TRA KAPPA, ROKUROKUBI E IKIRYŌ
Photo credits: hyakumonogatari.com Yōkai. È un termine generico che indica qualsiasi mostro, spettro o creatura magica protagonista di racconti e leggende tradizionali giapponesi. Solitamente si tratta di animali antropomorfi o di esseri mutaforma, oppure ancora di strani individui in grado di padroneggiare poteri soprannaturali e arrecare danni agli esseri umani. Nella maggior parte delle narrazioni, gli Yōkai sono entità malvagie e pericolose per gli uomini, che le temono e cercano di starne alla larga, pena incontri spiacevoli, maledizioni o addirittura morte. Esistono innumerevoli storie e leggende popolate dagli Yōkai, molto spesso raccontate ai bambini per spaventarli, intrattenerli o divertirli. Si parla ad esempio di Kappa, rane umanoidi che mangiano i più piccoli, di Rokurokubi, mutaforma che possono allungare a dismisura il proprio collo, e di Ikiryō, spiriti infestanti che perseguitano i vivi. Famose sono anche le Kitsune, entità ingannevoli che possono assumere forma di donna e di volpe, e la Yuki-Onna, una ragazza bellissima che strega gli uomini di passaggio sui monti innevati. Offritegli un cetriolo e vi lascerà andare. è il Kappa, uno Yōkai piccolo quanto un bimbo, ma verde e squamoso come una rana. Viene raffigurato con guscio da tartaruga e becco d’uccello, sempre vicino ad un corso d’acqua perché quello è il suo habitat naturale: nella tradizione si apposta a riva del fiume e aspetta che arrivi qualche bambino da mangiare. Per capire a fondo questa rappresentazione va saputo che in epoca passata, nei villaggi giapponese era uso abbandonare i bambini nati morti alla corrente dei fiumi e lasciarli al loro destino, magari nelle grinfie di un Kappa affamato. Questa creatura del folklore però è temuta soprattutto perché rapisce bambini e animali dai villaggi, per poi annegarli e divorarli. Allora cosa fare per rendere innocuo un Kappa? Basta regalargli un cetriolo, di cui va matto, o svuotare la depressione piena d’acqua che ha sulla testa, dalla quale trae energia vitale. Photo credits: tradurreilgiappone.com Gli umani sono costantemente animati da sofferenza, odio, rammarico, invidia, gelosia, e mossi da questi sentimenti negativi commettono peccati o gravi atrocità che nella narrazione tradizionale giapponese vengono puniti in un modo singolare. Attraverso una maledizione. È quello che succede ai Rokurokubi, normali uomini e donne di giorno, spiriti in grado di allungare il collo all’infinito di notte; la testa “si stacca” dal corpo per vagare tormentata, sfogare così i suoi malesseri interiori, terrorizzando chi se la ritrova davanti al chiaro di luna o attaccando piccole prede. I Rokurokubi non sono consci della maledizione con cui convivono, infatti si considerano esseri umani a tutti gli effetti. Peccato che a volte siano riconoscibili agli occhi degli altri grazie ad un minuscolo particolare: un livido rosso alla base del collo. Photo credits: yokai.com Anche il folklore popolare occidentale è popolato dai fantasmi. Basti pensare ai castelli infestati o alle case abbandonate, ambientazioni perfette per storie e film sugli spettri. Mentre i fantasmi occidentali sono le anime dei morti che non riescono a lasciare questo mondo perché hanno delle questioni in sospeso da risolvere, in Giappone gli Ikiryō sono le anime che escono dal corpo ancora vivo del proprietario per perseguitare le vittime della sua collera e del suo odio; veri e propri fantasmi viventi generati da un sentimento così cupo e radicato da non riuscire a rimanere chiuso in corpo. Photo credits: yokai.com Nel Giappone antico le donne, soprattutto quelle bellissime e misteriose, venivano associate alla malizia e all’inganno. Erano fonte di problemi per gli uomini che rimanevano ammaliati dalla loro bellezza sovraumana e perdevano la testa. Nel folklore nipponico infatti le figure ingannevoli sono rappresentate da donne incantevoli e incomprensibili, che appaiono all’improvviso sul cammino dei viaggiatori per prendersi gioco di loro. Tra le più famose abbiamo la Kitsune, in giapponese volpe, uno Yōkai mutaforma che si presenta come animale, ma può trasformarsi in donna e anche rendersi invisibile (la sua presenza è tradita solo dagli specchi d’acqua, dove si riflette indipendentemente dalla forma che assume). Photo credits: ramen-nation.com La Yuki-Onna, o Donna delle Nevi, è invece uno spettro pallido, vestito di bianco, con capelli neri e occhi penetranti che terrorizzano i viandanti durante le tempeste di neve nei boschi; ha il potere di confondere gli uomini fino a condurli alla morte. Photo credits: bakemono.lib.byu.edu Testo di Martina Condello, martinacondello.cm@gmail.com
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I SENZA TESTA
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MOMIJIGARI: Autunno fa rima con foliage.
photo credits: inspiringvacations.com Autunno fa rima con foliage. Le foglie degli alberi si tingono di colori vivaci, regalando al mondo paesaggi incantevoli, intrisi di una magica atmosfera autunnale; i viali, i parchi e i marciapiedi si ricoprono di foglie cadute dai rami, dipingendo le strade di giallo, arancione, rosso e marrone; lo scalpiccio divertito dei più piccoli si mescola alla meraviglia e gli adulti ne approfittano per rilassarsi ammirando i colori dell’autunno. In Giappone il rapporto tra esseri umani e natura è profondamento simbiotico, legato alla filosofia Shintoista, ovvero al culto autoctono del Giappone. Per questo non stupisce che l’atto di osservare le foglie d’autunno e ricercare i paesaggi più suggestivi abbia un nome: Momijigari. Momijigari si scrive con i kanji di “foglie rosse” e “caccia”, quindi letteralmente è la caccia alle foglie rosse, un rituale che consiste nel visitare insieme ad amici e parenti i siti più caratteristici quando le foglie cambiano colore. Proprio come in primavera per l’Hanami (“guardare i fiori di ciliegio”), anche per il Momijigari esistono previsioni metereologiche ad hoc per sapere in tempo reale dove vedere il foliage migliore. La storia del Momijigari ha origini antiche ed aristocratiche. Risale infatti all’Epoca Heian (794-1185), il periodo di massimo splendore della corte imperiale giapponese, quando i nobili si dilettavano leggendo, componendo poesie o discorrendo di temi filosofici circondati ed ispirati dalla natura autunnale. Si tratta di un passatempo così radicato nella cultura nipponica da essere descritto addirittura in opere del calibro di Man’yōshū e di Genji Monogatari, rispettivamente, la prima raccolta di poesie giapponesi giunta a noi e il più famoso romanzo di epoca Heian. CONSIGLI PAESAGGISTICI E… CULINARI Kyōtō e Nikkō possiedono sentieri e scenari rinomati per godersi il Momijigari. A Kyōtō, la Camminata dei Filosofi parte dal tempio del Ginkakuji, il Padiglione d’Argento, per arrivare al Santuario Wakaoji. Tra ottobre e novembre passeggiare lungo questo sentiero significa perdersi tra le chiome di aceri rossi che, nei giardini, imitano i colori accesi degli edifici in legno della zona. Nikkō invece è meta autunnale per chi vuole scappare dalla frenesia della metropoli e rifugiarsi tra i templi incastonati nei boschi di aceri rossi della regione. A proposito di acero rosso, albero simbolo del Giappone… avete mai sentito parlare della tenpura di foglie d’acero? Una speciale frittura giapponese ottenuta friggendo le foglie con olio di sesamo zuccherato, dopo averle lasciate per un anno immerse in acqua e sale. Da provare assolutamente! photo credits: ilgiornaledelcibo.it Testo di Martina Condello, martinacondello.cm@gmail.com
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IL PASSATEMPO DEI LETTERATI
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ODAIBA, NEW YORK A TOKYO
photo credits: livejapan.com Uno scorcio da cartolina: il ponte di Brooklyn sullo sfondo, i grattacieli Newyorkesi dipinti dal rosso del tramonto, la Statua della Libertà che si erge fiera sull’acqua… E invece siamo a Odaiba, Tokyo! Il ponte si chiama Rainbow Bridge, i grattacieli sono quelli della capitale giapponese e la Statua della Libertà è una riproduzione in scala ridotta dell’originale. Nel 1988 la Francia, per celebrare l’intensificarsi dei commerci con il Giappone, donò temporaneamente ai giapponesi una replica della statua; La popolarità del regalo fu tale che quando venne rimosso, al suo posto se ne costruì una copia permanente. Odaiba è uno dei quartieri più conosciuti della capitale nipponica per divertimento, shopping e intrattenimento, costruito su un’isola artificiale della Baia di Tokyo e raggiungibile attraverso il suggestivo Ponte dell’Arcobaleno o a bordo di una rilassante crociera. Il quartiere nacque sotto lo shogunato Tokugawa come parte di un progetto più ampio mai concluso, ovvero la costruzione di 11 isole artificiali a protezione della baia, ma solo negli anni Novanta del Novecento iniziò a prendere la sua forma attuale. Dopo la pandemia molte attrazioni e centri commerciali presenti sull’isoletta hanno chiuso i battenti, ma Odaiba ha ancora molto da offrire a chi vuole passare una giornata di svago. E allora sarebbe magnifico se chiudendo gli occhi ci catapultassimo con la fantasia tra le strade di Odaiba, per trascorrere un pomeriggio all’insegna del divertimento. Il nostro viaggio virtuale inizia ora. photo credits: odaiba-decks.com Sta calando la sera: seduti sulla piccola spiaggia erbosa del Lungomare di Odaiba, ammiriamo lo skyline del quartiere di Minato e lo spettacolo mozzafiato del Rainbow Bridge illuminato, che si specchia nell’acqua del mare, mentre ascoltiamo le onde infrangersi sul bagnasciuga. Non c’è sensazione più rasserenante. Ci stiamo riposando dopo aver trascorso il pomeriggio a divertirci tra i negozi del Decks Tokyo Beach, il grande centro commerciale di fronte alla spiaggia, all’interno del quale si possono visitare LegoLand, Il Museo delle Cere di Madame Tussaud’s e il parco divertimenti Joypolis. photo credits: japancitytour.com Di certo non passa inosservato, con i suoi quasi 20 metri di altezza. Camminando fino al centro commerciale Diver City Tokyo, ci troviamo davanti all’imponente statua di Gundam, il famoso robot della fortunata serie d’animazione tratta dall’omonimo manga. Gli appassionati non possono perdersi le trasformazioni di questa statua semovente, accompagnate da effetti audio-visivi, che si susseguono a intervalli regolari durante tutto l’arco della giornata. photo credits: italiajapan.net Durante la nostra veloce visita ad Odaiba, ci siamo imbattuti anche in un edificio futuristico, particolare nella sua struttura, con una grande sfera di metallo al centro. Che cos’è? Non è altro che la sede della Fuji TV, un’importante emittente televisiva privata giapponese che ha mandato in onda numerose produzioni note anche in Occidente, come il pionieristico Astro Boy e l’anime One Piece. Andiamo ad esplorare l’interno e saliamo fino al venticinquesimo piano, così potremo godere di un bellissimo panorama dal punto d’osservazione situato in quella grande sfera di metallo che ci incuriosiva dall’esterno. Qui si conclude il nostro breve viaggio con la fantasia. Ora non resta che imprimersi nella mente questi luoghi lontani in attesa, chissà, di volare un giorno a Tokyo, e perdersi di persona tra le tante bellezze di Odaiba. Testo di Martina Condello, martinacondello.cm@gmail.com
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ODAIBA SEASIDE PARK
GUNDAM GIGANTE
FUJI TV BUILDING
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JIDŌHANBAIKI, i distributori automatici per ogni occasione
photo credits: arabnews.jp Le vending machine sono così popolari e famose in Giappone che persino il protagonista dell’anime “Jidōhanbaiki ni umarekawatta boku wa meikyo wo hokou” ‘Sono rinato come distributore automatico, e ora vago per labirinti’, è rinato come un distributore automatico in un nuovo mondo. Ma ora tornando al tema principale, come mai le jidōhanbaiki, vending machine in inglese e distributore automatico in italiano, sono così popolari in Giappone? Chiunque faccia una piccola ricerca prima di un viaggio in Giappone può scoprire che i distributori automatici sono tra le prime comodità che il paese offre, secondi solo ai konbini, convinient store. La loro fama è motivata da diversi fattori, uno di questi la loro presenza nel territorio. Di fatti i distributori sono presenti su tutto il suolo giapponese, dalle grandi città alle città rurali, una realtà possibile anche al basso tasso di criminalità registrato nello stato. La varietà dei loro prodotti, in pase all’azienda produttrice e al periodo dell’anno, che predilige bevande fresche durante le stagioni più calde e propone bibite calde nel periodo invernale, fa sì che i distributori riescano a soddisfare le esigenze di ogni persona. Ho introdotto il discorso portando l’esempio delle bibite, poiché queste sono le jidōhanbaiki più comuni che si possono trovare dal 1960, data dall’introduzione massiccia della moneta da 100 yen. Tuttavia, storicamente parlando la prima jidōhanbaiki fu prodotta nel 1888 da Tawaraya Koshichi e vendeva tabacco. Un’altra sua opera rivoluzionaria uscì nel 1904, un distributore automatico che vendeva francobolli e cartoline, con anche la funzione di buca per le lettere. Con il passare del tempo e grazie l’introduzione di nuovi metodi di pagamento, le tipologie di distributori e i prodotti che mettono a disposizione sono aumentati. Partirei dal presentare quei prodotti che sono comuni anche qui nei distributori italiani. Già precedentemente presentati abbiamo i distributori di bibite, che in Italia troviamo solo come prodotti freschi, poi abbiamo i distributori di sigarette o prodotti da tabacchi e i distributori di snacks. Tutti distributori comuni nell’utilizzo quotidiano. In Giappone però è possibile comprare anche bibite alcoliche tramite una semplice vending machine, come magari una bella birra fresca. Rimanendo sempre su alimenti che possano alleviare il caldo perché non prendere un bel cono gelato? Se invece preferite un pasto più sostanzioso ci sono sempre distributori che vendono nuddles che siano questi ramen, udon, mazesoba, tsukesoba e tanto altro, ce n’è per tutti i gusti! È possibile comprare anche cibi dal gusto più europeo come una bella pizza o paella oppure darsi a qualcosa di più esotico come il loco moco, un piatto hawaiano composto da riso, hamburger, uovo e salsa gravy. E cos’è un buon pasto senza un dolce, perché oltre al gelato sarà possibile prendere anche un qualcosa di un po’ più sfizioso. Ma il contenuto dei distributori automatici non si ferma solo a prodotti alimentari, in base al quartiere in qui ci si trova si possono trovare action figures, carte da gioco e libri o manga in quelle più comuni, ma andando a controllare i distributori più nascosti chissà cosa si potrebbe trovare, magari proprio la cravatta che avete dimenticato di indossare per il vostro importante colloquio. photo credits: web-japan.org Le jidōhanbaiki non vi stupiranno solo per il loro contenuto, ma anche per la loro innovazione tecnologica, dagli schermi touch fino al distributore automatico realizzato in collaborazione con un’azienda di cosmetica che utilizza l’IA, questo analizzando il volto dei clienti proporrà loro il prodotto più indicato per la loro fisionomia e carnagione. Articolo di Elena Ferrario, Stagista presso l’Associazione Giappone in Italia
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Lo Yukata l’abito tradizionale estivo giapponese
photo credits: guidable.co Lo yukata è una tipologia di vestiario più semplice rispetto a quella del kimono, composta solo da tre elementi: la veste, con il nome di yukata, la cintura, con il nome di obi, e i geta, i sandali di legno tradizionali. Rispetto al kimono possiamo vedere l’assenza del juban (sottoveste, biancheria del kimono) e delle tabi (calze). Questo è dovuto al fatto che in principio lo yukata era nato per essere indossato dai nobili durante bagni di vapore per proteggere la loro pelle e asciugane il sudore. La funzione si può comprendere osservando l’antica l’etimologia della parola. La parola yukata era composta dal termine yu “湯” (acqua calda) e katabira “帷子” (indumento semplice di seta), che uniti in yukatabira “湯帷子” sono traducibili in italiano con la parola ‘accappatoio’, con la specifica che fosse possibile indossarlo dopo o durante il bagno. Tuttavia, con il passare del tempo la scrittura del termine si è semplificata fino a divenire quella che conosciamo noi oggi, composta da una differente coppia di kanji, quali yu “浴” (bagnarsi) e kata “衣” (indumento), ma mantenendo lo stesso senso di fondo un indumento da bagno. Inizialmente nati quindi, come indumenti da bagno per nobili gli yukata divennero vestiario comune grazie alla loro produzione in cotone nel periodo Edo (1603-1867) e solo in anni più recenti, alla fine del periodo Showa (1926-1989), divennero gli abiti tradizionali da indossare nel periodo estivo, per far visita ai templi o santuari, per essere indossati durante i festival e la sera. Anticamente lo yukata era di differenti colori in base a quando doveva essere indossato. Solitamente in casa si indossavano yukata semplici e dai colori chiari, come il bianco, mentre per uscire si preferiva indossarne di color indaco anche per via dell’odore dalla colorazione, che creava un repellente naturale per insetti. Oltretutto gli yukata venivano usati al massimo delle loro potenzialità, dopo essersi rovinati erano indossati come pigiami, e quando anche questi non erano più in condizioni ottimali, venivano trasformati in fazzolettini ed in fine stracci per la casa. Oggigiorno indossare lo yukata è diventata anche una questione di stile. Le fantasie più popolari tra le ragazze sono floreali di colori sgargianti, mentre le donne adulte preferiscono indossarne con motivi più semplici, ma sempre dai colori vivaci. Gli yukata indossati dagli uomini tendono a colori scuri, quali il blu e nero, monotono e dalle lavorazioni classiche. Perché sì, nonostante quando si pensa allo yukata si immagina una ragazza vestita con un elegante abito dai colori brillanti, questo è anche un classico indumento maschile. È possibile non solo per i giapponesi, ma anche per i turisti vivere l’esperienza di indossare e farsi fotografare in uno yukata mentre si camminare per le strade delle città, grazie a tutti i negozi che ti permettono di prenderli in prestito o li vendono. Tuttavia, se doveste recarvi in Giappone durante il periodo autunnale o invernale, mesi un po’ freddi per fare quest’esperienza, non c’è da preoccuparsi, li potrete indossare negli ryoukan, pensioni in stile giapponese. Difatti queste pensioni mettono a disposizione dei loro clienti lo yukata, sia per muoversi all’interno dello stabile che per andare a fare quattro passi grazie all’ausilio di giacche pesanti quali hanten o chabaori. photo credits: yamanami-online.jp Articolo di Elena Ferrario, Stagista presso l’Associazione Giappone in Italia
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L’Obon, la festa giapponese delle lanterne e non solo
L’Obon è generalmente conosciuta come la festa delle lanterne. Quest’ultime venendo liberate sulle superfici d’acqua, creano degli scenari molto suggestivi. Tuttavia, di questa festività che viene celebrata in Giappone da più di 500 anni, c’è molto di più che delle lanterne galleggianti! L’Obon è il nome con cui viene chiamata una delle festività tradizionali nazionali giapponesi più importanti, la quale vuole festeggiare gli spiriti degli antenati. Viene svolta durante il periodo estivo, solitamente intorno al 15 di agosto. Non vi è una data precisa per tutto il territorio giapponese, anzi questa varia da prefettura in prefettura. Il nome Obon “お盆” ha le sue origini dai termini buddisti Urabone “盂蘭盆会” ed Urabon “盂蘭盆”, i quali possono essere tradotti in italiano con ‘festa delle lanterne’. Per quanto riguarda il termine bon “盆” in italiano è tradotto con la parola ‘vassoio’, parola che può rimandare all’idea di offrire qualcosa a qualcuno. A differenza del nostro Giorno dei Morti, il 2 novembre, nel quale si compiangono i nostri cari deceduti, andandoli a visitare al cimitero e portandogli mazzi di fiori, l’Obon vuole celebrare la visita degli antenati e di coloro che abbiamo amato. Prima dell’inizio delle celebrazioni dell’Obon le famiglie vanno in visita a casa dei loro familiari e da lì danno inizio ai preparativi per l’arrivo degli spiriti. Si parte dalla ohaka-mairi “お墓参り” (visita alla tomba) con la pulizia della tomba di famiglia. Dopodiché bisogna occuparsi delle offerte di dolci e frutta da porre di fronte all’altare di famiglia, che solitamente è presente in ogni casa giapponese. In aggiunta, in alcune prefetture del Giappone vi è anche la tradizione di disporre lo shoryo-uma “精霊馬” (spirito del cavallo), che consiste nel prendere un cetriolo e una melanzana e infilzarle con quattro stecchini. Il cetriolo diventa la rappresentazione del cavallo che aiuterà gli antenati ad arrivare velocemente verso casa, mentre la melanzana diventa la rappresentazione della mucca che riaccompagnerà con calma gli spiriti nel loro mondo. photo credits: grapeejapan.com Con il primo giorno dell’Obon si da il benvenuto agli spiriti degli antenati, accendendo dei piccoli fuochi che prendono il nome di mukaebi “迎え火” (fuochi di benvenuto). Inoltre, vengono accese anche delle lanterne, le chochin “提灯” per guidarli nel loro rientro verso casa. In queste giornate è comune per le famiglie visitare il tempio o richiedere a dei preti buddisti di eseguire un servizio memorativo davanti all’altare di famiglia. Oltre alle visite al tempio e le cerimonie commemorative, è usanza andare ai festival tenuti dalle città, dove è possibile vedere eseguita la bonodori “盆踊り” (danza dell’Obon), visitare delle bancarelle e mangiare street food. Il terzo giorno, alla conclusione dell’Obon, verranno di nuovo accesi dei fuochi che prendono il nome di okuribi “送り火” (fuochi di saluto), per illuminare la strada e rendere la partenza degli spiriti più sicura. L’Obon è una festività che è variata e mutata nelle sue tradizioni durante il tempo, ma il suo spirito è rimasto sempre lo stesso, celebrare e ricordare con affetto i nostri antenati e le persone che sono state a noi care. Articolo di Elena Ferrario, Stagista presso l’Associazione Giappone in Italia
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Ma in cosa consiste effettivamente questa ricorrenza?
photo credits: otakusjournal.it
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Japanese art experience a Campsirago Residenza
Giappone in Italia è felice di presentare e patrocinare un bellissimo evento legato alla cultura giapponese: Japanese art experience Da venerdì 19 a domenica 21 maggio Campsirago Residenza ospita artisti e artigiani da Ukiha per una tre giorni di workshop, incontri, laboratori dedicati alla cultura, all’arte, alla tradizione, alla musica giapponese. La Japanese art experience, organizzata da Campsirago Residenza e Omnicent Ukiha in collaborazione con The International Academy for Natural Art, è un’occasione unica per conoscere e immergersi nella cultura giapponese, nel suo pensiero e nella sua profonda relazione con il paesaggio, gli elementi e la natura. Una tre giorni che sarà anche momento di scambio e incontro tra pubblico e artisti, tra musicisti italiani e giapponesi, tra l’arte culinaria del paese dell’Asia orientale e i prodotti locali del nostro territorio, tra antiche tradizioni e modernità. Il batterista e ingegnere acustico Nori Tanaka terrà tre workshop di tecnica del suono. L’incontro con il maestro Hiro Shinohara introdurrà il pubblico all’arte dell’intreccio del bambù e all’allestimento degli spazi che saranno utilizzati per la cerimonia del tè che sarà officiata da Ryoko Baba, direttrice della residenza artistica di Ukiha. La chef Mamiko Ishii terrà due workshop di cucina giapponese e preparerà cene e pranzi. Venerdì 19 maggio l’artista italiana Krista cura un workshop di kintsugi tradizionale. Sabato e domenica anche attività dedicate ai più piccoli con i laboratori artistici a cura di Claudia Saracchi e Rossana Maggi ispirati alla corrente della Mail Art, all’artista Yayoi Kusama, all’immaginario poetico della cultura giapponese e alla preziosa arte del kintsugi. La Japanese art experience è realizzata in Partenariato Speciale Pubblico Privato con il Comune di Colle Brianza. È finanziata dall’Unione europea – NextGenerationEU. Ha il patrocinio della Provincia di Lecco, del Consolato Generale del Giappone a Milano e dell’Associazione Culturale Giappone in Italia. Unisciti a noi! Giappone in Italia è un’associazione culturale no profit. Le nostre attività sono possibili grazie anche al tuo contributo che ti permetterà di godere sempre di nuovi e originali contenuti! 20€/ANNO Unisciti a noi! Giappone in Italia è un’associazione culturale no profit. Le nostre attività sono possibili grazie anche al tuo contributo che ti permetterà di godere sempre di nuovi e originali contenuti! 20€/ANNOSegui Giappone in Italia
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Il peso delle aspettative sociali sui giovani nella società giapponese: analisi libro "La ragazza del convenience store"
“La ragazza del convenience store” di Murata Sayaka è un libro che ha riscosso un discreto successo in Giappone nel 2016. Ciò che ha attratto i lettori è stata soprattutto la capacità di Sayaka di rappresentare perfettamente la società giapponese contemporanea come ancora troppo legata a solide aspettative sociali che sembrano pesare ancora molto sui giovani nella transizione all’età adulta. Vediamo, quindi, quali sono queste aspettative attraverso l’analisi dei protagonisti del libro. photo credits: theguardian.com La società giapponese è stata interessata da numerosi cambiamenti socioeconomici a partire dal dopoguerra. Il Giappone in quel periodo, infatti, era una nazione in grande crescita economica, costruita su tre pilastri in particolare: famiglia, azienda e scuola. Questo sistema prevedeva una precisa divisione dei ruoli, in cui solamente agli uomini spettava mantenere economicamente la famiglia, mentre le donne dovevano occuparsi delle faccende di casa e dell’educazione dei bambini. Questi ultimi, anche a quell’età, erano comunque spinti ad ottenere ottimi risultati a scuola, poiché dovevano diventare poi i lavoratori del domani. Questo, quindi, era il modello di vita che la maggior parte delle persone seguiva, stimolati anche dalle favorevoli condizioni economiche. photo credits: scmp.com Con un tipo di lavoro per lo più precario risultava molto difficile impegnarsi in un matrimonio e nella creazione di una famiglia. Ciononostante, entrambi erano e sono tutt’oggi spesso considerati importanti per la transizione all’età adulta dei giovani. Ma cosa significa diventare adulti in Giappone? In generale, una persona per essere considerata pienamente matura dovrebbe conformarsi alle aspettative sociali, che risultano essere differenti in base al genere. Per quanto riguarda le donne, infatti, diverse indagini hanno dimostrato come la maggior parte di loro abbiano intenzione di sposarsi e avere bambini. Tuttavia, a partire dagli anni ’90 sempre più donne hanno deciso di rifiutare il matrimonio per dedicarsi totalmente alla propria carriera. Questa scelta, però, non viene spesso accolta con piacere e, soprattutto nei media, accade che vengano etichettate con termini dispregiativi, quali “parassiti”. La maturità maschile e l’idea di “mascolinità”, invece, sembrano essere più legati alla figura del salaryman. Un uomo, infatti, secondo l’ideale deve essere diligente, responsabile e dedito al lavoro per mantenere la propria famiglia economicamente. Come vediamo, quindi, le aspettative hanno ancora un peso importante per i giovani, ma occorre comunque notare come negli ultimi anni siano aumentati stili di vita differenti. Si stima, infatti, che tra il 1995 e il 2010, la percentuale di donne ancora single sotto i 34 anni sia passata dal 19,7% al 26,6%. Gli uomini, invece, nella stessa fascia di età dal 37,3% al 42,9%. Tuttavia, coloro i quali non si adattano al “normale” stile di vita vengono spesso allontanati dalla presunta “normalità” e incolpati per la precarietà del Giappone. Come vedremo, esattamente ciò che accade ai due protagonisti del romanzo di Murata Sayaka. photo credits: amazon.it Konbini Ningen è un romanzo scritto da Murata Sayaka nel 2016 e vincitrice nello stesso anno del prestigioso premio Akutagawa. L’autrice ha affermato in un’intervista al Japan Times che per la sua scrittura si è ispirata alla sua esperienza personale come commessa in un konbini. Il romanzo è uscito in Italia nel 2018 con il titolo “La ragazza del convenience store”, tradotto da Gianluca Coci. La protagonista è Keiko, una ragazza di 36 anni considerata “strana” dalle persone intorno a lei per la sua situazione lavorativa e sentimentale. Molto simile a lei è Shiraha, un anno più piccolo di Keiko, che, come vedremo, ricoprirà all’interno del romanzo un ruolo altrettanto importante. photo credits: wikipedia.org Il konbini, o convenience store, ricopre un ruolo importante all’interno del romanzo. È, infatti, di norma un ambiente regolato da precise direttive, rituali e ripetizioni che tutti i commessi devono seguire. Per Keiko, il konbini rappresenta però un luogo in cui finalmente sente di essere “normale”, proprio grazie al fatto che queste regole sono scritte nero su bianco su un manuale. Al di fuori, invece, la situazione è ben diversa, poiché nella vita quotidiana non esiste alcun manuale che possa spiegarle come vivere in modo “normale”. Il konbini, quindi, diventa per Keiko il rifugio perfetto in cui ogni problema sparisce e si può sentire finalmente una persona come tutte le altre. Keiko, la protagonista, è stata considerata una ragazza “strana” fin da piccola a causa del suo comportamento fuori dagli schemi. La ragazza si impegnerà a cambiare soprattutto per non far soffrire i propri genitori, ma il suo mutismo finirà per farli preoccupare ugualmente. Una volta finita l’università, Keiko andrà a vivere da sola e continuerà il suo lavoro part-time al konbini trovato qualche anno prima. Keiko, quindi, rappresenta quel cambiamento avvenuto dopo lo scoppio della bolla che ha portato al consolidamento di una nuova forma di individualizzazione. Da quel momento, infatti, sempre più giovani hanno preferito non sposarsi e vivere da soli, sebbene ciò non sia ben visto all’interno della società. Per quanto riguarda l’ambito lavorativo, invece, secondo i dati raccolti dal ministero del lavoro giapponese nel 2011 il 40% delle aziende non valuta positivamente esperienze da freeter, un termine per indicare giovani che non si impegnano in modo volontario in lavori stabili. Keiko tenterà, quindi, di diventare “normale” con l’aiuto di Shiraha, un uomo di 35 anni non molto diverso da lei. Anche lui, infatti, alla sua età non ha un lavoro stabile e vive da solo, ma è possibile notare alcune differenze con Keiko. Shiraha, infatti, al contrario di Keiko conosce bene le regole che governano la società esterna, ma volontariamente sceglie di non seguirle. È stanco, inoltre, di essere trattato come “anormale” e ciò fa riversare la sua rabbia sulle persone intorno a lui. Ciononostante, si dimostrerà ben lontano da quell’ideale di “uomo mascolino” visto in precedenza. Infatti, il suo comportamento non sarà diligente e responsabile, quanto piuttosto da parassita, come lui stesso affermerà durante una conversazione con Keiko. Tuttavia, alla fine, il piano per cambiare la sua situazione dovrà fare i conti con la scelta di Keiko, che lo spingerà a cercare un’altra soluzione. Unisciti a noi! Giappone in Italia è un’associazione culturale no profit. Le nostre attività sono possibili grazie anche al tuo contributo che ti permetterà di godere sempre di nuovi e originali contenuti! 20€/ANNO Unisciti a noi! Giappone in Italia è un’associazione culturale no profit. Le nostre attività sono possibili grazie anche al tuo contributo che ti permetterà di godere sempre di nuovi e originali contenuti! 20€/ANNO
Tuttavia, la situazione cambiò radicalmente con lo scoppio della bolla avvenuto nei primi anni ’90. Prima di tutto, in ambito lavorativo si passò da un tipo di lavoro stabile e duraturo a uno più incerto e flessibile. Le compagnie, infatti, furono costrette a ridurre il personale e assumere a tempo determinato con la politica economica adottata in quel periodo. Se negli anni precedenti, quindi, i giovani potevano legarsi quasi a vita ad una compagnia, ora invece si manifestava un preoccupante senso di precarietà. Tutto ciò ebbe, naturalmente, conseguenze importanti anche all’interno della società.Precarietà e aspettative sociali nei giovani
“La ragazza del convenience store”
Il ruolo del konbini
Inoltre, il konbini sembra avere un altro punto in comune con la società giapponese. Entrambi, infatti, si basano su di un equilibrio che, se alterato, richiede l’espulsione dell’elemento disturbatore. Esattamente come Keiko viene spesso esclusa quando si trova al di fuori del suo negozio, così anche nel konbini in più episodi coloro che alterano questo equilibrio vengono esclusi. Questo accade prima con un attaccabrighe e poi con Shiraha, come vedremo il secondo personaggio più importante del romanzo.Le figure di Keiko e Shiraha
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