Mono no aware e la concezione estetica del reale

mono no awareMono no aware è uno dei principi filosofici che maggiormente permea il pensiero giapponese. Una concezione estetica della realtà circostante, un differente approccio nei confronti della natura e del comportamento umano, la ritualità secondo la quale ogni gesto e ogni azione è diretta ad un fine preciso, un obiettivo che non avrebbe un significato se non collegato ad un insieme logico e coerente di norme d’equilibrio e armonia.

Mono no Aware

mono no awareIl mono no aware può essere dunque visto come uno dei concetti che meglio esprime la weltanschauung giapponese, ossia la visione del mondo e delle cose e la sua categorizzazione. Alla base di questo pensiero possiamo cogliere una visione estetica dello scorrere del tempo e del suo fluire spontaneo nel corso irreversibile dei processi naturali: tutto, dalla vita umana agli elementi naturali alle cose, è soggetto al suo avanzamento inderogabile e ai suoi effetti visibili.  Apprendere questa condizione porta nell’animo di chi la osserva e ne diviene cosciente una sensazione di malinconia e solitudine struggenti, e allo stesso tempo la presa di coscienza che la vita umana è così effimera e precaria che non ha senso affannarsi per essa.

Empatia verso le cose

mono no awareEvidente l’influenza del pensiero taoista cinese nello sviluppo di questo principio, con la sua accettazione dello scorrere implacabile delle cose al quale non serve opporre resistenza, e allo stesso tempo la consapevolezza buddhista dell’inconsistenza materiale della realtà. Come conseguenza di questo pensiero tutto ciò che è segnato dall’età e dalla vecchiaia acquista nel pensiero giapponese un valore senza pari. La perfezione è tacciata come imperfezione e ciò che rende bello un oggetto è proprio ciò che in occidente lo segnerebbe come imperfetto e privo di valore. Mono no aware è infatti empatia verso le cose, ossia cogliere la bellezza nella fragilità e nell’imperfezione del”esistenza e sentirsi emotivamente partecipi di questa condizione.

Articolo di Eleonora Bertin