Alita – Angelo della Battaglia: le nuove frontiere del genere umano tra uomini e cyborg

L’anno era il 1990, appena due anni dopo l’uscita di “Akira” che aveva portato alla ribalta internazionale l’animazione giapponese. Esce in quell’anno 銃夢 (“Ganmu”, contrazione di “Gun’s Dream”), tradotto in italiano come “Alita – Angelo della Battaglia” di Yukito Kishiro e di cui lo scorso 14 Febbraio è uscito l’adattamento cinematografico.

In un futuro distopico il Dr. Daisuke Ido ritrova in mezzo ai rottami la testa e il petto ancora intatti di un cyborg che ribattezza Alita in onore della figlia scomparsa una volta ricomposto il suo corpo (nel manga prende spunto dal nome del suo gatto in quanto la trama della figlia perduta è stata aggiunta nel film per sottolineare maggiormente il legame padre-figlia tra Alita e Ido). Alita, che non ricorda nulla del suo passato, si ritrova così a vivere nella “Città Discarica”, letteralmente una città situata al di sotto della ben più ricca città fluttuante di Salem a cui funge da discarica a cielo aperto. Qui Alita si ritroverà ben presto a fare i conti con una realtà fatta di violenza, pericolose gare di Motorball e spietati cyborg cacciatori di taglie.

Alita è solo l’ultimo di una lunga produzione legata al mondo del cyberpunk sia in Occidente che in Oriente. Nato sulla scia della science fiction degli anni ’60, negli anni ’80 raggiunge grandiosi apici creativi uscendo dai limiti del romanzo. Ad esempio il già citato Akira, ma anche Blade Runner (1982) per quanto riguarda l’Occidente. Pur nelle loro similitudini, la declinazione che il cyberpunk ha in Giappone è inevitabilmente legata alla storia e alla cultura di questo paese. Se in linea generale nel cyberpunk convergono tutti i timori e le ansie legate allo sviluppo tecnologico, queste paure sono sostanzialmente diverse. Il punto comune di partenza è il paradosso per cui ad un avanzamento tecnologico non solo non corrisponde un miglioramento delle condizioni di vita dell’uomo, ma anzi l’iper-industrializzazione finisce per opprimere l’umanità. Il conseguente disagio sociale sfocia in sempre maggiori disparità tra classi, violenza e spesso anche fughe dalla realtà nel mondo virtuale che finisce per sostituirsi a quello reale.

Tuttavia in Giappone un tema che diventa ben presto caro all’immaginario popolare è quello della metamorfosi del corpo umano. Queste ibridazioni tra uomo e macchina sono terribili e spaventose: in Akira Tetsuo alla fine del film subisce una trasformazione che rischia di inghiottire la città stessa. In Tetsuo, The Iron Man (1989) di Tsukamoto Shinya, la metamorfosi del protagonista sembra voler quasi richiamare un film horror. Certamente nel folklore giapponese sono molte le storie di metamorfosi di dei e esseri umani, ma dopo l’orrore post-atomico le trasformazioni diventano terrificanti. Basti pensare a Godzilla, un mostro ibrido che si risveglia a causa della bomba atomica. 

Non sempre però la metamorfosi assume caratteri negativi. Ad esempio in Ghost in the Shell (1995) di Mamoru Oshii tutti gli uomini hanno parti cibernetiche e persino la memoria stessa diventa una simulazione che può essere inserita in un contenitore, per l’appunto uno shell. In altre parole tutto quello che definisce l’identità individuale diventa irrilevante e frammentato. Il vero io è definito da carne e sangue o forse è più reale il nostro io digitale fatto di informazioni e dati? La risposta a cui giunge il film non è però la totale distruzione della tecnologia nemica né tantomeno la sua sublimazione in caratteri umani, ma bensì l’accettazione del cambiamento completo. Uomo e macchina diventano insieme una nuova identità che supera il vecchio dualismo uomo vs macchina. Si diventa così post-umani in quanto l’essenza di un essere umano è slegata dalla sua forma corporea e rimane intatta se trasferita in un altro contenitore. Allo stesso modo Alita è un cyborg ma questo non la rende meno umana. Infatti oltre alle abilità fisiche che la rendono una combattente formidabile, i veri punti di forza di Alita sono l’amore e il coraggio di combattere per le persone a lei care senza arrendersi mai, caratteristiche queste che sono solitamente concepite come umane.

Cosa ci riserva quindi il futuro? Solo il domani potrà dircelo. Quello che è certo però è che siamo già dei nuovi prototipi di esseri umani. La tecnologia al di fuori del nostro corpo è ormai parte integrante della nostra identità frammentata. È sufficiente pensare a come il solo smartphone abbia radicalmente le nostre abitudini rispetto a 20 anni fa. E il cambiamento avanza inesorabile e veloce come una notizia gettata in pasto alla rete. Forse quasi senza realizzarlo, oggi siamo tutti un po’ cyborg ma non per questo dobbiamo dimenticarci di essere umani.

 

Articolo di Erika Micozzi