MOMIJIGARI: Autunno fa rima con foliage.
photo credits: inspiringvacations.com Autunno fa rima con foliage. Le foglie degli alberi si tingono di colori vivaci, regalando al mondo paesaggi incantevoli, intrisi di una magica atmosfera autunnale; i viali, i parchi e i marciapiedi si ricoprono di foglie cadute dai rami, dipingendo le strade di giallo, arancione, rosso e marrone; lo scalpiccio divertito dei più piccoli si mescola alla meraviglia e gli adulti ne approfittano per rilassarsi ammirando i colori dell’autunno. In Giappone il rapporto tra esseri umani e natura è profondamento simbiotico, legato alla filosofia Shintoista, ovvero al culto autoctono del Giappone. Per questo non stupisce che l’atto di osservare le foglie d’autunno e ricercare i paesaggi più suggestivi abbia un nome: Momijigari. Momijigari si scrive con i kanji di “foglie rosse” e “caccia”, quindi letteralmente è la caccia alle foglie rosse, un rituale che consiste nel visitare insieme ad amici e parenti i siti più caratteristici quando le foglie cambiano colore. Proprio come in primavera per l’Hanami (“guardare i fiori di ciliegio”), anche per il Momijigari esistono previsioni metereologiche ad hoc per sapere in tempo reale dove vedere il foliage migliore. photo credits: jrailpass.com La storia del Momijigari ha origini antiche ed aristocratiche. Risale infatti all’Epoca Heian (794-1185), il periodo di massimo splendore della corte imperiale giapponese, quando i nobili si dilettavano leggendo, componendo poesie o discorrendo di temi filosofici circondati ed ispirati dalla natura autunnale. Si tratta di un passatempo così radicato nella cultura nipponica da essere descritto addirittura in opere del calibro di Man’yōshū e di Genji Monogatari, rispettivamente, la prima raccolta di poesie giapponesi giunta a noi e il più famoso romanzo di epoca Heian. CONSIGLI PAESAGGISTICI E… CULINARI Kyōtō e Nikkō possiedono sentieri e scenari rinomati per godersi il Momijigari. A Kyōtō, la Camminata dei Filosofi parte dal tempio del Ginkakuji, il Padiglione d’Argento, per arrivare al Santuario Wakaoji. Tra ottobre e novembre passeggiare lungo questo sentiero significa perdersi tra le chiome di aceri rossi che, nei giardini, imitano i colori accesi degli edifici in legno della zona. Nikkō invece è meta autunnale per chi vuole scappare dalla frenesia della metropoli e rifugiarsi tra i templi incastonati nei boschi di aceri rossi della regione. A proposito di acero rosso, albero simbolo del Giappone… avete mai sentito parlare della tenpura di foglie d’acero? Una speciale frittura giapponese ottenuta friggendo le foglie con olio di sesamo zuccherato, dopo averle lasciate per un anno immerse in acqua e sale. Da provare assolutamente! photo credits: ilgiornaledelcibo.it Testo di Martina Condello, martinacondello.cm@gmail.com
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Tsukimi, il festival della Luna e il Coniglio lunare
photo credits: asiancustoms.eu Queste parole si riferiscono all’usanza tradizionale giapponese di celebrare la Luna e il raccolto autunnale. In Giappone si ritiene che la luna più bella dell’anno sia quella autunnale, visibile durante il plenilunio di settembre, noto come plenilunio del raccolto o harvest moon: la luna piena più vicina all’equinozio d’autunno. Ma non solo per il Giappone, questo periodo è speciale in tutta l’Asia: in Cina si celebra la Festa di Metà Autunno, in Giappone si osserva la luna Tsukimi , mentre in Corea si festeggia Chuseok, la festa della Luna del Raccolto. E quest’anno la festa dello Tsukimi cade il 29 settembre, proprio questo venerdì. I due termini giapponesi vogliono sottolineare i festeggiamenti che comprendono la Luna e l’equinozio d’autunno. Jugoya è una parola che intende la quindicesima notte dell’ottavo mese nel calendario lunare, usato nella tradizione giapponese, nella quale cade la Luna piena più vicina all’equinozio autunnale, mentre Tsukimi è la parola utilizzata per chiamare il festival giapponese della Luna, e significa letteralmente “Guardare la Luna”. La tradizione dello Tsukimi nasce nell’Epoca Heian, influenzata dall’usanza del festival autunnale cinese dell’élite aristocratica, che si ritrovava per ascoltare musica e recitare o comporre poesie al chiaro di luna. Solo nel 1600 questa celebrazione passo dall’essere festeggiata unicamente dall’aristocrazia giapponese al diventare parte della tradizione popolare, nella quale non si festeggiano più solo le arti musicali e letterarie, ma anche la festa del raccolto autunnale, dove il riso veniva offerto agli Dei come ringraziamento. Lo Tsukimi entrando a far parte delle tradizioni esistenti giapponesi, prese ad essere una festa piuttosto solenne. Questo portò alla creazione di cibi tradizionali per l’evento, il più famoso lo Tsukimi dango un tipo particolare di gnocco di riso, rotondo e bianco che celebra la bellezza della luna, e si dice che porti felicità e buona salute nell’anno successivo se mangiato durante la notte di luna piena; delle decorazioni particolari, come ad esempio il susuki, o erba della pampa, posta nel luogo dove si osserverà la luna, perché si crede difenda l’area dal male; e anche visite al santuario, bruciare incenso nei templi e offrire cibo agli Dei. Inoltre questa festa, celebrando la Luna, porta alla luce una credenza giapponese che posiziona i conigli come abitanti del suolo lunare, e noi, di Giappone in Italia, che abbiamo come simbolo della nostra associazione un coniglio siamo pronti a spiegarvi nei dettagli da dove nasca questa credenza. I giapponesi non sono gli unici a credere nella presenza di questi animali sulla luna, anche i cinesi e i coreani condividono la stessa idea dove, “non sia l’uomo a camminare sulla Luna, ma i conigli”. La più antica testimonianza del mito del coniglio lunare risale al Periodo dei regni combattenti dell’antica Cina (453 a.C. al 221 a.C), nel quale viene menzionata la credenza per la quale sulla Luna, insieme ad un rospo, si troverebbe un coniglio occupato a sminuzzare nel suo pestello le erbe per l’immortalità. Tuttavia questo mito narra solo della sua presenza sul satellite terrestre, mentre solo leggendo il Śaśajâtaka, un racconto buddhista, si può scoprire come questi piccoli animali siano arrivati così lontano. Il racconto narra di quattro amici animali, una scimmia, una lontra, uno sciacallo ed un coniglio che, nel giorno sacro buddista di Uposatha (dedicato alla carità e alla meditazione) decisero di cimentarsi in opere di bene. Avendo incontrato un anziano viandante, sfinito dalla fame, i quattro si diedero da fare per procacciargli del cibo; la scimmia, grazie alla sua agilità, riuscì ad arrampicarsi sugli alberi per cogliere della frutta; la lontra pescò del pesce e lo sciacallo, sbagliando, giunse a rubare cibo da una casa incustodita. Il coniglio invece, privo di particolari abilità, non riuscì a procurare altro che dell’erba. Triste ma determinato ad offrire comunque qualcosa al vecchio, il piccolo animale si gettò allora nel fuoco, donando le sue stesse carni al povero mendicante. Questi, tuttavia, si rivelò essere la divinità induista Śakra e, commosso dall’eroica virtù del coniglio, disegnò la sua immagine sulla superficie della Luna, perché fosse ricordata da tutti. È quindi grazie al suo spirito virtuoso e caritatevole che il coniglio arrivò sul suolo lunare. Da questo racconto nacquero, con il tempo diverse versioni, con protagonisti a volte diversi, ma sempre con il medesimo finale, una divinità celeste che porta o pone la figura del coniglio sulla Luna. Ad esempio ecco un’altra versione, una leggenda giapponese che racconta: “Molto tempo fa, il Vecchio della Luna decise di visitare la Terra. Si travestì come un vecchio mendicante e chiese a Saru (scimmia), Kitsune (volpe) e Usagi (coniglio) un po‘ di cibo. Saru, la scimmia, si arrampicò su un albero e gli portò qualche frutto. Kitsune, la volpe, andò ad un corso d’acqua e gli afferrò un pesce. Ma Usagi, il coniglio non trovò nulla per lui da mangiare, se non l’erba. Così, invece, Usagi chiese al mendicante di accendere un fuoco. Dopo che il mendicante costruì il fuoco, Usagi vi saltò dentro e si offrì come pasto. Improvvisamente, il mendicante si trasformò di nuovo nel Vecchio della Luna e salvò Usagi dalle fiamme. E gli disse: “Usagi-san, non farti del male per causa mia. Dal momento che sei stato il più gentile di tutti, io vi porterò indietro sulla luna a vivere con me.” Ed è tramite questi racconti dal contenuto educativo e testi mitici, che si è arrivati a credere che la luna sia abitata da conigli il cui lavoro è schiacciare erbe per l’immortalità o altri ingredienti, come ad esempio il riso per creare il tipico dolce giapponese chiamato mochi, anche perché il termine mochizuki in giapponese significa luna piena, ma suona anche come la parola per preparare i mochi, “mochizukuru”. Cosa ne pensate, questo venerdì osservando la luna cercherete la figura di un coniglio intento a lavorare? photo credits: asiancustoms.eu Articolo di Elena Ferrario, Stagista presso l’Associazione Giappone in Italia
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Tsukimi e Jugoya
Tsukimi, il festival della Luna
Il Coniglio lunare
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L’ARTE CULINARIA GIAPPONESE: RAPPRESENTAZIONE DEL CIBO NEGLI ANIME e MANGA
Gli appassionati sanno che anime e manga non sono solo meri prodotti di intrattenimento. Si tratta di veri e propri strumenti per veicolare pillole di cultura giapponese fuori dai confini nipponici, in modo leggero ed accessibile a tutti. Storia, religione, consuetudini sociali, abitudini quotidiane, sport e… cucina! Il cibo diventa l’espediente perfetto per avvicinare un pubblico vasto e curioso alle tradizioni del Sol Levante. L’arte culinaria giapponese, con i suoi sapori ricchi e delicati, assume un ruolo di primo piano nella narrazione, arrivando addirittura ad essere la protagonista di alcune opere. Ciò che propongo in questo articolo è un itinerario gustativo attraverso vari titoli, per scoprire come viene rappresentata la cucina giapponese all’interno del mondo ormai conosciutissimo di anime e manga. photo credits: wikipedia.org Piatti giapponesi presentati e rivisitati in chiave gourmet. Cultura culinaria nipponica e occidentale si fondono per ottenere sapori paradisiaci, capaci di suscitare un piacere quasi erotico in chi li assaggia. “Food Wars – Shokugeki no Soma” (Sōma delle battaglie culinarie) è un’opera completamente dedicata alla buona cucina e alla cura necessaria per maneggiare gli ingredienti e concludere al meglio le preparazioni. La rappresentazione grafica dei piatti cucinati dal protagonista Sōma e dai suoi amici è assai curata e le spiegazioni delle tecniche di preparazione così appassionanti da rendere Food Wars uno dei più completi Cooking Anime, manga degli ultimi tempi. Dall’omurice al furikake, dal chazuke al curry, fino al bentō: i classici della cucina orientale vengono reinventati, accrescendo ogni volta la conoscenza culinaria del fruitore (ed anche il suo appetito!). Carry rice omuraisu photo credits: shokugekinosoma.fandom.com photo credits: images.mubicdn.net Noi italiani sappiamo bene che il cibo è convivialità, gioia di gustare insieme un buon piatto, una scusa per relazionarsi e stringere legami; prepararlo per gli altri è un gesto d’affetto. “One week friends” ci trasmette lo stesso messaggio: Kaori e Yūki consolidano la loro particolare amicizia proprio durante la pausa pranzo sul tetto della scuola, condividendo l’immancabile bentō, il cestino del pranzo che studenti e lavoratori giapponesi mangiano fuori casa. Kaori impara piano piano quali sono i gusti del suo nuovo amico e inizia a preparare il bentō anche per lui, a partire dal tamagoyaki, una frittatina giapponese arrotolata su sé stessa che appare spesso nei cestini del pranzo di anime e manga. In One week friends il cibo suscita ricordi sopiti, intreccia storie e contribuisce a mantenere intatti legami che altrimenti si spezzerebbero. bentō photo credits: myanimelist.net photo credits: imdb.com “Kaguya-sama: love is war” è una commedia romantica, non certo incentrata sul tema food. Al suo interno però non mancano riferimenti divertenti e ben congeniati alla cultura culinaria nipponica, in particolar modo a due capisaldi: il ramen e il kōcha, o tè nero, che diventano intermezzi simpatici per stemperare il ritmo della narrazione. Chika, personaggio bizzarro dai capelli rosa, si rivela essere una dei 4 Mostri Sacri del ramen, e attraverso la sua figura scopriamo le tecniche da veri intenditori per assaporare questo piatto a base di brodo, noodles e verdure. Lo stesso avviene per il kōcha: durante il festival scolastico la protagonista Kaguya serve un tè nero impeccabile a due fanatici estimatori di ramen e tè, eseguendo magistralmente i vari passaggi di pesatura e filtraggio alla base dell’arte del tè. Ramen photo credits: i.ytimg.com photo credits: wikimedia.org E se cucinare fosse un metodo per cambiare vita e redimersi? “La Via del Grembiule” è la storia spassosa di Tatsu, Drago Immortale della Yakuza che decide di abbandonare gli ambienti mafiosi per dedicarsi anima e corpo al lavoro di casalingo a tempo pieno. Sono numerose le scene in cui il protagonista si muove con maestria davanti ai fornelli, cucinando pietanze tipiche e torte di compleanno per sua moglie, mentre frequenta corsi di cucina insieme alle signore del vicinato e sceglie meticolosamente i prodotti in sconto al supermercato, armato della sua amata Carta Fedeltà. Nel frattempo si occupa delle faccende domestiche e cerca di convertire i suoi vecchi alleati e rivali mafiosi alla dura vita del casalingo. Qui l’arte culinaria giapponese rappresenta un medium di rottura degli schemi sociali giapponesi e degli stereotipi di genere, azzardando che anche l’uomo più temibile della Terra può occuparsi di compiti spesso e volentieri attribuiti alla casalinga, come la cucina. photo credits: animeclick.it “Fruits Basket”, cioè il cesto di frutta. Un’opera in grado di utilizzare il cibo come metafora di vita e lanciare un messaggio importante: ci sarà sempre spazio per te da qualche parte, quindi non convincerti di valere meno degli altri. Vorrei concludere l’articolo proprio con due storie raccontate in Fruits Basket, nelle quali l’onigiri (polpetta di riso giapponese con ripieno di vario tipo) ha un ruolo allegorico e centrale. La prima riguarda i ricordi d’infanzia della protagonista, quando veniva derisa dai suoi compagni di scuola durante il gioco fruits basket, corrispettivo del nostro ‘lupo mangiafrutta’; invece di un frutto, le veniva affibiato l’onigiri, in modo che non potesse essere chiamata e quindi non potesse partecipare nel vivo del gioco. Ecco qui che l’onigiri diventa metafora di esclusione. La seconda è il racconto dell’onigiri ripieno di umeboshi (prugne disidratate salate): immaginiamo ogni essere umano come un’onigiri con la sua umeboshi incastonata sulla schiena. Tutti gli altri possono vederla tranne il proprietario. Allora quest’ultimo, che però riesce a vedere a sua volta le prugne degli altri, si convince di valere meno. Ciò che non sa, è che anche lui ha la sua umeboshi: basta soltanto trovare qualche amico che glielo ricordi. Ecco qui che l’onigiri diventa metafora di inclusione e l’umeboshi metafora del valore di ciascuno di noi. Onigiri photo credits: cookaround.com Testo di Martina Condello, martinacondello.cm@gmail.com
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ONE WEEK FRIENDS
KAGUYA-SAMA: LOVE IS WAR
LA VIA DEL GREMBIULE – LO YAKUZA CASALINGO
FRUITS BASKET
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JIDŌHANBAIKI, i distributori automatici per ogni occasione
photo credits: arabnews.jp Le vending machine sono così popolari e famose in Giappone che persino il protagonista dell’anime “Jidōhanbaiki ni umarekawatta boku wa meikyo wo hokou” ‘Sono rinato come distributore automatico, e ora vago per labirinti’, è rinato come un distributore automatico in un nuovo mondo. Ma ora tornando al tema principale, come mai le jidōhanbaiki, vending machine in inglese e distributore automatico in italiano, sono così popolari in Giappone? Chiunque faccia una piccola ricerca prima di un viaggio in Giappone può scoprire che i distributori automatici sono tra le prime comodità che il paese offre, secondi solo ai konbini, convinient store. La loro fama è motivata da diversi fattori, uno di questi la loro presenza nel territorio. Di fatti i distributori sono presenti su tutto il suolo giapponese, dalle grandi città alle città rurali, una realtà possibile anche al basso tasso di criminalità registrato nello stato. La varietà dei loro prodotti, in pase all’azienda produttrice e al periodo dell’anno, che predilige bevande fresche durante le stagioni più calde e propone bibite calde nel periodo invernale, fa sì che i distributori riescano a soddisfare le esigenze di ogni persona. Ho introdotto il discorso portando l’esempio delle bibite, poiché queste sono le jidōhanbaiki più comuni che si possono trovare dal 1960, data dall’introduzione massiccia della moneta da 100 yen. Tuttavia, storicamente parlando la prima jidōhanbaiki fu prodotta nel 1888 da Tawaraya Koshichi e vendeva tabacco. Un’altra sua opera rivoluzionaria uscì nel 1904, un distributore automatico che vendeva francobolli e cartoline, con anche la funzione di buca per le lettere. photo credits:plaza.rakuten.co.jp Con il passare del tempo e grazie l’introduzione di nuovi metodi di pagamento, le tipologie di distributori e i prodotti che mettono a disposizione sono aumentati. Partirei dal presentare quei prodotti che sono comuni anche qui nei distributori italiani. Già precedentemente presentati abbiamo i distributori di bibite, che in Italia troviamo solo come prodotti freschi, poi abbiamo i distributori di sigarette o prodotti da tabacchi e i distributori di snacks. Tutti distributori comuni nell’utilizzo quotidiano. In Giappone però è possibile comprare anche bibite alcoliche tramite una semplice vending machine, come magari una bella birra fresca. Rimanendo sempre su alimenti che possano alleviare il caldo perché non prendere un bel cono gelato? Se invece preferite un pasto più sostanzioso ci sono sempre distributori che vendono nuddles che siano questi ramen, udon, mazesoba, tsukesoba e tanto altro, ce n’è per tutti i gusti! È possibile comprare anche cibi dal gusto più europeo come una bella pizza o paella oppure darsi a qualcosa di più esotico come il loco moco, un piatto hawaiano composto da riso, hamburger, uovo e salsa gravy. E cos’è un buon pasto senza un dolce, perché oltre al gelato sarà possibile prendere anche un qualcosa di un po’ più sfizioso. Ma il contenuto dei distributori automatici non si ferma solo a prodotti alimentari, in base al quartiere in qui ci si trova si possono trovare action figures, carte da gioco e libri o manga in quelle più comuni, ma andando a controllare i distributori più nascosti chissà cosa si potrebbe trovare, magari proprio la cravatta che avete dimenticato di indossare per il vostro importante colloquio. photo credits: web-japan.org Le jidōhanbaiki non vi stupiranno solo per il loro contenuto, ma anche per la loro innovazione tecnologica, dagli schermi touch fino al distributore automatico realizzato in collaborazione con un’azienda di cosmetica che utilizza l’IA, questo analizzando il volto dei clienti proporrà loro il prodotto più indicato per la loro fisionomia e carnagione. Articolo di Elena Ferrario, Stagista presso l’Associazione Giappone in Italia
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Lo Yukata l’abito tradizionale estivo giapponese
photo credits: guidable.co Lo yukata è una tipologia di vestiario più semplice rispetto a quella del kimono, composta solo da tre elementi: la veste, con il nome di yukata, la cintura, con il nome di obi, e i geta, i sandali di legno tradizionali. Rispetto al kimono possiamo vedere l’assenza del juban (sottoveste, biancheria del kimono) e delle tabi (calze). Questo è dovuto al fatto che in principio lo yukata era nato per essere indossato dai nobili durante bagni di vapore per proteggere la loro pelle e asciugane il sudore. La funzione si può comprendere osservando l’antica l’etimologia della parola. La parola yukata era composta dal termine yu “湯” (acqua calda) e katabira “帷子” (indumento semplice di seta), che uniti in yukatabira “湯帷子” sono traducibili in italiano con la parola ‘accappatoio’, con la specifica che fosse possibile indossarlo dopo o durante il bagno. Tuttavia, con il passare del tempo la scrittura del termine si è semplificata fino a divenire quella che conosciamo noi oggi, composta da una differente coppia di kanji, quali yu “浴” (bagnarsi) e kata “衣” (indumento), ma mantenendo lo stesso senso di fondo un indumento da bagno. Inizialmente nati quindi, come indumenti da bagno per nobili gli yukata divennero vestiario comune grazie alla loro produzione in cotone nel periodo Edo (1603-1867) e solo in anni più recenti, alla fine del periodo Showa (1926-1989), divennero gli abiti tradizionali da indossare nel periodo estivo, per far visita ai templi o santuari, per essere indossati durante i festival e la sera. Anticamente lo yukata era di differenti colori in base a quando doveva essere indossato. Solitamente in casa si indossavano yukata semplici e dai colori chiari, come il bianco, mentre per uscire si preferiva indossarne di color indaco anche per via dell’odore dalla colorazione, che creava un repellente naturale per insetti. Oltretutto gli yukata venivano usati al massimo delle loro potenzialità, dopo essersi rovinati erano indossati come pigiami, e quando anche questi non erano più in condizioni ottimali, venivano trasformati in fazzolettini ed in fine stracci per la casa. Oggigiorno indossare lo yukata è diventata anche una questione di stile. Le fantasie più popolari tra le ragazze sono floreali di colori sgargianti, mentre le donne adulte preferiscono indossarne con motivi più semplici, ma sempre dai colori vivaci. Gli yukata indossati dagli uomini tendono a colori scuri, quali il blu e nero, monotono e dalle lavorazioni classiche. Perché sì, nonostante quando si pensa allo yukata si immagina una ragazza vestita con un elegante abito dai colori brillanti, questo è anche un classico indumento maschile. È possibile non solo per i giapponesi, ma anche per i turisti vivere l’esperienza di indossare e farsi fotografare in uno yukata mentre si camminare per le strade delle città, grazie a tutti i negozi che ti permettono di prenderli in prestito o li vendono. Tuttavia, se doveste recarvi in Giappone durante il periodo autunnale o invernale, mesi un po’ freddi per fare quest’esperienza, non c’è da preoccuparsi, li potrete indossare negli ryoukan, pensioni in stile giapponese. Difatti queste pensioni mettono a disposizione dei loro clienti lo yukata, sia per muoversi all’interno dello stabile che per andare a fare quattro passi grazie all’ausilio di giacche pesanti quali hanten o chabaori. photo credits: yamanami-online.jp Articolo di Elena Ferrario, Stagista presso l’Associazione Giappone in Italia
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L’Obon, la festa giapponese delle lanterne e non solo
photo credits: zenpop.jp L’Obon è generalmente conosciuta come la festa delle lanterne. Quest’ultime venendo liberate sulle superfici d’acqua, creano degli scenari molto suggestivi. Tuttavia, di questa festività che viene celebrata in Giappone da più di 500 anni, c’è molto di più che delle lanterne galleggianti! L’Obon è il nome con cui viene chiamata una delle festività tradizionali nazionali giapponesi più importanti, la quale vuole festeggiare gli spiriti degli antenati. Viene svolta durante il periodo estivo, solitamente intorno al 15 di agosto. Non vi è una data precisa per tutto il territorio giapponese, anzi questa varia da prefettura in prefettura. Il nome Obon “お盆” ha le sue origini dai termini buddisti Urabone “盂蘭盆会” ed Urabon “盂蘭盆”, i quali possono essere tradotti in italiano con ‘festa delle lanterne’. Per quanto riguarda il termine bon “盆” in italiano è tradotto con la parola ‘vassoio’, parola che può rimandare all’idea di offrire qualcosa a qualcuno. A differenza del nostro Giorno dei Morti, il 2 novembre, nel quale si compiangono i nostri cari deceduti, andandoli a visitare al cimitero e portandogli mazzi di fiori, l’Obon vuole celebrare la visita degli antenati e di coloro che abbiamo amato. Prima dell’inizio delle celebrazioni dell’Obon le famiglie vanno in visita a casa dei loro familiari e da lì danno inizio ai preparativi per l’arrivo degli spiriti. Si parte dalla ohaka-mairi “お墓参り” (visita alla tomba) con la pulizia della tomba di famiglia. Dopodiché bisogna occuparsi delle offerte di dolci e frutta da porre di fronte all’altare di famiglia, che solitamente è presente in ogni casa giapponese. In aggiunta, in alcune prefetture del Giappone vi è anche la tradizione di disporre lo shoryo-uma “精霊馬” (spirito del cavallo), che consiste nel prendere un cetriolo e una melanzana e infilzarle con quattro stecchini. Il cetriolo diventa la rappresentazione del cavallo che aiuterà gli antenati ad arrivare velocemente verso casa, mentre la melanzana diventa la rappresentazione della mucca che riaccompagnerà con calma gli spiriti nel loro mondo. photo credits: grapeejapan.com Con il primo giorno dell’Obon si da il benvenuto agli spiriti degli antenati, accendendo dei piccoli fuochi che prendono il nome di mukaebi “迎え火” (fuochi di benvenuto). Inoltre, vengono accese anche delle lanterne, le chochin “提灯” per guidarli nel loro rientro verso casa. In queste giornate è comune per le famiglie visitare il tempio o richiedere a dei preti buddisti di eseguire un servizio memorativo davanti all’altare di famiglia. Oltre alle visite al tempio e le cerimonie commemorative, è usanza andare ai festival tenuti dalle città, dove è possibile vedere eseguita la bonodori “盆踊り” (danza dell’Obon), visitare delle bancarelle e mangiare street food. photo credits: otakusjournal.it Il terzo giorno, alla conclusione dell’Obon, verranno di nuovo accesi dei fuochi che prendono il nome di okuribi “送り火” (fuochi di saluto), per illuminare la strada e rendere la partenza degli spiriti più sicura. L’Obon è una festività che è variata e mutata nelle sue tradizioni durante il tempo, ma il suo spirito è rimasto sempre lo stesso, celebrare e ricordare con affetto i nostri antenati e le persone che sono state a noi care. Articolo di Elena Ferrario, Stagista presso l’Associazione Giappone in Italia
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L'anguilla un piatto estivo che porta fortuna
photo credits: skywardplus.jal.co.jp In Giappone sin dal Periodo Nara (710-749) si racconta come l’anguilla sia uno dei migliori cibi contro il caldo estivo, di come questo cibo grasso e ricco di vitamina A aiuti l’alleviamento della fatica e migliorare l’appetito per contrastare la calura estiva, che causa a molti di sentirsi male. Servita grigliata, bagnata da una salsa buonissima di cui sappiamo avere come base la salsa di soia e nulla di più, per via di come i suoi ingredienti sono tenuti segreti dai vari ristoranti che la servono. Viene poi servita su un letto di riso bianco, prendendo il nome di unadon. Termine che si crea all’unione delle parole giapponesi unagi (anguilla) e donburi (ciotola), che può anche identificare una tipologia di cibi giapponesi caratterizzati da una ciotola contenente riso sulla quale vene posto un ingrediente, come in questo caso. Questo cibo che per la sua pesantezza potremmo non vedere collegato ai leggeri e freschi cibi estivi deve la sua fama ad una festività del periodo Edo che lo ha reso il suo piatto principale. Tale festività prende il nome di Doyō no ushi no hi che in italiano possiamo tradurre con ‘Il giorno del bue di metà estate’, è una festività basata sul calendario lunare e sui suoi dodici animali dello zodiaco. Il ‘Giorno del bue’, secondo tra i dodici animali dello zodiaco, cade in quello che viene definito doyō, i 19, 18 giorni prima del cambio di stagione, che in questo caso è nel mese di luglio, per questo tradotto con ‘metà estate’ in italiano. Il collegamento tra il piatto a base di anguilla e la festività non si sa bene come sia nato, se sia davvero dovuto alla ricchezza dei nutrienti dell’anguilla o per altri motivi, tuttavia, vi vorrei proporre oltre ad una motivazione nutrizionale, quella che potremmo definire una divertente leggenda. Si narra infatti che sia stato un certo Gennai Hiraga ad aver suggerito questa usanza nel periodo Edo. Un giorno il Sig. Gennai ricevette la visita di un negoziante che aveva paura di non riuscire più a vendere le sue anguille nel periodo estivo. Gennai ci pensò su e come soluzione gli propose di pubblicizzare la vendita dell’anguilla durante il Giorno del Bue, poiché mangiare qualcosa che inizi con la ‘U’ durante questa festività avrebbe portato molta fortuna. Ora per noi una frase del genere ha tanto senso quanto chi ci consiglia di guardare il sole quando non riusciamo a starnutire, ma bisogna tenere in conto che in giapponese il Giorno del Bue si dice Ushi no hi e che la parola anguilla in giapponese si dice unagi; quindi, mangiare anguilla il Giorno del Bue è proprio uno di quelle pietanze perfette per diventare fortunati a quanto viene affermato dal Sig. Gennai. Che questa storia sia davvero alla base di una tradizione che persiste fino ad oggi, lo lascio decidere a voi. Sicuramente dal periodo Edo la festività e il piatto culinario si sono legati molto, tanto che tutt’ora in Giappone dall’inizio di luglio è possibile trovare volantini e cartelli che pubblicizzano l’arrivo del Doyō no ushi no hi e per le strade si può già sentire il dolce profumo dell’anguilla alla brace coperta dalla sua deliziosa salsa, che ti invita ad entrare nei negozi per mangiarla. Un esempio di volantino pubblicitario. Photo credits: threaf.com Articolo di Elena Ferrario, Stagista presso l’Associazione Giappone in Italia
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