Mishima contro gli studenti – Il dibattito | Seconda parte

Continuiamo la pubblicazione del lungo dibattito tra lo scrittore Yukio Mishima e gli esponenti delle associazioni studentesche giapponesi, di cui potete trovare la prima parte a questo link. La discussione – che fu molto accesa – mette in luce alcune delle idee e delle tematiche care a Mishima, aiutandoci nella comprensione di questa figura estremamente complessa e per certi versi enigmatica. Buona lettura!

 

Mishima critica l’idea di una teleologia della storia, riflettendo sulle parole, sul loro significato, sul subconscio collettivo e sul tempo in generale

… A partire da quello che hai detto, tu sostieni che una comprensione accettabile del presente potrebbe essere contenuta in una spiegazione teleologica? Sì, ciò sembra pertinente con il tuo argomento. Avrei qualcosa da ridere su di essa, ma proviamo a pensare alla sua continuazione logica nel futuro. E’ una possibile via di comprensione. Per me, è assolutamente impossibile approcciare la comprensione del presente mediante un approccio teleologico. Di conseguenza, il presente e il passato, o anche il futuro, hanno la loro dimensione completamente diversa e separata dalle altre, e tali devono essere considerati.


Io non sono né un pittore né un musicista; sono solo uno scrittore. Queste sono solo parole, giusto? In una comunità, l’arte del linguaggio, della poesia e affini, esiste solo grazie alle corrispondenze create dalle parole, e perciò se io, che sono qui davanti a voi, signore e signori, cominciassi a parlare in russo, ebbene quanti di voi potrebbero capirmi? L’unicità del giapponese come mezzo di comunicazione dipende da un accordo volontario sul suo significato, anche se, forse, non potremmo mai raggiungere tale accordo. Nonostante le parole siano insufficienti per descrivere qualcosa, tentiamo di usarle continuamente. Perciò, se le mie parole non hanno un significato consistente e persistente, esse non hanno il potere di essere trasmesse a voi, signore e signori. Tuttavia, se le mie prime parole verso di voi fossero state qualcosa come, per dire, la pubblicità di una penna stilografica, il significato inscritto in esse sarebbe stato totalmente diverso. Quello che genera il significato nelle parole è la loro fissità, non solo nello spazio che descrivono ma anche nella loro consistenza e ordine nel tempo, e la nostra comune comprensione; se dobbiamo usare le parole, esse devono avere questa fissità nel corso del tempo per essere comprensibili e significanti. Possiamo seguire questo ragionamento per determinare che le parole appartengono al passato. Questo tuttavia non è il caso per la generazione iniziale di un linguaggio; in ogni generazione avviene un raffinarsi del linguaggio e della letteratura e il significato delle parole viene all’essere mediante questo raffinarsi. Le parole che uso come mio materiale da scrittore, devono avere il loro precedente nel passato. Quello che riconosco come il presente, invece, lo posso solo descrivere attingendo dalla mia coscienza di cose e idee intorno a me; devo scegliere dal mio armamentario un’idea che serva allo scopo del mio Io attuale, e portarla fuori, nel mondo. Questa selezione ha sempre luogo, poiché una frase è costituita parola per parola, e anche le decisioni più piccole devono essere ponderate: dovrei dire “La donna sta sorridendo” o “La donna sorride”? Dovrei dire “Come un fiore, sorrise”, nello stile riconoscibile di Kawabata Yasunari (premio Nobel per la letteratura, amico e mentore di Mishima, morì anch’egli suicida nel 1972, N.d.R.), qualcosa che tutti si aspetterebbero da me? [Mishima ride] Dovrei dire che “Come una triste luna, ella portava un contegno ameno”, come potremmo aspettarci da qualcun altro? Inoltre, non è solo la scelta delle parole che deve essere presa in esame nella costruzione del linguaggio, ma anche la disposizione di tali parole. Così è come faccio io, così è come avviene il processo di selezione.


Per me, al contrario di chi presenta il passato e il presente come cose appartenenti alla stessa dimensione, riferirsi al passato è riferirsi al lungo effetto cumulativo del passato, e alla conseguente accumulazione di cultura; questa stessa accumulazione dovrebbe essere tenuta in grande considerazione. Il mio sentimento, il mio avere a cuore le eredità culturali del passato, oggi è disprezzato. E questo perché si è arrivato a considerare tali sentimenti inutili e morti. Anche se non vorrei fare nomi, Nakamura Shinichiro (scrittore giapponese, N.d.R.) e le persone a lui affini, la loro idea sul culturalismo, (bunkashugi, lett. “dominio della cultura”) è qualcosa che ho odiato per molto tempo. E questo perché ritengono la cultura solo una serie di relitti venuti dal passato. Essi stessi non riescono a evitare il fatto che il loro lavoro e la loro persona imitano questi relitti; sono intrappolati nella stessa cultura che essi criticano. Per me, la cultura è sia l’accumulazione di idee nel tempo, sia la continuità con l’Io, che si forma nel presente. Nel momento in cui esteriorizziamo la cultura, la interiorizziamo simultaneamente, nel corso del processo di selezione delle idee; esso è ciò che guida la nostra condotta ogni momento. Questi comportamenti e l’accumulazione di scelte su altre scelte modellano la forma delle opere d’arte, delle opere scientifiche, e via dicendo, ma se sorpassiamo, se tentiamo di andare oltre le opere del passato, finiamo per creare qualcosa che verrà immediatamente respinto in un passato. In questo modo, viviamo la stessa vita degli scrittori.
Adesso sarebbe un buon momento per chiedere: cos’è il futuro? Il futuro è un verso libero; è ciò che non è codificato. Il futuro, nel suo stato fluido, è qualcosa che pressiamo mediante i nostri atti di selezione istantanei. Continuando a pressare, il futuro prende forma, ma non appena si solidifica diventa insulso e noioso. E continuiamo a pressarlo questo fluido che diventa solido, e quindi diventa di nuovo noioso, e così avanti a pressare e a vivere la nostra vita, giusto? Ad ogni modo, io trovo questa idea dello stato fluido del futuro un qualcosa su cui non valga la pena scommettere: io vivo nel momento presente, nel momento che sto vivendo ora. Per me, il futuro, il presente e il passato non hanno alcuna relazione significativa; non credo in una teleologia che può intervenire per mediare la loro esistenza. Questo è quello che vorrei dirvi, questa è la mia posizione sulla questione.

Mishima Yukio


Mishima parla della sua concezione dell’imperatore, in una sorta di teologia negativa, e critica l’idea attuale di imperatore


A dire la verità, potrei parlare molto a lungo della questione dell’imperatore. Per voi va bene? Penso che l’imperatore attuale debba starsene nella parte interna del palazzo (detto ridendo, è un eufemismo che sta a significare “nel suo harem, nel suo cantuccio”, N.d.R.). Parlando seriamente, direi che il mio punto di vista sull’imperatore è totalmente diverso da quello tipico della cosiddetta Destra. Penso che sia abbastanza chiaro se si ha dimestichezza con il Kojiki (古事記, lett. “Cronache di antichi eventi”. È il più antico testo narrativo giapponese pervenutoci, che narra le origini mitologiche del Giappone e di alcune divinità shintoiste, N.d.R.). Il volume finale si apre con il tema della benevolenza dell’imperatore. Se ci chiediamo che significato ha tutto ciò, ci rendiamo conto che la forma di benevolenza di un imperatore confuciano ci è stata imposta erroneamente. Anche la visione dell’imperatore come “colui che ha tenuto i cuori del popolo attivi e prosperi” è stata imposta allo stesso modo. Questa è la traccia che è stata sempre seguita, a partire dal rescritto imperiale (la risposta scritta che l’imperatore dava su questioni di diritto a lui sottoposte, N.d.R.) sull’educazione. Eppure ritengo che l’immagine dell’imperatore nel Kojiki sia totalmente diversa rispetto alla nozione di virtù esposta nel rescritto imperiale sull’educazione. Lì vi è infatti scritto di esercitare “pietà filiale verso i genitori, cameratismo verso i fratelli”; ma nelle cronache del Kojiki l’imperatore e i suoi fratelli non ebbero scrupoli nell’uccidersi fra loro, e non mostrarono ai loro genitori nemmeno un briciolo di riverenza, e la linea di discendenza imperiale non comprende affatto solo chi non ha mai fatto qualcosa di davvero immorale. Su tale punto, vorrei evidenziare quale sia per me la parte più significativa del Kokiji, ossia il mito di Yamato Takeru no Mikoto (lett. “il coraggioso principe di Yamato”, personaggio a metà tra la storia e il mito, si pensa che abbia soffocato una serie di rivolte contro il potere centrale e che abbia così contribuito all’unificazione del paese, N.d.R.). La parte del Kokiji in cui si parla del principe non riguarda solo lui, ma anche il significato delle arti e come tale significato sia tutt’uno con il concetto di imperatore. Questo s’intende, infatti, quando si parla della divinità del principe imperiale. Se vogliamo avvicinarci al significato di questa storia, dobbiamo prima capire un evento precedente: il padre di Yamato, l’Imperatore Keiko, fu colpito dalla visione di una donna meravigliosa mentre passeggiava per la campagna. Pianificò di portarla a corte, dichiarando che sarebbe stata la moglie del fratello maggiore di Yamato. A quel punto, il suddetto fratello, Oousu no Mikoto, durante il viaggio si accoppiò con lei e la nascose. In seguito, trovò un’altra donna, la portò a corte e la additò come la bellissima donna in questione, e anche se l’imperatore Keiko era notoriamente irritabile, non disse nulla e lasciò la faccenda così com’era. Yamato, il fratello più giovane, pensò per qualche tempo che ciò che aveva fatto il fratello fosse orribile, avendo mancato di rispetto al padre. Un giorno, durante la colazione, Oousu non si fece vedere, e l’imperatore disse a Yamato: “Perchè mai tuo fratello non è ancora arrivato? Vai a cercare mio figlio!”. Yamato entrò, esitante, nella stanza del fratello, e lo uccise improvvisamente, facendolo a pezzi; quando giunse la notizia all’imperatore, questi spedì il più lontano possibile il principe. Durante tale pericolosa spedizione, tuttavia, Yamato non solo sopravvisse, ma si distinse e ritornò a casa; solo per poi essere assegnato ad un’altra pericolosa missione. Yamato si recò dunque al santuario di Ise e chiese piangendo alla sacerdotessa della Dea, sua zia, se il padre voleva davvero mandarlo a morire (per comprendere il passaggio successivo, ossia l’affermazione di una divisione fra il dominio imperiale e quello divino, bisogna aggiungere che la sacerdotessa, mossa a compassione, ricompensa il principe donandogli una spada divina, ndr). Ritengo questo passaggio della storia cruciale, perchè mostra come ci sia una divisione  tra il dominio imperiale e gli dei. La divisione tra l’idea divina e l’idea imperiale si verifica davvero in questo passo del Kokiji, a mio parere. Quello che io chiamo l’Imperatore e l’imperatore in carne ed ossa che esercita il potere non sono la stessa cosa. L’imperatore terreno è l’imperatore politico, è spesso legato ai principi confuciani, o addirittura, dopo la restaurazione Meiji (il ritorno di un forte potere centrale imperiale dopo un periodo di dominio degli shogun, nel 1868, N.d.R.) a principi cristiani. La condotta monogama, per esempio, è diventata la norma per la popolazione, è rispettata quasi ovunque. Si tratta di uno sviluppo straordinariamente innaturale per gli esseri umani. Per me, l’Imperatore del Man’yōshū (万葉集 lett. “Raccolta di diecimila foglie”, è la più antica collezione di poesie in stile giapponese giunta fino a noi, N.d.R.), al tempo in cui il libero accoppiamento era naturale, è più desiderabile della natura attuale dell’imperatore. Non so se la moderna istituzione imperiale persisterà come sta facendo ora, ma quando parlo dell’imperatore terreno, l’imperatore regnante, sto parlando chiaramente della forma del potere politico dell’imperatore. Quanto parlo dell’Imperatore, parlo degli imperatori del passato mitico, e di come desidererei riprodurre il loro ruolo in questo passato.


L’attuale imperatore terreno e l’illusoria struttura duale dell’imperatore esistono proprio perché l’imperatore esiste a questo livello dualistico. Se ci chiediamo il perché, troviamo una risposta nel fatto che, per esempio, l’imperatore Taisho (Yoshihito, 1879 – 1926, N.d.R.) era malaticcio, mentre l’imperatore Meiji era illustre ed eccellente (Mutsuhito, 1852 – 1912, N.d.R.). Guardate come fu l’uno e come fu l’altro; ciò ci dimostra che non c’è continuità nella singola personalità dell’imperatore. Se l’imperatore fosse davvero una singola entità puramente continua, allora l’individuo stesso non sarebbe un problema. Molti pensano che l’attuale versione dell’imperatore contraddistinta da un’eleganza straordinaria, una strana e mite eleganza rapportata agli odierni costumi, e proprio per quello lo amano e lo servirebbero in ogni circostanza: non c’è verso che io la pensi allo stesso modo. Questi sono i sentimenti di Koizumi Shinzou e dei Vecchi Liberali nei confronti dell’imperatore. La mia visione dell’imperatore è, come ho ribadito in precedenza, basato sui valori guerreschi del Giappone, in altre parole quella che precede ciò che accadde ad Hiroshima.

 

Traduzione di Stefano Bresciani
Stefano Bresciani, appassionato di cinema e cultura orientale, studia filosofia all’Università di Pavia.