Recensione "Libro delle Ombre. Hiroshima, 80 anni dopo" di Giuseppe Carrieri

Libro delle Ombre
Un documentario di Giuseppe Carrieri per l’ottantesimo anniversario di Hiroshima

A ottant’anni dal 6 agosto 1945, giorno in cui la prima bomba atomica fu sganciata sulla città di Hiroshima, il documentario Libro delle Ombre, diretto da Giuseppe Carrieri, sceglie con coraggio di non concentrarsi sulla guerra, bensì sulla pace. Ed è proprio questa parola - “pace” - a risuonare più frequentemente nel racconto, ancor più della parola “guerra”: una scelta non solo lessicale, ma anche profondamente politica e poetica.

Carrieri, regista e documentarista napoletano da anni attivo nel panorama del cinema del reale, firma un’opera di rara delicatezza visiva e spirituale, capace di trasformare il linguaggio documentaristico in una riflessione poetica sul trauma, la memoria e la possibilità di rinascita.

Come assenza non solo di conflitto, ma anche di discriminazione: così viene definita la pace da alcuni hibakusha (sopravvissuti alla bomba atomica, oggi membri dell’organizzazione Nihon Hidankyō, insignita del Premio Nobel per la Pace 2024), quando viene chiesto loro che significato abbia davvero questa parola. È commovente constatare come i testimoni non si richiudano mai su un dolore nazionale, ma si aprano invece a un respiro universale, non mancando di rivolgere un pensiero anche a chi, ancora oggi, si trova a vivere nel mezzo di una guerra.

Carrieri intreccia un delicatissimo poema in prosa con testimonianze orali, immagini dei giorni immediatamente successivi al disastro, disegni essenziali e intensamente evocativi e scorci della Hiroshima di oggi. Il bianco torna più volte a occupare lo schermo, dapprima come luce accecante e assordante, che richiama l’istante della deflagrazione, poi come velo in sovrimpressione durante le testimonianze, a suggerire come l’onda d’urto della bomba abbia continuato a propagarsi nel tempo, lasciando una traccia profonda ben oltre l’impatto iniziale.

La fotografia di Emanuele Stalla restituisce con delicatezza questo doppio livello temporale: da un lato, i frammenti delle vite conclusesi quel 6 agosto, conservati all’interno del Museo della Pace; dall’altro, i viali alberati, le acque limpide, le aiuole fiorite simbolo di una Hiroshima rinata. 

Fin dalle prime scene, il documentario costruisce un parallelismo simbolico tra la luce degli hanabi, i fuochi d’artificio estivi che sbocciano come peonie nel cielo notturno, e quella del fungo atomico. L’intero film si muove poi sul contrasto tra luce e ombra: paradossalmente, è la luce ad apparire distruttiva, mentre l’ombra - della montagna, dei palazzi, dei luoghi riparati - si rivela salvifica, in grado di proteggere dalla deflagrazione.

Le ombre, nel Libro delle Ombre, non rappresentano il buio, ma il rifugio. Non l’oblio, ma la sopravvivenza. È grazie a esse, ci ricordano gli hibakusha, se qualcuno ha potuto continuare a vedere la luce. E finché possediamo un’ombra, fino a quel momento siamo vivi.

A tessere il filo di questo racconto è la voce narrante di Mayu Seto, dolce e colma di speranza, che guida lo spettatore attraverso un’intima meditazione sull’eternità e sull’impermanenza, due concetti profondamente radicati nella sensibilità giapponese. Fin dall’epoca dello Heike Monogatari, capolavoro dell’epica giapponese, la cultura nipponica contempla il ciclo di splendore e caduta, interrogandosi sulla fugacità dell’esistenza e sulla fragilità della gloria umana. Celebre è il prologo dell’opera, che così recita: “Il suono del campanile del Gion Shōja riecheggia l’impermanenza di tutte le cose. I fiori di ciliegio, tanto amati, rivelano il destino dei potenti: la loro caduta, rapida come un sogno di primavera. Le loro gesta, infine, si disperdono come polvere al vento.”

Eppure, nonostante l’evidenza della caducità della vita umana, gli hibakusha - o forse, più in generale, l’essere umano - continuano a sperare, in qualche forma, di poter sfiorare un’idea di eternità. C’è chi la cerca raccogliendosi davanti al proprio altare di famiglia, piangendo i volti amati che non ci sono più, spesso accompagnato dal silenzioso fardello del senso di colpa dei sopravvissuti; chi la invoca rivolgendosi ai kami del santuario; e chi, infine, la coltiva nel silenzio più profondo, custodendo dentro di sé la memoria dell’atomica come una fiamma che continua a bruciare.

Sofia Dagradi, studentessa


Recensione "Gli ultimi soldati dell’imperatore. I giapponesi che non si arresero dopo il 1945" di Antonio Besana

La guerra è senza dubbio una delle dinamiche, nella storia dell’uomo, che sfuggono a qualsiasi tipo di logica: resta un mistero irrisolvibile come l’essere umano, capace di progettare strumenti quali l’intelligenza artificiale, di costruire infrastrutture che connettano i due emisferi e di sviluppare cure per contrastare pandemie, non sia ancora in grado di coesistere pacificamente sullo stesso pianeta.
È proprio all'interno di questo fenomeno, di per sé quasi inspiegabile, che emergono dinamiche altrettanto bizzarre, capaci di affascinare e allo stesso tempo turbare il senso comune: è il caso, ad esempio, dei militari comunemente conosciuti come “soldati fantasma giapponesi” (zanryu nippon hei, letteralmente “soldati giapponesi lasciati indietro”). 

Antonio Besana (Milano, 1955), professore al MIMM (Master di International Marketing Management) presso l’Università Cattolica di Milano, ha negli ultimi anni affiancato alla carriera accademica quella di scrittore, coltivando la propria passione per la storia militare. Le sue pubblicazioni si distinguono per il focus su episodi meno noti all'interno delle più ampie dinamiche di guerra: in Vite incrociate. La pietà per il nemico nella Seconda Guerra Mondiale (Edizioni Ares, 2022), ad esempio, esplora tredici casi in cui i soldati hanno saputo riconoscere e rispettare la sofferenza degli avversari; ancora, ne Il bambino di El Alamein (Edizioni Ares, 2023) racconta la triste storia del più giovane soldato italiano arruolato durante il secondo conflitto mondiale. 

Nel suo nuovo libro, l’autore si concentra sulle storie dei soldati giapponesi i quali, non avendo ricevuto la notizia della resa o rifiutandosi di credervi, continuarono a combattere nelle giungle del Sud-Est asiatico, talvolta persino per decenni. Un’impresa di ricerca ardua, come l’autore stesso ammette, soprattutto per la difficoltà nel reperire fonti tradotte in inglese.

Come sottolinea lo stesso Besana, è naturale interrogarsi sul motivo di questa profonda incapacità di accettare la realtà della sconfitta. A tal proposito, Ōoka Shōhei, prigioniero di guerra sull’isola di Leyte e autore di Nobi (titolo italiano La guerra del soldato Tamura, 1951), scrive: “Sembra [...] che l'uomo non sia capace di accettare il caso. Il nostro spirito non ha la forza di sopportare una serie continua di casi, cioè l'eternità.” Pur non essendo uno dei “soldati fantasma”, in quanto è stato rimpatriato al termine del conflitto, Ōoka è una delle voci più autorevoli della letteratura di guerra giapponese, e con questa citazione coglie perfettamente come per quei soldati la resa rappresentasse una casualità insopportabile, un evento in grado di vanificare la loro missione e di negare il senso stesso della fedeltà all’imperatore il cui culto, nel frattempo, era stato smantellato dalla Costituzione “imposta” dalle Forze Alleate nel 1947.

Trovo che Besana, alternando resoconti puntuali, tratti da testimonianze dirette dei reduci, a riflessioni più ampie di natura etica e culturale, riesca con efficacia a restituire la complessità di queste vicende. Particolarmente significativo è il passo tratto dalla cronaca No Surrender: My Thirty-Year War di Onoda Hiroo, ufficiale dell'intelligence giapponese, nascostosi nella giungla dell’isola di Lubang per poi arrendersi ai rappresentanti dell’esercito statunitense e filippino ventinove anni dopo la resa formale del Giappone:

Non ne avevamo mai parlato, ma tutti noi avevamo sperato che un giorno saremmo tornati in Giappone. E ora io solo tornavo, lasciando gli spiriti dei miei insostituibili camerati sull’isola. Tornavo in un Giappone che aveva perso la guerra trent’anni prima. Tornavo nella terra dei miei avi, per la quale avevo combattuto fino al giorno prima. Se non ci fosse stata gente intorno a me, avrei battuto il capo per terra, gemendo. [...] Per la prima volta osservavo dall’alto il mio campo di battaglia. Perché mai avevo combattuto laggiù per trent’anni? Per chi avevo combattuto? In nome di quale causa?

Proprio come i protagonisti del genere isekai (sottogenere fantasy in cui un individuo ordinario viene reincarnato in un universo parallelo), particolarmente amato dal pubblico giapponese, ma con un’esperienza ben più concreta e drammatica, questi “eroi tragici” si ritrovano catapultati in un mondo al quale non sentono più di appartenere. Lo stesso Onoda, incapace di adattarsi alla realtà del Giappone del dopoguerra, scelse infatti di trasferirsi in una colonia agricola giapponese in Brasile.  

Besana accompagna simili resoconti a citazioni dal codice etico del Bushidō (“la via del guerriero”), ispirato a testi fondanti della tradizione samuraica come lo Hagakure:

Hagakure, il testo classico del Bushidō scritto all’inizio del XVIII secolo, inizia con le parole: Bushidō è un modo di morire’. Solo un samurai preparato e disposto a morire in ogni momento può dedicarsi completamente al suo signore.”

Attraverso questa duplice lente - da una parte la cruda realtà raccontata in prima persona, dall'altra la millenaria eredità storico-culturale - l’autore riesce a raccontare quanto, per i protagonisti di queste vicende, fosse più accettabile rifugiarsi nell'autoinganno che tutte le loro sofferenze non fossero state vane, piuttosto che accettare la “banalità” della resa. Continuare a credere nella propria missione, e nutrire la speranza di un ritorno a un Giappone immutato, era forse l’unico modo per sopravvivere alle loro terribili condizioni autoinflitte per anni. In questo senso, ricollegandoci anche al pensiero di Ōoka, potremmo parlare di “assurdo” nel senso sartriano del termine: la contraddizione intrinseca tra il bisogno umano di attribuire un significato all'esistenza e l’assenza, nella realtà, di un fine ultimo oggettivo. 

Besana sottolinea infatti come, contrariamente a quanto dettato dall'immaginario collettivo, che tende a schernire questi soldati o a etichettarli come fanatici, la loro resistenza nascesse da sentimenti profondamente umani. Lo dimostra anche il passaggio dedicato ai kamikaze, in cui viene riportata la commovente lettera scritta da Ichizō Hayashi, membro di una forza d’attacco speciale, alla madre prima di partire per una missione suicida: “Sono felice di avere l’onore di essere stato scelto come membro di una forza d’attacco speciale che sta andando in battaglia, ma non posso fare a meno di piangere quando penso a te, mamma.”). 

Eppure, laddove sarebbe facile cadere nella cieca glorificazione di una lealtà assoluta, o nel fascino esotizzante di una cultura così distante dalla nostra, lo scrittore è estremamente abile nel non oltrepassare mai questa soglia. Il racconto è difatti bilanciato da riferimenti lucidi e puntuali alle atrocità commesse dai reparti giapponesi a danno dei vicini asiatici durante la Seconda Guerra Mondiale, e l’autore non manca nemmeno di citare un toccante episodio - perfettamente in linea con il precedente Vite incrociate - di riconciliazione tra due reduci giapponesi e due americani sull'isola di Peleliu, avvenuta nel 2013 e raccontata nel documentario Once were enemies (2017) della regista Eva Wunderman.

Al netto di tutto ciò, Gli ultimi soldati dell’Imperatore è un libro che mi sento di consigliare caldamente, non solo a chiunque sia appassionato di storia e cultura giapponese, ma anche a chi, magari, non ha mai amato particolarmente l’insegnamento scolastico della storia. Le riflessioni che ne emergono toccano, infatti, corde universali e possono parlare a tutti, soprattutto in un presente che, purtroppo, è ancora profondamente dilaniato dalla guerra.

Sofia Dagradi, studentessa