Recensione “Gli ultimi soldati dell’imperatore. I giapponesi che non si arresero dopo il 1945” di Antonio Besana

La guerra è senza dubbio una delle dinamiche, nella storia dell’uomo, che sfuggono a qualsiasi tipo di logica: resta un mistero irrisolvibile come l’essere umano, capace di progettare strumenti quali l’intelligenza artificiale, di costruire infrastrutture che connettano i due emisferi e di sviluppare cure per contrastare pandemie, non sia ancora in grado di coesistere pacificamente sullo stesso pianeta.
È proprio all’interno di questo fenomeno, di per sé quasi inspiegabile, che emergono dinamiche altrettanto bizzarre, capaci di affascinare e allo stesso tempo turbare il senso comune: è il caso, ad esempio, dei militari comunemente conosciuti come “soldati fantasma giapponesi” (zanryu nippon hei, letteralmente “soldati giapponesi lasciati indietro”). 

Antonio Besana (Milano, 1955), professore al MIMM (Master di International Marketing Management) presso l’Università Cattolica di Milano, ha negli ultimi anni affiancato alla carriera accademica quella di scrittore, coltivando la propria passione per la storia militare. Le sue pubblicazioni si distinguono per il focus su episodi meno noti all’interno delle più ampie dinamiche di guerra: in Vite incrociate. La pietà per il nemico nella Seconda Guerra Mondiale (Edizioni Ares, 2022), ad esempio, esplora tredici casi in cui i soldati hanno saputo riconoscere e rispettare la sofferenza degli avversari; ancora, ne Il bambino di El Alamein (Edizioni Ares, 2023) racconta la triste storia del più giovane soldato italiano arruolato durante il secondo conflitto mondiale. 

Nel suo nuovo libro, l’autore si concentra sulle storie dei soldati giapponesi i quali, non avendo ricevuto la notizia della resa o rifiutandosi di credervi, continuarono a combattere nelle giungle del Sud-Est asiatico, talvolta persino per decenni. Un’impresa di ricerca ardua, come l’autore stesso ammette, soprattutto per la difficoltà nel reperire fonti tradotte in inglese.

Come sottolinea lo stesso Besana, è naturale interrogarsi sul motivo di questa profonda incapacità di accettare la realtà della sconfitta. A tal proposito, Ōoka Shōhei, prigioniero di guerra sull’isola di Leyte e autore di Nobi (titolo italiano La guerra del soldato Tamura, 1951), scrive: “Sembra […] che l’uomo non sia capace di accettare il caso. Il nostro spirito non ha la forza di sopportare una serie continua di casi, cioè l’eternità.” Pur non essendo uno dei “soldati fantasma”, in quanto è stato rimpatriato al termine del conflitto, Ōoka è una delle voci più autorevoli della letteratura di guerra giapponese, e con questa citazione coglie perfettamente come per quei soldati la resa rappresentasse una casualità insopportabile, un evento in grado di vanificare la loro missione e di negare il senso stesso della fedeltà all’imperatore il cui culto, nel frattempo, era stato smantellato dalla Costituzione “imposta” dalle Forze Alleate nel 1947.

Trovo che Besana, alternando resoconti puntuali, tratti da testimonianze dirette dei reduci, a riflessioni più ampie di natura etica e culturale, riesca con efficacia a restituire la complessità di queste vicende. Particolarmente significativo è il passo tratto dalla cronaca No Surrender: My Thirty-Year War di Onoda Hiroo, ufficiale dell’intelligence giapponese, nascostosi nella giungla dell’isola di Lubang per poi arrendersi ai rappresentanti dell’esercito statunitense e filippino ventinove anni dopo la resa formale del Giappone:

Non ne avevamo mai parlato, ma tutti noi avevamo sperato che un giorno saremmo tornati in Giappone. E ora io solo tornavo, lasciando gli spiriti dei miei insostituibili camerati sull’isola. Tornavo in un Giappone che aveva perso la guerra trent’anni prima. Tornavo nella terra dei miei avi, per la quale avevo combattuto fino al giorno prima. Se non ci fosse stata gente intorno a me, avrei battuto il capo per terra, gemendo. […] Per la prima volta osservavo dall’alto il mio campo di battaglia. Perché mai avevo combattuto laggiù per trent’anni? Per chi avevo combattuto? In nome di quale causa?

Proprio come i protagonisti del genere isekai (sottogenere fantasy in cui un individuo ordinario viene reincarnato in un universo parallelo), particolarmente amato dal pubblico giapponese, ma con un’esperienza ben più concreta e drammatica, questi “eroi tragici” si ritrovano catapultati in un mondo al quale non sentono più di appartenere. Lo stesso Onoda, incapace di adattarsi alla realtà del Giappone del dopoguerra, scelse infatti di trasferirsi in una colonia agricola giapponese in Brasile.  

Besana accompagna simili resoconti a citazioni dal codice etico del Bushidō (“la via del guerriero”), ispirato a testi fondanti della tradizione samuraica come lo Hagakure:

Hagakure, il testo classico del Bushidō scritto all’inizio del XVIII secolo, inizia con le parole: Bushidō è un modo di morire’. Solo un samurai preparato e disposto a morire in ogni momento può dedicarsi completamente al suo signore.”

Attraverso questa duplice lente – da una parte la cruda realtà raccontata in prima persona, dall’altra la millenaria eredità storico-culturale – l’autore riesce a raccontare quanto, per i protagonisti di queste vicende, fosse più accettabile rifugiarsi nell’autoinganno che tutte le loro sofferenze non fossero state vane, piuttosto che accettare la “banalità” della resa. Continuare a credere nella propria missione, e nutrire la speranza di un ritorno a un Giappone immutato, era forse l’unico modo per sopravvivere alle loro terribili condizioni autoinflitte per anni. In questo senso, ricollegandoci anche al pensiero di Ōoka, potremmo parlare di “assurdo” nel senso sartriano del termine: la contraddizione intrinseca tra il bisogno umano di attribuire un significato all’esistenza e l’assenza, nella realtà, di un fine ultimo oggettivo. 

Besana sottolinea infatti come, contrariamente a quanto dettato dall’immaginario collettivo, che tende a schernire questi soldati o a etichettarli come fanatici, la loro resistenza nascesse da sentimenti profondamente umani. Lo dimostra anche il passaggio dedicato ai kamikaze, in cui viene riportata la commovente lettera scritta da Ichizō Hayashi, membro di una forza d’attacco speciale, alla madre prima di partire per una missione suicida: “Sono felice di avere l’onore di essere stato scelto come membro di una forza d’attacco speciale che sta andando in battaglia, ma non posso fare a meno di piangere quando penso a te, mamma.”). 

Eppure, laddove sarebbe facile cadere nella cieca glorificazione di una lealtà assoluta, o nel fascino esotizzante di una cultura così distante dalla nostra, lo scrittore è estremamente abile nel non oltrepassare mai questa soglia. Il racconto è difatti bilanciato da riferimenti lucidi e puntuali alle atrocità commesse dai reparti giapponesi a danno dei vicini asiatici durante la Seconda Guerra Mondiale, e l’autore non manca nemmeno di citare un toccante episodio – perfettamente in linea con il precedente Vite incrociate – di riconciliazione tra due reduci giapponesi e due americani sull’isola di Peleliu, avvenuta nel 2013 e raccontata nel documentario Once were enemies (2017) della regista Eva Wunderman.

Al netto di tutto ciò, Gli ultimi soldati dell’Imperatore è un libro che mi sento di consigliare caldamente, non solo a chiunque sia appassionato di storia e cultura giapponese, ma anche a chi, magari, non ha mai amato particolarmente l’insegnamento scolastico della storia. Le riflessioni che ne emergono toccano, infatti, corde universali e possono parlare a tutti, soprattutto in un presente che, purtroppo, è ancora profondamente dilaniato dalla guerra.

Sofia Dagradi, studentessa