Kabuki, la messa in scena della tradizione
Non avrei mai pensato che quattro ore e mezza di spettacolo teatrale potessero trascorrere così velocemente e piacevolmente… non potevo assolutamente lasciare il suolo nipponico senza aver visto una rappresentazione di kabuki, il teatro tradizionale giapponese.
Specificatamente lo spettacolo a cui mi riferisco si tenne al kabuki-za, un teatro kabuki costruito ispirandosi alle forme tradizionali dell’architettura giapponese che si inserisce con eleganza, ma anche una certa arroganza, tra i palazzoni luccicanti di Ginza a Tokyo.
Sorta come arte popolare il kabuki fonde assieme il dramma, la musica e la danza, integrandole tra loro con grande equilibrio, e si narra abbia avuto origine dalla danza eseguita a Kyoto verso il 1603 dalla sacerdotessa Okuni del tempio scintoista Izumo.Leggere di più
Tokyo: un nome, un'immagine, un'emozione
Immensa… caotica… travolgente… luminosa… eccentrica… indecifrabile… e potrei cercarne un’infinità di aggettivi nel mio impossibile tentativo di trasmettere le intense sensazioni, irripetibili, che questo macrocosmo mi ha trasmesso per tutta la durata del mio soggiorno in Giappone… TOKYO.
Prima di partire sentivo naturalmente l’esigenza di informarmi il più possibile su quella che sarebbe stata la mia casa per i mesi a venire soprattutto perché, ascoltando i pareri e le impressioni di persone che prima di me avevano vissuto un’esperienza simile, mi trovavo in evidente stato confusionale e mi ero resa conto di non avere davvero la più pallida idea di cosa mi aspettasse.
Sfogliando Tokyo-to di Livio Sacchi, un libro sulla città di Tokyo, lessi che dal punto di vista urbanistico e architettonico è considerata uno scempio, una bruttura indescrivibile, la morte dell’architettura in sostanza e di ogni principio di equilibrio visivo e psicologico! Per precisione voglio riportarne alcuni punti salienti: “Tokyo è abbastanza orrenda; una Los Angeles in peggio, giacché il sovraffollamento spasmodico preme sopra una struttura spampanata” (Alberto Arbasino); “Tokyo è una città spaventosa, la più grande e la più brutta del mondo […] l’urbanistica è caotica, non esiste […] la caricatura di alcune ossessive prigioni di Piranesi” (Cesare Brandi). Leggere di più
Il Kyukou come metafora della vita
Ci sono molte stazioni nelle quali il kyukou non passa, tu che nella vita ti sei ritrovato in quelle stazioni te li vedi passare davanti tutti i giorni. Tutti i giorni facce da kyukou ti sfrecciano davanti agli occhi, con le loro mille facce e mille vite da kyukou. Il kyukou ti porta lontano e lo fa nel modo più veloce possibile, e per questo motivo non ferma in tutte le stazioni. Se ci si vuole arrivare bisogna faticare, perché queste stazioni distano parecchio tra loro. Alcune, quelle più vicine, hanno più possibilità di essere raggiunte, ma se sei nato lontano dalle grandi stazioni da kyukou devi faticare più degli altri se vuoi raggiungerle, è così che funziona, é la vita d'altronde, non tutti abbiamo le stesse possibilità.
Sono in tanti a parlarne e ad invidiare i "tipi" da kyukou ma sono altrettanti quelli che non si buttano, non ci provano e preferiscono restare tutta la vita nella stazione dove sono nati, che conoscono a menadito e che li protegge. I più temerari, e tra questi pochi, arrivano a stabilirsi in una di queste prestigiose stazioni, ma arrivati li dopo tanto lavoro scoprono una brutta verità. Arrivarci non basta. Mantenerla é ancora più dura. La competizione al livello di kyukou è alta e tutti vogliono un posto a sedere. La folla preme ogni mattina ed ogni sera, e non c'è pietà per i deboli. Schiacciati ogni giorno negli stessi vagoni, si sente il fiato amaro di quelli che come te dormono, leggono, ascoltano, palpano, riflettono, rilassano e fissano il niente pregno di corpi davanti a loro. Le regole di cortesia che questa società impone spariscono al momento di salire su quel treno che anche oggi ci Deve portare al lavoro. Allora arrivano un momento prima che le porte si chiudano, si girano di spalle, fanno un passo nel vagone e attaccandosi come scimmie al bordo più alto spingono con la schiena e il suo fondo fino a sentirsi dentro abbastanza da far chiudere le porte. All'interno nel frattempo la massa non si oppone, forse loro stessi ieri erano davanti a quella porta, e si muove ondeggiante tra gomiti nella schiena e borse da computer pigiate sullo sterno. Si sente un mugolio di dolore ma nessuna lamentela, le porte tra la pressione si chiudono e tu sei di nuovo dentro, tocchi a malapena terra, ma resisti, chiudi gli occhi accendi l'iPod e ti lasci stritolare.
Barbara Taddeo