KINTSUGI: L’ARTE DI ESIBIRE LE FERITE

 

Leggenda narra che nel XV secolo, Ashikaga Yoshimasa, l’ottavo shōgun (capo militare) dello shogunato Ashikawa (governo militare della dinastia Ashikaga), ruppe la sua tazza preferita. Provò a spedire i cocci in Cina per farla riparare, ma il risultato non lo soddisfò, a causa della scarsa qualità dei materiai utilizzati per la ricostruzione. Allora si affidò ad alcuni artigiani giapponesi che, colpiti dalla caparbietà del loro signore, decisero di riempire le crepe tra i cocci con resina laccata e polvere d’oro, in modo da rendere la tazza un gioiello unico.

Photo credits: japantimes.co.jp

La tecnica artistica del Kintsugi (金継ぎ, lett. “ricongiungere con l’oro”) consiste nell’unire i frammenti di un oggetto rotto, molto spesso una ceramica, impreziosendo le spaccature con oro, argento o lacca mescolata a polvere d’oro; in questo modo si concede nuova vita a qualcosa che altrimenti verrebbe buttato. Siccome le crepe non seguono mai uno schema regolare, ogni oggetto riparato sarà irripetibile nella sua forma, proprio grazie alle “ferite” che ha subito.

Photo credits: http://japan.travel.it

 

Si parte dall’estrazione della resina urushi, prodotta da una pianta autoctona del Giappone. Si procede mischiandola ad un amido, che può essere farina di riso o di grano, e poi si passa alla stuccatura: l’urushi così lavorata incontra l’argilla macinata fine. Dopodiché, si inizia la campitura vera e propria della crepa con la lacca ottenuta. È il momento di spolverare la polvere d’oro e lasciar asciugare il composto nelle crepe per due settimane. Passata la prima, occorre togliere l’oro in eccesso con un batuffolo di cotone di seta e al termine della seconda settimana lo si può brunire per ottenere un effetto naturale e antico.

Photo credits: http://kintsugi.chiaraarte.it

 

Il parallelismo è chiaro: sono le nostre cicatrici a fare di noi delle persone uniche, a renderci creature preziose ed importanti. I segni del nostro vissuto sono qualcosa da esibire con fierezza, perché sono la prova della nostra resilienza, anche di fronte alle peggiori cadute.

 

Testo di Martina Condello, martinacondello.cm@gmail.com

https://www.giapponeinitalia.org/wp-content/uploads/2023/05/2023-Evento_CampsiragoResidenza.pdf

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Shuhei Matsuyama: l'arte che matura ma non si ferma

 

Il 17 Febbraio si è conclusa la mostra del Maestro Shuhei Matsuyama, durata circa 10 giorni, presso la iKonica Art Gallery di Milano. La mostra è stata calorosamente accolta da coloro che già seguivano il Maestro da molti anni e molto apprezzata da coloro che ancora non lo conoscevano. Presenti anche molti studenti giapponesi che vivono a Milano.

© Alberto Moro

 

Il Maestro Matsuyama ha esposto quattro diverse espressioni della sua produzione artistica, corrispondenti anche a quattro momenti diversi della sua vita. “Shin-on”, tecniche shodō, “Diario” e arti plastiche si susseguivano e si alternavano nei tre ambienti della galleria.

Il Maestro Matsuyama ha offerto, in concomitanza con l’esposizione delle sue opere, una dimostrazione dal vivo di shodō, l’arte della calligrafia giapponese. Aprendo la performance con degli accenni storici alla disciplina, il Maestro ha sottolineato come nello shodō non sia concesso il ripensamento: è necessario mantenere l’intenzione con cui si è partiti. Essere consapevoli che non si può tornare indietro a ridefinire il tratto, rappresenta anche un’importante lezione di vita: nonostante gli errori, non si può tornare indietro sui propri passi ma solo guardare avanti.

Alcune opere del Maestro Shuhei Matsuyama, realizzate seguendo la tecnica dello shodō, sono state esposte nella Sala 2 della iKonica Art Gallery. Tra queste troviamo un’interpretazione personale della frase idiomatica giapponese “ 一期一会 ” (ichi-go ichi-e; una volta, un incontro che indica che ogni incontro, ogni esperienza è speciale e unica nel momento in cui avviene, poiché non si ripeterà mai allo stesso modo).

© Alberto Moro

 

La mostra è stata caratterizzata perlopiù da opere realizzate con varie tecniche di pittura. Tuttavia, sempre nella Sala 2, è stato possibile ammirare delle installazioni di arte plastica (implicano, cioè, l’uso di materiali che possono essere plasmati o modulati).
Sapevate infatti che il Maestro Matsuyama è arrivato in Italia, a 21 anni, spinto dalla passione per la scultura? E che il suo primo libro acquistato in italiano è stato “Italia sconosciuta” di Sabatino Moscati?

Come ci rivela proprio il Maestro, fu in quel libro che studiò le sculture delle antiche popolazioni che abitarono l’Italia ancor prima dei Romani; ma soprattutto, fu lì che scoprì i graffiti realizzati dai Camuni, popolazione che visse nella Val Camonica (Brescia) e che fu tra i massimi produttori d’arte rupestre in Europa.
Guardando e studiando quei graffiti che sembrava gli parlassero, il Maestro Matsuyama decise di dedicarsi alla pittura poiché, come lui stesso ci confessa, “i quadri hanno un’espressione più immediata rispetto alla scultura”.

Il Maestro Shuhei Matsuyama nel suo studio con il manuale “Italia sconosciuta” che lo ha iniziato alla pittura
e il suo catalogo delle installazioni di “Shin-on” presenti in varie città del mondo;
in alto, realizzazione in arte plastica di “Shin-on”.

 

Se nella Sala 2 della iKonica art Gallery hanno dialogato diverse tecniche artistiche, la Sala 1 è stata dedicata ad alcune opere della serie “Shin-on”, tema iniziato negli anni ‘90, che il Maestro Matsuyama descrive come “un grido del cuore, un’espressione in sintonia con il sé”.
Il termine Shin-on, in giapponese, racchiude 16 significati diversi, attraverso la diversa realizzazione in kanji (caratteri giapponesi usati nella scrittura) del suono shin-on.

La prima mostra di “Shin-on” si è svolta nel 1991 presso la Galleria Gariboldi di Milano, ci rivela il Maestro Shuhei Matsuyama quando andiamo a trovarlo nel suo studio, mentre ci mostra alcune vecchie foto delle sue prime mostre.
Il tema, inoltre, si divide in “Shin-on” che comprende le nuove opere della serie; e “Furikaeri-Shin-on,” in cui possiamo trovare le opere realizzate precedentemente e quindi legate alla creazione artistica passata.
A partire da questa differenza, il Maestro ci svela che la creazione di “Shin-on” è una creazione continua, che a distanza di anni non cerca una conclusione. Come dice il Maestro, Shin-on rappresenta “un flusso ininterrotto di passato, presente e futuro”.

 

© Alberto Moro

© Alberto Moro

       

 

 

 

Si potrebbe affermare che “Shin-on” abbia trovato la sua matrice creativa proprio in Italia: “l’Italia permette un tempo di maturazione della propria arte che in Giappone non è possibile. Il Giappone richiede novità e moda. L’Italia lascia fare e maturare le persone” ci rivela il Maestro. E, seppur negli anni ‘70, molti aspiranti artisti giapponesi si fossero trasferiti negli Stati Uniti o a Parigi, Shuhei Matsuyama scelse l’Italia. E ad oggi si rivela essere stata una scelta vincente.

Durante la nostra visita allo studio del Maestro Matsuyama, abbiamo, invece, voluto chiedere di parlarci di un tema nuovo, sviluppato negli ultimi anni, e che ha catturato la nostra attenzione durante la mostra alla iKonica Art Gallery di Milano.
Stiamo parlando di “Diario”. Il nome della serie è in italiano, ma la prima esposizione viene fatta a Tokyo dopo il periodo della pandemia di Covid-19.

Il Maestro Matsuyama ci rivela che “Diario” è una serie fortemente basata sulle emozioni, poiché nasce come un vero e proprio diario durante il periodo di quarantena del 2020, ma che continua ancora oggi.
Le opere di “Diario” sono nate in casa, e per questo ogni dipinto è realizzato su fogli di diverso materiale, che dovevano essere buttati, a cui il Maestro Shuhei Matsuyama decide di dare nuova vita. Fogli A4 per stampanti, fogli già stampati, vecchie copertine di quaderni; ma anche fogli creati dalla stamperia all’interno del quale si trova lo studio del Maestro, che non saranno mai utilizzati.
Ma attraverso la sua ricerca continua di luce, il Maestro Shuhei Matsuyama reinventa il supporto della creazione artistica, facendo diventare arte ciò che si credeva inutilizzabile.

      

A sinistra: dimostrazione in studio di come nasce un’opera della serie “Diario”. Da un semplice foglio, l’uso di acqua, inchiostro nero e una sottile linea di vernice bianca si creano spazio e luce;
a destra: “Diario” del 24/02/2024 (giorno 1350), che altro non è che lo schizzo che aveva creato in nostra presenza, che poi ha arricchito e inserito tra le opere della serie.

 

Il Maestro ci confida che, inizialmente, non pensava che avrebbe mai esposto il suo “Diario”. Ma quando si presentò l’occasione di raccontare al Giappone come avesse vissuto il Covid-19 in Italia, è stato a Tokyo l’inizio di una serie di esposizioni che ha fatto approdare “Diario” anche alla mostra che si è tenuta alla iKonica Art Gallery di Milano (esposto nella Sala 3).

© Alberto Moro

 

Se avete mai avuto l’opportunità di incontrare il Maestro Shuhei Matsuyama, vi sarete accorti che il suo saluto consueto è “Buona luce!”.
Durante la nostra visita al Maestro, gli abbiamo chiesto proprio del rapporto che ha con la luce e di questa sua continua ricerca.

Il Maestro ci spiega, innanzitutto, come l’elemento luce sia arrivato nella sua pittura: “In arte bisogna avere tecnica e la tecnica si applica attraverso la prospettiva. Da qui è nata l’idea di dipingere la direzione della luce, seguendo la prospettiva che avevo deciso per quell’opera”. Afferma anche che “La luce permette di aggiungere il concetto di tempo, che consente, poi, di creare movimento”.
Conclude affermando che la luce è dappertutto in natura ma poi, ridendo, si lascia scappare che “Buon giorno lo usano tutti, mentre Buona luce! è un augurio più vero”, che ci fa pensare istintivamente a qualcosa di positivo.

 

Per il Maestro Shuhei Matsuyama quello che conta di più è la comunicazione con l’“Altro”, non importa che stia creando un “micromondo” che racchiude in sé “il suono di tutte le cose”; o che stia raccontando la vita attraverso la pittura di pagine di Diario; o ancora che si stia concentrando nell’istante unico e sacro dello shodō

Per il Maestro Shuhei Matsuyama fare arte ed esporre le sue opere, significa comunicare. Perché è nel momento in cui la sua arte parla al pubblico che si crea quel flusso che altro non è che “il suono di tutte le cose”.

© Alberto Moro

 

Vi segnaliamo che è ancora possibile ammirare le opere di cui abbiamo parlato in questo articolo visitando la iKonica Art Gallery (Via Nicola Antonio Porpora, 16/A – Milano), che ha voluto rendere omaggio al Maestro Shuhei Matsuyama rendendo la Sala 3 della galleria “la sala di Shin-on”. Si tratta di una mostra continua delle opere di Shuhei Matsuyama, che però cambieranno periodicamente, per creare una sala che mantiene lo stesso spirito, con colori e luci diverse.

 

 

Testo di Danila Alfano, danilaalfano0@gmail.com

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HANAMI: QUANDO LA PRIMAVERA SI TINGE DI ROSA

 

Sono certa che qualsiasi appassionato di cultura e tradizioni giapponesi abbia almeno una volta sentito parlare di Hanami (花見, lett. “guardare i fiori”), l’atto di contemplare la fioritura dei ciliegi giapponesi, i cosiddetti sakura, nel periodo primaverile.
Si tratta di una ricorrenza davvero sentita in tutto il Giappone, un pretesto per celebrare la natura e la socialità: pic-nic al parco ed escursioni fuori porta con la famiglia, gli amici ed i colleghi sono le attività preferite dai giapponesi per godersi all’aria aperta lo spettacolo dei sakura in fiore.

Come il Momijigari in autunno (紅葉狩り, lett. “caccia alle foglie di acero rosso”), anche l’Hanami in primavera è un esempio del rapporto simbiotico che lega il popolo nipponico alla natura; infatti per lo Shintoismo (corrente filosofica autoctona del Giappone) ogni elemento naturale è un’entità vivente animata, che come tale non permane immutata nel tempo e che per questo assume valore in ogni suo istante. Ecco perché il calendario giapponese accompagna l’essere umano nel percorso di convivenza armoniosa con i ritmi della natura, invitandolo ad apprezzare le caratteristiche di ogni stagione nella loro fugacità.

L’Hanami è come una festa nazionale, tanto che, nel periodo di febbraio-marzo, l’Agenzia Metereologica Giapponese inizia ad aggiornare i cittadini con le previsioni sulla comparsa dei boccioli, indicando anche le presunte date di massima fioritura in base al clima di ogni regione e fornendo consigli sui luoghi migliori per ammirare i ciliegi.

Photo credits: http://metropolitanmagazine.it

 

UN’ESPERIENZA MOZZAFIATO

Ecco 3 spot disseminati lungo il Giappone, ideali per fare Hanami.

1- Goryokaku Park – Hakodate, isola di Hokkaidō
Quest’anno, nell’isola più a nord del Giappone si prevede l’inizio della fioritura il 22 marzo, per raggiungere il culmine verso il 29 dello stesso mese. Un luogo fantastico per godersi la primavera si trova nella città di Hakodate: il parco di Goryokaku, in antichità fortezza con fossato, vanta 1500 alberi di ciliegio e una particolare forma a stella che offre numerosi punti panoramici, tra cui una torre alta 107 metri dalla quale si può avere una visione d’insieme sulle chiome rosa dei sakura.

Photo credits: http://peopletour.it

 

2- Monte Yoshino – Prefettura di Nara, isola di Honshū
Nella prefettura di Nara, i sakura sbocceranno verso il 25 marzo e avranno il punto di massima fioritura i primi di aprile. Qui è possibile programmare un’escursione al Monte Yoshino, uno degli spot più famosi, suggestivi (ed affollati) per l’Hanami: i suoi versanti contano più di 30.000 esemplari di ciliegio giapponese, tanto da essere patrimonio dell’UNESCO, anche grazie alla sua importanza storico-religiosa. Il monte infatti è disseminato di templi e santuari, oltre a rappresentare il punto di partenza del pellegrinaggio sacro al Monte Omine.

Photo credits: http://peopletour.it

 

3- Castello di Kumamoto – Kumamoto, isola di Kyūshū
Siamo nel sud del Giappone, dove la fioritura avverrà nelle ultime settimane di marzo, secondo le stime degli esperti. Nella città di Kumamoto, su una collina, si erge maestosa la ricostruzione di uno dei più bei castelli feudali dell’intero Giappone, purtroppo definitivamente distrutto durante il terremoto del 14 aprile 2016. La struttura, situata nel centro città, in primavera sembra fluttuare su una soffice nuvola rosa pastello, un’esplosione di fiori di ciliegio che incorniciano il castello in uno scenario da cartolina.

Photo credits: http://peopletour.it

 

Testo di Martina Condello, martinacondello.cm@gmail.com

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PREFETTURA DI YAMAGATA E TERME DI GINZAN

 

Quando pensiamo al Giappone ci vengono subito in mente le 3 grandi metropoli di Tōkyō, Kyōto e Ōsaka, ovvero le mete giapponesi più visitate dai turisti, che spesso si lanciano alla scoperta delle zone turistiche scartando le aree “fuori mano”. Eppure vi assicuro che vale la pena di allungare un po’ il viaggio per spingersi nelle prefetture rurali e respirare l’atmosfera di un Giappone più autentico.

Durante le stagioni fredde, addentrandosi nell’entroterra della prefettura di Yamagata, nel nord dell’Honshū, si incontrano luoghi innevati dove il tempo sembra essersi fermato qualche secolo fa, tra vecchi ryōkan (locande in stile tradizionale) e Ōnsen, cioè le tipiche terme giapponesi.
Nello specifico, a qualche ora dalla città di Yamagata, a nord di Tōkyō, si può sostare in una località magica incasellata tra i boschi di sempreverdi, il Ginzan Ōnsen-kyō, il villaggio termale che sorge lungo le sponde del fiume Ginzan, sul sito di una vecchia miniera d’argento (infatti Ginzan significa “montagna d’argento”).

 

IL VILLAGGIO INCANTATO
Sembra di vivere tra le pagine di un romanzo dello scrittore Yukio Mishima mentre si cammina tra le stradine illuminate dai lampioni a gas, costeggiando edifici in legno di epoca Taishō (1912-1926) e chiedendosi spaesati quale macchina del tempo o quale arcano incantesimo ci abbia catapultato nel passato.
È così che ci si sente a Ginzan Ōnsen-kyō, il piccolo conglomerato di locande e strutture sorte in prossimità della sorgente termale di Ginzan, per ospitare chi arriva a scaldarsi nel tepore delle Ōnsen.

Ginzan Ōnsen è sicuramente turistica rispetto ad altre località della zona, ma offre un’esperienza fiabesca che difficilmente si trova altrove: dai ryōkan a più piani, ai ponticelli che scavalcano il fiume, al bagno pubblico Shirogane-yū, particolare per la sua estetica minimalista, dove i visitatori possono concedersi una pausa terapeutica.

Photo credits: http://thehiddenjapan.com

 

L’ŌNSEN GIAPPONESE
Finora ho usato il termine “terme”, pur sapendo che l’Ōnsen giapponese non ha propriamente le stesse regole e caratteristiche di un sito termale occidentale. Quindi è doveroso spiegare meglio cos’è un Ōnsen nella sua unicità di tradizione radicata nella cultura dei giapponesi.

Photo credits: http://watabi.it

Innanzitutto l’Ōnsen è qualsiasi stazione termale all’aperto o al coperto, pubblica o privata, artificiale o naturale presente sul suolo giapponese, spesso accompagnata da una residenza per gli ospiti, nella quale si dorme in yūkata sul fūton, ovvero sul tipico materasso che di giorno si arrotola negli armadi per salvare spazio e di notte di srotola a terra, e si mangia inginocchiati sul kotatsu, il tavolino basso che non poteva mancare nelle case giapponesi di una volta.
Generalmente le Ōnsen prevedono che ci si lavi per bene prima di entrare nelle vasche, usufruendo di secchi, doccini e sgabelli adibiti appositamente; una volta puliti si può entrare rigorosamente nudi nelle varie piscine, divise tra uomini e donne (regola non valida per i bambini, che sono ammessi in entrambe le sezioni senza distinzione di sesso).

 

ROBA DA YAKUZA
Se vi è venuta voglia di provare l’esperienza dell’Ōnsen, magari proprio al Ginzan Ōnsen-kyō, dovete tenere a mente un’accortezza riguardante i tatuaggi, così ampiamente diffusi in occidente quanto evitati dalla maggior parte dei giapponesi perché simbolo d’appartenenza alla Yakuza, la mafia giapponese. È vero che oggigiorno la situazione sta cambiando, ma molte stazioni termali ancora non accettano persone con tatuaggi (o le costringono a coprirli per la durata della permanenza in vasca) proprio per questo retaggio culturale. Con gli stranieri le restrizioni in tema sono meno stringenti, ma solo in caso di tatuaggi piccoli e poco visibili.

Photo credits: http://sempredirebanzai.it

 

 

Testo di Martina Condello, martinacondello.cm@gmail.com

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IL TEATRO NŌ: IL RITUALE DELLA SUGGESTIONE

 

I FONDATORI
Nel 1367, durante il periodo Muromachi (1336-1573), Ashikaga Yoshimitsu (足利 義満, 1358-1408) assunse il titolo di shōgun, ovvero di supremo capo militare e signore feudale, e decise di finanziare e promuovere le proposte artistiche di due attori e drammaturghi dell’epoca a suo avviso particolarmente interessanti, Kan’ami Kiyotsugu (観阿弥 清次, 1333-1384) e suo figlio Zeami Motokiyo (世阿弥 元清, 1363-1443). Questo fu il punto di partenza per quello che oggi conosciamo come Teatro Nō (能楽, Nōgaku), ovvero una delle forme del teatro classico giapponese più conosciuta e complessa.

Kan’ami e Zeami furono gli iniziatori di un processo di trasformazione durato decenni, che portò dal sarugaku (猿楽, lett. “musica di scimmie”), una forma di intrattenimento che combinava acrobazie circensi e mimica, ad una nuova forma di rappresentazione codificata, accompagnata da musica e danze, basata sull’artificio (difatti Nō si può tradurre con “artificio”) come espediente volto a creare suggestione e stupore nello spettatore.

Photo credits: http://nidodepalabras.blogspot.com

 

I TRATTATI DI ZEAMI
Zeami dedicò la propria vita al teatro, scrivendo e applicando nella pratica dell’insegnamento numerosi trattati sull’argomento, lasciati poi in eredità al genero Konparu Zenchiku (金春 禅竹, 1405-1468 circa), che cristallizzò il Nō attraverso una codificazione ancora più formale.

I punti chiave della filosofia designata da Zeami furono la poetica del fiore e l’estetica della grazia.
Il fiore è metafora dell’emozione suscitata nello spettatore, quindi del fascino e dell’abilità dell’attore; infatti si distingue tra “il fiore del momento” (jibun no hana), cioè la bellezza e la sinuosità di un corpo giovane che recita sul palco, e il “fiore autentico” (makoto no hana), la sapienza e la maestria che superano i limiti del tempo e dell’età. La buona riuscita della performance dipende dalla capacità dei teatranti di cambiare ed evolversi, di essere fuggevoli proprio come il fiore che cresce con delicatezza prima di spegnersi.

Yūgen, ovvero la grazia necessaria per provocare suggestioni profonde in chi guarda; l’attore deve esercitare l’armonia dei movimenti, la coordinazione tra danza, musica e recitazione in modo che la sua interpretazione risulti fine, elegante e potente. Chi si esibisce deve riuscire a mantenere l’imprescindibile tensione che lega l’interprete alla platea, per questo grande importanza è data all’esercizio e alla pratica costanti.

Photo credits: http://watabi.it

 

LE MASCHERE DEL TEATRO NŌ
Le opere inscenate nel Teatro Nō toccano temi limitati quali eventi storici, leggende e racconti con elementi soprannaturali, e i figuranti recitano la maggior parte delle loro apparizioni indossando particolari maschere che rappresentano dei tipi stereotipati, ovvero muniti di connotati utili al loro riconoscimento: personaggi femminili, presenze demoniache, spiriti dei morti… Le maschere sono parte integrante dell’attore, fatta eccezione per i ruoli da bambini e da personaggi maschili vivi.

L’uso della maschera richiede molta tecnica da parte del teatrante. Ogni maschera infatti è costruita in modo da dare l’impressione di cambiare espressione in base a giochi di luce e movimenti della testa di chi la porta; perciò diventa importante il controllo del corpo e dei muscoli facciali, per “rattristare” la maschera quando il personaggio è triste o “rallegrarla” quando è felice. La gamma delle emozioni che si possono simulare copre comunque una gamma più vasta: le maschere sono adattabili a qualsiasi intenzione il ruolo richieda.

Photo credits: http://viverezen.it

 

 

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AMORE AL CIOCCOLATO

 

San Valentino, la festa dell’amore per eccellenza, richiama subito alla mente le cene a lume di candela, i mazzi di rose rosse e le gite fuori porta con la propria dolce metà.
Il 14 febbraio in Occidente è la giornata perfetta da trascorrere insieme al partner all’insegna del romanticismo. Invece in Giappone le coppie festeggiano il 24 dicembre, la Vigilia di Natale, e San Valentino diventa quindi un’occasione diversa, dedicata a chi vuole dichiarare i propri sentimenti.
La tradizione nasce negli anni Cinquanta del Novecento, dalla grande trovata di marketing di una nota azienda dolciaria giapponese: la Mary’s Chocolate Company incentivò le donne ad esprimere i loro sentimenti il giorno di San Valentino, regalando cioccolato alla persona amata.

Photo credits: mary.co.jp

 

DIMMI CHE CIOCCOLATO MI REGALI E TI DIRÒ SE MI AMI

La società giapponese prevede un rigido rispetto delle gerarchie e, più in generale, la cortesia è una componente fondamentale nelle relazioni lavorative, scolastiche ed affettive. È per questo che a San Valentino non ci si limita a regalare cioccolato solo se si è innamorati, ma è prassi omaggiare anche i propri colleghi di lavoro, i compagni di scuola e gli amici più cari per dimostrare la stima o l’affetto che nutriamo nei loro confronti.
Vengono venduti vari tipi di cioccolato a San Valentino, in base all’intensità del sentimento che si vuole esprimere. I più famosi sono:

Honmei choko (本命チョコ), ovvero il cioccolato del preferito, il soggetto della dichiarazione d’amore. Può essere home made, a sottolineare cura e interesse, oppure essere il più costoso in commercio.
Giri Choko (義理チョコ), cioè il cioccolato del dovere, che va distribuito ai colleghi o ai compagni di classe per convenzione sociale.
Tomo Choko (友チョコ), il cioccolato che si regala agli amici più cari per esprimere affetto sincero.

Photo credits: http://angologiapponese.blogspot.com

 

IL SENTIMENTO È RECIPROCO

Il 14 marzo, esattamente un mese dopo San Valentino, i coraggiosi che si sono dichiarati potranno essere ricompensati: si tratta del White Day, il giorno in cui chi ha ricevuto il cioccolato regala a sua volta qualcosa al mittente, in segno d’amore reciproco. Al contrario, se non si ottiene nulla in cambio, vorrà dire che purtroppo si è stati rifiutati.
Anche il White Day venne istituito dalle aziende dolciarie che negli anni Settanta del Novecento crearono questo pretesto per vendere di più; infatti il regalo del White Day per eccellenza è il cioccolato bianco, ma anche altri dolci (ad esempio marshmallow e biscotti), peluches e gioielli: tutto rigorosamente bianco, come suggerisce il nome della ricorrenza.

Photo credits: http://akibagamers.it

 

 

Testo di Martina Condello, martinacondello.cm@gmail.com

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Omotenashi

In giapponese c’è un’espressione da tenere a mente quando si interagisce con la popolazione locale: “Omotenashi”.

Possiamo tradurre “Omotenashi” come “Ospitalità”, ma sarebbe riduttivo. Significa infondere tutte le proprie energie nell’accogliere l’ospite nel miglior modo possibile, prestando attenzione anche ai più piccoli dettagli. “Omotenashi” è il commesso del supermercato che 8 anni fa mi aiutò a trovare la strada che stavo cercando ad Akihabara. Ero arrivata da qualche settimana, quindi le mie conoscenze linguistiche erano ancora scarse, grezze, da modellare e affinare, come un blocco di creta sul quale sono stati tracciati solo i primi tratti di una forma.

Non riuscivo a trovare un negozio che stavo cercando, così entrai in un konbini (un supermercato aperto 24h, ne esistono di diversi tipi in tutto il Giappone). Pioveva forte e lo scroscio d’acqua rendeva le strade di quel quartiere simili alla scenografia di Blade Runner. Luci, negozi, insegne, ristoranti, macchinette gatcha-gatcha: tutto era confuso e ordinato allo stesso tempo. Entrai dentro al negozio e provai a pronunciare una richiesta di indicazioni in un giapponese stentato, cercando di rispettare le formule di cortesia che mi ricordavo.

Avevo una cartina con me e provai a mostrarla al commesso, che a sua volta provò a farmi capire la strada: prima in giapponese, poi in un inglese non proprio chiaro. Purtroppo, le strade in Giappone non hanno la stessa codifica occidentale: non sono codificate in base a un nome come in Europa. Ogni quartiere (Ueno, Akihabara, etc). Ogni quartiere in un indirizzo è preceduto da tre cifre:

4-8-12 Ueno, Taito-ku, Tokyo

Il 4 è il chome, cioé indica la zona di Tokyo, l’8 indica la suddivisione del chome e 12 è il civico. I civici però non sempre sono in ordine lungo la via! Inoltre, non esiste il piano terra: il nostro piano terra è il 1° piano. Così, il negozio che stavo cercando era su qualche piano di un grattacielo ad Akihabara. Alla fine, il commesso uscì da dietro il balcone, mi accompagnò all’uscita, prese l’ombrello e mi guidò sotto la pioggia fino a destinazione.

Photo credits: Zucchelli Valentina

Otto anni dopo durante la mia vacanza a Tokyo, ho vissuto altri esempi di Omotenashi. Il primo fra tutti che mi sovviene è quello di una coppia di anziani volontari che io e la mia Dolce metà abbiamo incontrato una mattina fuori dalla stazione di Ueno, vicino al Panda Bridge (così chiamato perché nel parco adiacente si trova uno zoo che ospita alcuni esemplari di questa specie). Stavamo cercando la strada per raggiungere Yanaka, uno dei quartieri antichi di Tokyo. Ho alzato per un attimo lo sguardo dalla cartina e ho visto avvicinarsi una coppia di anziani signori, un uomo e una donna, che indossavano una pettorina, azzurra come il cielo, ed in mano avevano tante cartelline, volantini e mappe. Sorprendendoci, ci rivolsero la parola in inglese (non è una lingua così diffusa in questo paese) e si offrirono di aiutarci a trovare la strada. Non solo, ci accompagnarono chiacchierando amabilmente attraverso il parco verso il vialetto giusto da percorrere e ci regalarono alcune cartine!

Anche questo per me è Omotenashi: comprendere come ciò che per noi può sembrare naturale per altri risulta difficile così lo semplifichiamo facendo uno sforzo in più affinché l’Altro stia meglio.

Omotenashi è non limitarsi a servire i clienti al ristorante ma scambiare due parole con i clienti, dare suggerimenti spontanei sulle attrazioni turistiche della zona, come ci è successo con una cameriera in un ristorante di fronte alla stazione di Tokyo. Nello stesso edificio poco prima una commessa di un negozio ci aveva aiutati a trovare quel ristorante, spiegandoci le indicazioni con voce tenera e gentile per mostrare rispetto nei nostri confronti, in quanto potenziali clienti. Omotenashi è il cuoco che dall’altra parte del bancone di un locale a Kyoto ha cercato una lavanderia a gettoni più vicina al nostro albergo, perché era dispiaciuto che avessimo dovuto fare tanta strada (20 minuti a piedi) per raggiungere quella vicina al suo ristorante.

La prossima volta che vi chiederanno indicazioni o vedrete qualcuno cercare la strada su una cartina, ricordatevi di Omotenashi.

Photo credits: Zucchelli Valentina

 

 

 

Testo di Valentina Zucchelli, valezu92@gmail.com

https://www.giapponeinitalia.org/wp-content/uploads/2023/05/2023-Evento_CampsiragoResidenza.pdf

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GIAPPONE AL CINEMA

Lo scorso gennaio sono usciti nelle sale dei cinema italiani due film giapponesi che vale sicuramente la pena di recuperare: il Ragazzo e l’airone (君たちはどう生きるか, Kimi-tachi wa dō ikiru ka, lett. “E voi come vivrete?”) di Hayao Miyazaki e Perfect Days di Wim Wenders.

Il primo è il testamento autobiografico del regista di Studio Ghibli, famoso per aver prodotto diversi capisaldi dell’animazione giapponese Per citarne alcuni: Nausicaä della Valle del vento (風の谷のナウシカ, Kaze no tani no Naushika. 1984), Il castello errante di Howl (ハウルの動く城, Hauru no ugoku shiro. 2004) e Si alza il vento (風立ちぬ, Kaze tachinu. 2013).

Il secondo è una profonda riflessione sulla vita e sullo scorrere del tempo, la pellicola di ritorno del regista de Il cielo sopra Berlino (Der Himmel über Berlin. 1987).

 

IL RAGAZZO E L’AIRONE: E VOI COME VIVRETE?

Photo credits: mymovies.it

1944. Mahito Maki vive a Tōkyō col padre, imprenditore nel settore dell’aeronautica militare, mentre la madre è costretta in ospedale. Quando la donna muore per un incendio divampato nella struttura dove è ricoverata, il figlio si trasferisce con il padre e la sua nuova moglie in una vecchia tenuta di campagna. È qui che il ragazzo, guidato da un airone cenerino parlante, scopre una torre abitata da personaggi bislacchi.
Mahito intraprende così un percorso di formazione attraverso cui supera il dolore per la perdita della madre.
Il luogo magico nascosto nella torre altro non è che il subconscio del protagonista stesso, in una rappresentazione del viaggio fisico come pretesto per compiere un viaggio metafisico, raggiungere il cambiamento interiore e risolvere i propri traumi, proprio come succede al Dante della Divina Commedia; infatti la frase latina che sovrasta l’ingresso della torre di Miyazaki è la stessa che troviamo sulla porta dell’Inferno dantesco: “Fecemi la divina potestate”, cioè “Sono stato creato dal potere divino”.
Il Dio creatore del mondo incantato è il Prozio, un uomo ormai prossimo alla morte che cerca invano in Mahito il suo successore, qualcuno in grado di mantenere inalterato il precario equilibrio della sua creazione, sacrificandosi per essa.
Il ragazzo e L’airone è una produzione autobiografica che lascia vasto spazio all’immaginazione dello spettatore: il piccolo Miyazaki e Mahito affrontano uguali esperienze di vita ed entrambi si rifugiano nelle fantasie strampalate ed infantili dei bambini, le stesse che popolano i film del regista. Il mondo in cui si perde Mahito nel film può facilmente essere la metafora di Studio Ghibli, co-creato da Isao Takahata e Miyazaki nel 1985. Tant’è che la figura del Prozio si può assimilare sia a Miyazaki, ormai uomo anziano che riflette sul futuro incerto della sua casa di produzione, sia ad Isao, che ha affidato al suo socio la gestione di Studio Ghibli. In questo secondo caso, Hayao potrebbe essere, nel film, il Re dei Parrocchetti che prima governa e poi distrugge il regno.

 

PERFECT DAYS

Photo credits: mymovies.it

Hirayama si alza all’alba, bagna le sue amate piante, prende una lattina di caffè al distributore automatico e, accompagnato dalla musica anni ‘70 delle sue vecchie cassette, guida verso il lavoro.
Finito il turno si lava in un’ōnsen pubblica, cena sempre nella stessa bettola della stazione e prima di addormentarsi legge.
Nel suo giorno libero frequenta un piccolo izakaya di fronte alla lavanderia; poi porta a sviluppare il rullino della sua macchinetta analogica e seleziona le foto da tenere tra quelle che ha scattato in settimana. Tutte foto dello stesso grande albero che gli tiene compagnia ogni giorno durante la pausa pranzo.
Nonostante qualche sporadico avvenimento arrivi di tanto in tanto a turbare la quiete di Hirayama, le sue giornate da addetto alle pulizie dei bagni pubblici di Tōkyō trascorrono tranquillamente.
Perfect Days è la quotidianità del protagonista raccontata giorno dopo giorno, semplicemente. Tutto qui, si può pensare? Sì, tutto qui. Tutto ciò di cui c’è bisogno per essere sereni è qui, nell’atto rivoluzionario di vivere lo scorrere del tempo senza fretta, in una società in cui ogni instante deve invece essere un’esperienza entusiasmante da poter raccontare.
Wenders ci ricorda che la felicità è bagnare ogni mattina i germogli per veder crescere le piantine, è mettere cura e dedizione in ciò che si fa, anche se si tratta di pulire dei gabinetti che dopo poco verranno sporcati di nuovo, è scattare una foto ai raggi del sole che ondeggiano tra le fronde degli alberi… Hirayama riesce ad apprezzare la ripetitività della vita assaporando le gioie nascoste nei piccoli avvenimenti, senza pretese e senza affanno, in pace con sé stesso e con ciò che lo circonda, in piena filosofia zen.
Il prezzo da pagare per questa grande consapevolezza è però la solitudine.
Il protagonista vive da solo, lontano dalla vita agiata che conduce la famiglia d’origine. Non parla molto e non riesce ad instaurare rapporti duraturi con nessuno, nonostante si dimostri sempre buono e gentile con chi richiede il suo aiuto. D’altronde la natura delle relazioni umane è effimera: un giorno incontri qualcuno che condivide il suo percorso con te per un po’ e poi ognuno riparte per la sua strada, nulla rimane uguale per sempre.
Il tempo scorre e cambia inevitabilmente le cose. L’importante è sapere che “adesso è adesso, un’altra volta è un’altra volta”.

 

 

Testo di Martina Condello, martinacondello.cm@gmail.com

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kokoro 心

 

La prima volta che ho toccato il suolo giapponese fu il 16/06/2015 alle 13 circa. Come dimenticarlo?

Mi ero laureata a luglio dell’anno precedente in Lingue e Letterature Straniere e subito dopo avevo frequentato un corso singolo di Lingua Giapponese presso l’università Statale di Milano. Studiare giapponese era sempre stato il mio sogno, ma fino a quel momento non ero riuscita a realizzarlo. Così, dopo la laurea, mi dissi “Ora o mai più”, trovai un lavoro come insegnante di inglese e, nel frattempo, mi avvicinavo a un mondo che mi avrebbe cambiato la vita.

A febbraio 2015 mi capitò un’occasione più unica che rara: una scuola di Lingue internazionale annunciò una campagna di promozione dei propri corsi in occasione del 50° anniversario della propria fondazione. Parlandone con i miei genitori, ai quali sarò sempre grata per avermi dato la possibilità di vivere quest’esperienza, decisi di partire per un soggiorno studio a Tokyo, da giugno a novembre 2015.

Photo credits: Zucchelli Valentina

 

Fino a quel momento le occasioni di approfondimento della cultura giapponese erano state frammentarie e casuali, perché all’epoca era ancora considerato un argomento di nicchia, bizzarro. In Italia era possibile trovare i manga in fumetteria e alla televisione trasmettevano gli anime più famosi, ma i coetanei che frequentavo non ne parlavano. Cominciai il mio viaggio grazi ai libri, ai film, ai documentari che trovavo in biblioteca. Ero curiosa e affascinata da tutte le differenze che scoprivo, e più ne scoprivo più diventavo affamata di conoscenza. Non era un periodo facile per me a livello personale e ormai posso voltarmi indietro e affermare che il Giappone, in parte, mi ha salvata.

 

Photo credits: Zucchelli Valentina

 

Quando inizio il racconto della mia esperienza di soggiorno studio, la prima cosa che dico sempre è che fu come attraversare uno specchio, come quando Alice cade nella tana del coniglio bianco e da lì raggiunge il Paese delle Meraviglie. Immergermi nella vita quotidiana locale, i cui usi e costumi erano così tanto diversi da quelli a cui ero abituata, mi fece mettere in discussione tutti gli assunti sui quali avevo basato la mia vita fino a quel momento: dai rumori per strada, a come dosare i silenzi e pesare le risposte, dalla gentilezza mai data per scontata alla cura nei gesti. Avendo vissuto tutto questo a 23 anni, so di essere diventata la donna che sono oggi grazie a quegli insegnamenti che conservo nel kokoro (心), cioè nel cuore.

Dopo 8 anni, sono tornata in Giappone lo scorso ottobre con la mia Dolce Metà, che invece non era mai stato prima in questo paese ma è appassionato della sua cultura tanto quanto me. Ha dimostrato così tanta gioia, curiosità e tenerezza da farmi scoppiare il cuore e rivivere quanto avevo provato io la prima volta.

Ho riscoperto questo paese dopo 8 anni, con gli occhi da trentenne e attraverso i suoi, e ho capito che esiste, secondo me, un Giappone diverso per ognuno di noi. È esistito il Giappone di mia madre, che mi insegnò a creare gli Origami quando ero bambina. È esistito il Giappone di mio papà, che per il mio diciottesimo compleanno mi regalò una statuina in kimono che conservo ancora oggi, insieme al dizionario dei Kanji. Esiste il Giappone della cerimonia del tè, con le sue regole e i suoi riti sacri. Esiste il Giappone di Akihabara, per gli appassionati di anime, manga e videogiochi.

Esiste il Giappone dei santuari shintoisti e buddhisti, oasi di silenzio e pace in armonia con la natura, così insoliti per noi occidentali, abituati al rumore e alla confusione. Consiste tutto nel tutelare e proteggere l’armonia con chi ci sta intorno. Ecco allora che rispettando il silenzio rispettiamo l’Altro, mettendo il nostro piano i nostri impulsi, desideri, necessità. Il Giappone che ho vissuto a 23 anni era quello di una ragazza che imparava a stare da sola dopo aver cercato la compagnia per tanto tempo. E’ stato una scoperta, veloce, intensa, frastornante, piena di ricordi da quant’ero vorace di provare tutto, assaporare tutto, vedere tutto, e la realizzazione di un sogno. Il Giappone che ho vissuto a 31 è stato una lezione: imparare il silenzio, accettare i limiti, perdere la strada, cercare la quiete e calmare il cuore. Non c’è niente come tornare negli stessi posti dopo tanto tempo per vedere quanto si è cambiati. Vorrei che i miei lettori potessero scoprire il proprio Giappone e magari avrò io stessa l’occasione di scoprirne di nuovi.

Venite con me?

 

 

Testo di Valentina Zucchelli, valezu92@gmail.com

https://www.giapponeinitalia.org/wp-content/uploads/2023/05/2023-Evento_CampsiragoResidenza.pdf

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3 cose che non sapevi sul San Marino Jinja - Shinto in Italia

 

3 cose che non sapevi sul San Marino Jinja – Shinto in Italia

Una delle cose più attraenti del Giappone e dei suoi abitanti è la perenne e voluta capacità di
rimanere eterei e difficilmente codificabili. L’aspetto religioso è uno di questi.

I giapponesi hanno un rapporto abbastanza complesso con la definizione di cosa sia religione e
cosa no. Tanto è vero che credenza popolare vuole che, come dice un detto, i giapponesi
nascano shintoisti per derivazione familiare, si sposino cristiani per via della bellezza del rito, e
muoiano buddhisti per reincarnarsi.

Ma uno degli aspetti più toccanti ed emozionanti di chiunque vada in Giappone è l’esperienza al
santuario, specie in occasione di eventi specifici dove migliaia di persone confluiscono per una
piccola offerta e una preghiera.

E se ti dicessi che per ripetere questa esperienza non c’è bisogno di andare in Giappone, ma puoi
assaporarne il gusto rimanendo in nel nostro stivale?

Per farlo non servirà una porta che collega a un altro mondo come negli anime, ma ti basterà
seguirci al San Marino Jinja

Che cos’è il San Marino Jinja

Il San Marino Jinja (サンマリノ神社) è un santuario shintoista chiamato così proprio perché
situato a San Marino. Nello specifico, lo si può trovare nella frazione di Lesignano, tra le colline del
titano, una zona ricchissima di verde presso l’agriturismo Podere Lesignano di Serravalle.

 

Photo credits: http://sanmarinojinja.com

 

Il santuario è nato per volere dell’associazione Japan San Marino Friendship Society, il cui
presidente è il professor Hideaki Ase e ha visto la sua inaugurazione nel 2014, dove 150 persone
hanno partecipato alla kermesse, tra cui Yoko Kishi, madre dello scomparso e allora primo
ministro del Giappone, Abe Shinzō.

Nella religione shintoista, il santuario ha una importanza fondamentale: è il luogo che custodisce
l’anima di un kami, un’anima eterea nonché divinità della religione nipponica.

È quindi il luogo in cui ci si reca per mostrare riverenza ad uno spirito, consci di ciò che
rappresenta quel determinato kami. Non esiste un rapporto 1:1 spirito-monumento. Infatti, oggi, in
Giappone, si contano circa 88.000 santuari shintoisti.

Il San Marino Jinja è dedicato ad Amaterasu (天照), la meravigliosa dea che splende nel cielo. Il
sole. Una figura così importante per il popolo nipponico e rappresentata un po’ ovunque, dal
nome della nazione “Nihon” alla bandiera nazionale. Si crede che la famiglia imperiale giapponese
derivi dalla dea Amaterasu, il che ci fa capire l’importanza di questo luogo.

Il San Marino Jinja è l’unico santuario shintoista in Europa

A testimoniare che si tratti di un vero edificio shinto ci sono i torii, simboli del Giappone e della
cultura shintoista, che crede fermamente che queste porte siano un varco sovrannaturale, che
separa il mondo terreno da quello in cui abitano gli spiriti.

In ogni caso il santuario sammarinese è una vera rarità europea. Dal 2019 infatti, il santuario è
stato riconosciuto come dalla Jinja Honcho, l’associazione dei santuari shintoisti. Con questo
passaggio, si può dire che il San Marino Jinja sia ufficialmente l’unico santuario in cui celebrare un
kami in Europa. Ma non è un unicum nel mondo.

Ad ergere queste strutture nel mondo sono stati giapponesi emigrati o espiantati in vari punti del
mondo. Sono una rarità, ma ce ne sono. Possiamo trovare altri santuari fuori dai confini nipponici
in Taiwan, nelle isole delle Marianne Settentrionali e a Palau. Infine, ci sono degli shinto shrine
anche alle Hawaii, meta prediletta dalla popolazione nipponica, e del Nambei Jingu di San Paolo
in Brasile, sede della più grande comunità nipponica al di fuori del paese del sol levante.

Il San Marino Jinja è stato eretto in onore del terremoto del 2011

Se abbiamo parlato di cose interessanti e curiose, non possiamo esentarci dall’aspetto
tristemente storico per cui è stato eretto questo luogo. Infatti, il San Marino Jinja è stato eretto
in memoria delle vittime di quanto accaduto a seguito degli eventi dell’11 Marzo 2011.

Il “Gran Terremoto del Tohoku” è stato l’evento sismico più nefasto della storia di un paese già
morfologicamente prone ai fenomeni sismici. Si tratta infatti del terremoto più forte mai registrato
in Giappone e del sesto terremoto più potente al mondo, con una magnitudine di 9.1 registrata
dai sismografi. Questo fu causa scatenante per un maremoto, uno tsunami. Le negligenza umana
portò alla reazione di alcuni reattori nucleari della centrale TEPCO di Fukushima, la Daichi Plant.

Il santuario è quindi stato fondato per ricordare le 29.000 vite umane vittime di questi tragici
eventi, nonché le centinaia di migliaia di animali coinvolte nella catastrofe.

Il San Marino Jinja deriva dal Gran Santuario di Ise

Nonostante il passaggio che precede l’arrivo al tempio, con i toro e il torii abbiano una portata
abbastanza importante, il tempio in sè non è grandissimo. Anzi, si tratta di uno spazio aperto con
un piccolo monumento.

Ma per i giapponesi, qualità batte quantità 10-0 a ogni partita.

Il cipresso utilizzato per il San Marino Jinja deriva dall’Ise Jingu (伊勢神宮), che prende il
nome dall’omonima città, Ise, situata nella prefettura di Mie, in un passaggio importantissimo per
il Tokaido. Per capire l’importanza di questo legno e della sua provenienza, si pensi che l’Ise
Jingu è la casa dello Yata no Kagami (八咫鏡), una delle tre regalie del Giappone, assieme alla
spada Kusanagi e al gioiello Yakasani. Lo specchio Yata è il simbolo della saggazza.

Come visitare il San Marino Jinja

Non ci sono limiti di nessun genere per visitare il San Marino Jinja. Il monumento è visitabile 24/7
e aperto a tutti, senza nessuna discriminazione religiosa o culturale di sorta. Ci si può avvicinare al
temizuya, l’altare, battere le mani due volte e inchinarsi.

Anche il sito del santuario esorta alla libertà religiosa, affermando che lo shinto non entra mai in
contrasto con le altre religioni, in quanto religione non convenzionale e per questo aperto a tutte le
manifestazioni religiose.

È possibile ritrovare il jinja anche su Google Maps cercando il tempio per nome o inserendo
l’indirizzo Via dei Dativi 75 a Serravalle, Repubblica di San Marino.

Quanto costa visitare il San Marino Jinja

La visita al jinja, nonostante sia sito in un agriturismo, è assolutamente gratuita.

 

Testo di Marco Di Martino, dimartino.marco22@gmail.com

https://www.giapponeinitalia.org/wp-content/uploads/2023/05/2023-Evento_CampsiragoResidenza.pdf

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