differenza fra i due termini esiste in maniera definitiva nel mondo del Kimono, questi due termini devono essere compresi se si deve parlare del Kimono o saperne qualcosa.

L’”Iki” nel caso del Kimono non significa la stessa cosa di una “persona chic” o avere “un bell’aspetto”. Fra le donne che indossano il Kimono, i termini  “Iki “ e “Shibui” e “moderno” sono utilizzati spesso. A parte da “moderno”, questi sono termini non applicati generalmente agli abiti in stile occidentale. Una rigida interpretazione di questi termini sembrerebbe renderli  l’antitesi del “moderno”, ma non è così dal momento che tali termini possono essere applicati al Kimono dei giorni nostri.

L’”Iki” non è in nessun modo qualcosa di vecchio. In ogni età, l’”Iki” esiste in una maniera adeguata a quell’epoca. Così, l’”Iki” è qualcosa che consente a una donna al passo coi tempi che può essere molto “moderna”, di dar abilmente vita a un’emozione che potrebbe a tratti essere considerata antica.

Da ciò possiamo dire che l’”Iki” non è in nessun modo qualcosa da considerare separata dalle mode. Al contrario, quello che è di moda può essere considerato “Iki”, Altrimenti, l’”Iki” diventerebbe meramente antico e fuori moda.

Ritengo che esempi del genere possano essere trovati in altri luoghi che nel Kimono giapponese. Direi che esiste fra gli uomini e le donne di tutto il mondo. L’attrice vamp americana Mae West è un’attrice “Iki”. La pistola e i pantaloni aderenti del dinoccolato cowboy americano, l’espressione delle mani parigine, la camminata di un inglese – tutto ciò è vicino a quello che trasmette il termine “Iki”.

Fra le donne giapponesi, ce ne sono alcune con le unghie pittate di rosso che indossano Kimono con il colletto nero. O quelle che indossano un Kimono a strisce sottili di antico design in maniera moderna.Queste sono le donne che raggiungono un effetto con un tocco di antico nel mezzo della regolarità o della moda prevalente.

Un altro termine applicato al Kimono giapponese è “Shibui”.

“Shibui” o “Shibusa” è una sensazione tipicamente giapponese. C’è quella famosa poesia haiku:

Furuike ya Kawazu tobikomu Mizu no oto.”

Tradotta letteralmente significa: “In un antico lago salta una rana – il suono dell’acqua.”

A meno che il significato di questa breve poesia possa realmente essere compreso, gli stranieri possono trovare difficile apprezzare il senso del “Shibusa”.

Applicato al Kimono, il termine “Shibusa” può essere spiegato al meglio con un Kimono di alto livello chiamato “Tsumugi”. A prima vista, questo è un tessuto dall’aspetto monotono. Comunque, per ottenere il colore e il motivo, ciascun singolo filo viene selezionato e tessuto a mano. Sia la sensazione che la trama hanno profondità. Senza essere vistoso, è autenticamente “Shibui”.

Perché, allora, consideriamo “Shibui” l’Haiku “In un antico lago salta una rana – il suono dell’acqua”? È perché un mondo di profondità è stato scoperto in una scena che la maggioranza delle persone considererebbe ordinaria e comune e forse addirittura la ignorerebbero, e perché è stato cristallizzato in una poesia cioè in ultima analisi in arte.

Ciononostante, dare semplicemente forma al luogo comune non è necessariamente “Shibui”.

Lo “Shibui” è in realtà un gusto lussuoso. È opposto a un tentativo di apparire migliori al fine di attrarre l’attenzione. È il valore inaspettato di qualcosa che non attira l’attenzione a distanza, qualcosa che appare splendido solo quando viene preso in mano per un’ispezione più da vicino. Invece di una eleganza esteriore, è una eleganza interiore.

Dal punto di vista dell’abbigliamento, “Shibusa” è forse più britannico nell’emozione di quanto non sia americano.

È solo naturale che qualcosa come il Kimono, cha ha una lunga tradizione dietro di sé, abbia sia lo “Shibusa” che l’”Iki”. E questi devono trovarsi non soltanto nel motivo e nel colore ma anche nella maniera di indossare per rendere il Kimono inusuale fra gli stili di abbigliamento del mondo.

Keiichi Takasawa

Traduzione di Mariella Minna


Strade e stazioni di posta del periodo Edo/Tokugawa (1600 - 1867)

Ieyasu (1542-1616), primo shougun della casata Tokugawa, pose cinque grandi strade sotto il controllo diretto dello shogunato allo scopo di facilitare i viaggi dei daimyou dai loro possedimenti a Edo (oggi Tokyo) e di rafforzare la difesa della città. Il governo Tokugawa aveva infatti imposto il sistema sankin koutai (residenza alternata), per cui i daimyou dovevano risiedere a Edo ad anni alterni e lasciarvi comunque mogli e figli. Tutto ciò allo scopo di tenere sotto controllo i vassalli, costringendoli inoltre a enormi spese per il mantenimento di doppie residenze e di migliaia di persone nel proprio han (feudo) e a Edo.

Le strade che portavano a questa grande città (nel 1720 superava il milione di abitanti) divennero quindi importanti e trafficate, percorse da ogni genere di viaggiatori, commercianti, artigiani e da sgargianti cortei di daimyou accompagnati da un seguito di samurai, dame e servitori. La più importante, conosciuta e frequentata era la Toukaidou resa famosa in tutto il mondo da dipinti e stampe che ne illustrano le 53 stazioni.
Su ognuna di queste strade vi erano stazioni di posta ogni 5 o 6 km., controllate da ufficiali dello shogunato. In esse il viaggiatore trovava tutto quanto potesse essere necessario: negozi, artigiani, cibo, compagnia e locande. Lo honjin (residenza del responsabile inviato da Edo) era riservato a ricevere i daimyou oppure i nobili di corte in transito sulla strada. Si viaggiava a piedi, in palanchino o a cavallo.
Nei punti strategici vi erano barriere (sekisho) che servivano a controllare i movimenti della popolazione.
Ogni viandante doveva passare da questi posti di blocco ed essere controllato accuratamente. Un detto dell’epoca ammonisce: “Attenzione alle donne che escono da Edo e alle armi che entrano”.
La Nakasendou è una tra le strade che si irradiavano da Nihonbashi (al centro di Edo) e portavano alla capitale (oggi Kyoto) o ai domini dei grandi signori nelle province più lontane: attraversava il Giappone nella parte centrale, tra le montagne e una parte di essa, detta Kisokaidou, si snoda lungo il corso del fiume Kiso, che scorre da nord a sud in una impervia vallata tra le Alpi giapponesi settentrionali e quelle centrali. Ricoperta di foreste per il 95% (1700 km. quadrati, circa 50.000 abitanti negli anni ’80, 40.000 negli anni ’90), la valle è per due terzi di proprietà dello stato ed è ricca di grandi conifere, come lo hinoki e il sawara (tipi di cipressi), usate sin dai tempi più antichi per la costruzione di castelli ed edifici religiosi.
Nella vallata si contano 11 città e villaggi i cui abitanti sono in prevalenza boscaioli, falegnami, carpentieri, artigiani che lavorano il legno e allevatori di bestiame. In numero esiguo sono invece gli agricoltori, dato che il terreno coltivabile è scarsissimo.
La Kisokaidou era nota nel passato per i pericoli affrontati da chi la percorreva. Vi si nascondevano ladri e rapinatori che depredavano i viaggiatori dei loro averi, spesso anche uccidendoli. Il passo Torii era famoso come luogo di rifugio di briganti, spesso chiamati kumosuke (“aiutanti nuvola” perché, ingaggiati e pagati a giornata per unirsi ai portatori stabili che a volte erano in numero insufficiente nelle stazioni di posta, erano volatili e transitori come le nuvole). Nel lessico arcaico, kumosuke indica un portatore o un cocchiere rapinatore.
Aperta già nell‚VIII secolo, nel periodo Sengoku (1477-1573) le sue caratteristiche topografiche attirarono l’attenzione dei daimyou: era ideale come base per gli eserciti, facile da difendere e difficile da attaccare. Vi avvennero furiose battaglie e fu teatro di eventi che abbiamo visto mille volte nei film di samurai.
Lungo la Nakasendou vi erano 69 stazioni di posta, undici delle quali sulla Kisokaidou.
Questa via, tracciata all‚interno del Paese, era spesso preferita alla Tokaido, che correva in gran parte lungo la costa e offriva servizi di gran lunga migliori, ma i daimyou la sceglievano perché lungo il suo percorso potevano godere di bellezze naturali quali monti, foreste, fiumi, cascate, passi di montagna come il Magome e il Torii. E, motivo non meno importante, perché lungo la Toukaidou molti fiumi erano senza ponti, per rendere difficile il passaggio di eventuali armate ostili, e dovevano essere attraversati dai daimyou con tutti gli accompagnatori su barche o addirittura in spalla a traghettatori. Ogni anno percorrevano la Kisokaidou almeno 50 daimyou, ognuno con un seguito che andava dai 150 ai 2.000 addetti. Agli inizi del periodo Edo viaggiavano senza pompa né sfarzo, portando gli alimenti necessari, e non disdegnavano di accamparsi per la notte. Col tempo invece questi trasferimenti divennero motivo per ostentare ricchezza e potere, tanto che qualcuno arrivò a portare con sé anche la propria vasca da bagno (solitamente di legno di hinoki).
Nel 1843 Magome, la più piccola delle undici stazioni di posta sulla Kisokaidou, aveva 69 locande che potevano accogliere 717 ospiti, mentre a Narai, la maggiore, vi erano 409 alberghi per 2.155 viaggiatori.
In ogni cittadina 25 portatori e 25 cavalli erano a disposizione per poter trasportare bagagli e vettovaglie fino alla stazione successiva. Ma col tempo, con l’aumento dei viandanti e l’ostentazione di ricchi bagagli, il numero dei portatori si rivelò insufficiente così che fu deciso di ingaggiare la gente dei villaggi vicini per aumentare gli addetti, quando fosse stato necessario. I paesi furono chiamati sukegou (villaggi “aiutanti”) e molti dei loro abitanti morirono per il superlavoro, tanto che lungo le strade si possono vedere steli buddiste erette in loro memoria.

I viaggiatori a volte si prendevano gioco di coloro che li trasportavano, agitandosi e dondolandosi nel palanchino in modo da rendere difficile il movimento e il passo dei poveri portantini; giungevano così a chiedere loro denaro in cambio di un viaggio più tranquillo. Il vocabolo giapponese che indica l’estorsione, yusuri, nasce qui, dal verbo yusuru = scuotere, dondolare, oscillare.
Altri casi di vessazioni nei confronti degli abitanti dei paesi lungo la strada di Kiso si avevano quando un nobile di corte (reiheishi) veniva inviato a Edo dall’imperatore per un incarico particolare. Poteva accadere, a volte, che l’aristocratico cadesse intenzionalmente dalla portantina e poi accusasse i portatori dell’incidente.

Minacciava di informare lo shogunato della negligenza degli addetti al trasporto cosicché la cittadina responsabile di averli forniti, temendo le ire del governo, offriva all’aristocratico del denaro perché tacesse. I nobili della corte imperiale di Kyoto erano all’epoca impoveriti dalle spese ingenti per le cerimonie che dovevano avere luogo in continuazione per motivi religiosi o di “rappresentanza”. Capitava addirittura che i creditori del nobile (commercianti di riso, toufu, pesce o altro) lo accompagnassero nascondendosi tra il seguito e che estorcessero denaro ai villaggi con la sua connivenza. E ancora, approfittando del fatto che, secondo la regola, le armature viaggiavano gratis indipendentemente dal peso, alcuni samurai le riempivano di oggetti diversi così da non pagare il trasporto.
Nel 1861 una sorella dell‚imperatore con un seguito di 30.000 persone si recò a Edo, dove avrebbe sposato il 14° shougun, Tokugawa Iemochi. Ci vollero quattro giorni per percorrere il tratto della Kisokaidou e ogni notte occupavano quattro stazioni di posta perché le locande di una sola non erano sufficienti per quel numero spropositato di personaggi.

La Kisokaidouera anche affollata da pellegrini che si recavano al tempio Zenkouji oppure alle sacre montagne Ontake e Kiso komagatake. Ciò avvenne fino al periodo Meiji (1868-1912), quando le stazioni di posta vennero abolite e le antiche strade abbandonate per essere sostituite da moderne vie o da linee ferroviarie. Per fortuna, perché il percorso del fiume Kiso nella sua valle selvaggia è rimasto un luogo di natura intatta, con strade lastricate di pietra, villaggi e case centenari preservati per la gioia dei viaggiatori moderni.
Una specialità di Tsumago e paesi lungo il Kiso, è la soba (vermicelli di grano saraceno). Il grano saraceno cresce velocemente, anche in montagna, e offre più raccolti in un anno. In questi villaggi non era possibile coltivare riso in grande quantità e non era quindi alla portata della gente comune. A Tsumago sembra di avere viaggiato indietro nel tempo di diversi secoli. Ci si aspetta di vedere uscire dalle locande un samurai con le due spade o una intrattenitrice itinerante con il suo shamisen e un largo cappello che la protegge dal sole o dalla pioggia.

Questo paesino è il meglio conservato tra quelli sulla Kisokaidou. Non vi sono fili elettrici visibili né altri marchingegni moderni, così che qui vi vengono ancora oggi girati i film di samurai. Nel 1969 un gruppo di residenti e di appassionati si mise a studiare come salvare gli edifici del periodo Edo e restaurare le antiche case per riportare Tsumago all’antico splendore. Approfittando del fatto che il villaggio era stato poco modernizzato grazie alla sua lontananza dai centri maggiori e che aveva sofferto rari incendi (comuni in Giappone), vi erano rimaste abitazioni tradizionali che potevano essere restaurate o rimodellate secondo lo stile dell’epoca. Riapparvero così l’ufficio postale, la scuola elementare, l’ufficio dell’associazione degli agricoltori e 26 case private in cui vivono più di un centinaio di persone. Le cassette postali sono degli inizi del periodo Meiji (1871, anno dell’istituzione del servizio), dato che nell’epoca Edo non esisteva un vero e proprio servizio postale e soprattutto non vi era l’uso di porre le cassette davanti a ogni casa. Negli anni ’90 questa zona attirava già 900.000 turisti all’anno e si presentava il problema di costruire alberghi, ma i residenti preferirono mantenere le antiche locande o far accompagnare i turisti dagli autobus fino ad alberghi costruiti fuori dalla vista o in altri villaggi. Vi è naturalmente una strada asfaltata percorsa da automobili e autobus, ma si trova alle spalle del paese, così che la strada che lo attraversa è ancora pavimentata con pietre, almeno in alcune parti più caratteristiche.
Per gli appassionati oggi sono percorribili a piedi lungo l’antica strada circa8 km (e le pietre che si calpestano sono state posate più di trecento anni fa) che costeggiano case coloniche, orti e piccole risaie o si snodano per salite e discese in una splendida selvaggia foresta.

di Graziana Canova Tura, da Pagine Zen numero 59/60