Cinema giapponese: la nuova produzione nella "seconda epoca d’oro"

A metà del ventesimo secolo, per l’industria cinematografica giapponese ebbe inizio un glorioso periodo di rinascita che avrebbe percorso gli anni Cinquanta nel cosiddetto "secondo decennio d’oro".

In seguito alla ripresa economica del dopoguerra, nello scenario cinematografico il decisivo confronto con gli Stati Uniti, sebbene avesse determinato una riorganizzazione dell’assetto industriale, aveva offerto alle case giapponesi l’occasione di espandersi nel mercato internazionale, attraverso una produzione rinnovata e per la prima volta orientata all’esportazione. Il dopoguerra vide inoltre la fioritura di numerose personalità che difficilmente si sarebbero imposte negli anni precedenti a causa del tipico sistema di apprendistato giapponese, per cui la quasi totalità dei registi si vedeva affidare la piena responsabilità di un film solo dopo un lungo tirocinio come assistenti.

Uno tra questi fu senza dubbio Kurosawa Akira, che già nel 1943 aveva esordito con Sugata Sanshiro. Con Rashomon, infatti, nel 1950 una nuova era di rinnovamento e prosperità si era affacciata alle porte del cinema giapponese, che fino a quel momento aveva sviluppato uno stile proprio nella costante alternanza tra codici provenienti dall’esterno e rappresentazioni minuziose dei costumi del popolo. Il film riscosse un successo senza precedenti: fu premiato l’anno successivo al Festival di Venezia con il Leone d’Oro e in seguito con l’Oscar come miglior film straniero a Hollywood, dando così la possibilità al cinema nazionale di essere conosciuto e apprezzato all’estero per la prima volta.

L’ambiguità del trionfo conseguito dalla pellicola derivò dall’innovativa interpretazione del genere jidaigeki proposta da Kurosawa, che tramite questo esperimento d’avanguardia stabilì un punto di rottura rispetto alla tradizione e ai film in costume convenzionali ai quali il pubblico era abituato. A ossessionare il popolo giapponese, oltre Kurosawa stesso, era la preoccupazione di aver fornito al resto del mondo un’immagine troppo eccentrica della cultura nipponica. Tuttavia Rashomon diede al regista l’opportunità di trasporre al meglio il suo stile espressivo, ma soprattutto rappresentò un passo importante verso l’internazionalizzazione del cinema giapponese, che in breve tempo avrebbe conquistato l’attenzione dei grandi festival europei.

L’iniziale diffidenza di Nagata Masaichi della Daiei riguardo alla produzione di Rashomon fu così smentita, tanto che il presidente della casa si convinse a produrre una quantità sempre maggiore di jidaigeki per il mercato straniero. Inoltre, Nagata lanciò un programma di produzioni a colori permettendo alla Daiei di diventare la prima major giapponese a servirsi del colore non solo sul piano sperimentale. Il procedimento utilizzato per questa novità era il Fujicolor, già impiegato dalla Shochiku in Carmen torna a casa del 1951; quest’ultimo film, diretto da Kinoshita Keisuke, aveva ottenuto un grande successo al botteghino che consentì alla casa produttrice di recuperare il potere perduto a causa della mancata adesione agli standard moderni, concentrandosi piuttosto sui classici melodrammi destinati a un pubblico prevalentemente femminile.

In seguito alla nuova disposizione postbellica dell’apparato industriale, il numero delle major era aumentato a tal punto che il monopolio del mercato fu spartito tra sei grandi case: Nikkatsu, Shochiku, Daiei, Toho, Shintoho e la neocostituita Toei. Mentre la Daiei era occupata nella realizzazione di film di alta qualità e continuava a rivolgere la sua attenzione al mercato estero, la Toho era ancora troppo debole per reggere il confronto con le altre case. In tale contesto, la Toei si fece avanti proponendo un piano di produzione il cui scopo era distribuire un nuovo doppio programma ogni settimana: il piano permise alla casa di concentrarsi sulla produzione interna di film in costume con budget decisamente ridotti.

Dal 1950 ci fu anche una rinnovata proliferazione di compagnie indipendenti, interessate principalmente alla politica. Nello stesso anno, infatti, un provvedimento del Comandante Supremo delle Forze Alleate aveva allontanato i comunisti da tutti gli organismi di comunicazione di massa attraverso la cosiddetta red purge, che aveva già coinvolto numerosi nomi celebri a Hollywood. Le più importanti tra queste case nascenti furono la Studio 8, fondata da Gosho Heinosuke, la Kindai Eiga Kyokai e la Shinsei Eigasha. In alcuni casi la scelta dell’indipendenza risiedeva piuttosto nel desiderio di usufruire di una libertà creativa fino ad allora limitata da alcune major, come la Shochiku.

Mentre già nel 1953 la quasi totalità delle sale cinematografiche proiettava spettacoli a doppio programma, l’industria aveva l’onere di soddisfare sia le esigenze del pubblico locale che quelle dell’audience straniera. Tuttavia, a causa di una fiacca coordinazione tra le major non fu possibile attuare in questi anni una politica esportatrice adeguata; soltanto nel 1957 la creazione della UniJapan Film compensò l’assenza di un organismo centrale destinato all’esportazione.

Lorenzo Leva

 

Lorenzo Leva nasce a Fermo nel 1990 ed è laureato in Lingue, Mercati e Culture dell’Asia (Università di Bologna). Ha approfondito le sue conoscenze riguardanti l'economia, la cultura e la società giapponese durante un periodo di sei mesi presso la Université Paris Diderot-Paris VII di Parigi, con un Master in Asian Studies presso l'Università di Lund e un'esperienza di fieldwork presso la Waseda University a Tokyo.
Coltiva da anni una forte passione per il cinema orientale e giapponese in particolare, di cui ha analizzato l’evoluzione e le caratteristiche.

Contatti:
lorenzo.leva@gmail.com


Storia del cinema giapponese: l'influenza americana

L’industria cinematografica giapponese è stata soggetta nel corso degli anni a notevoli trasformazioni, dovute principalmente al confronto con realtà esterne che sin dal principio hanno esercitato sul Paese del Sol Levante un grande fascino. L’interesse per le innovazioni straniere, tuttavia, ha da sempre dovuto scontrarsi con un atteggiamento ricorrente di fronte a qualsiasi tipo di novità: iniziale curiosità ed entusiasmo prima della piena assimilazione dell’idea e del conseguente adattamento ai propri modelli.

Tra le modernità importate, il cinema registrò da subito un’immediata popolarità. Il rapido processo di divulgazione della “settima arte” fu così attuato dalle prime case di produzione, che diedero un contributo essenziale alla nascita del sistema industriale cinematografico, nell’intento di ottenere una repentina espansione all’estero, attraverso l’importazione di nuovi macchinari provenienti dalla Francia.

Il successo riscosso dall’apertura del nuovo circuito di sale Fukuhodo di Tōkyō nel 1909 confermò i buoni propositi nel redditizio settore della produzione: la Fukuhodo fu tre anni dopo accorpata alle altre case in un grande trust plasmato sulla Motion Picture Patent Company americana, la Nikkatsu Corporation.

Dopo la costruzione di un nuovo studio nelle vicinanze di Asakusa, la prima major giapponese si specializzò nella realizzazione di drammi dello shinpa (la “nuova scuola”), arrivando già nel 1914 a produrre 14 film al mese e a possedere nel 1921 più della metà delle 600 sale cinematografiche dell’intero paese. Nel frattempo, con lo scoppio della prima guerra mondiale, gli Stati Uniti iniziarono a estendere il proprio dominio su Francia e Italia, i due paesi esportatori più importanti fino a quel momento.

L’egemonia del cinema americano nel primo dopoguerra e conseguentemente per l’intero decennio successivo fu testimoniata in particolar modo dalla nascita dello "studio system", un efficiente apparato industriale che prevedeva la fusione delle piccole compagnie in aziende maggiori a concentrazione verticale, capaci dunque di controllare produzione, distribuzione e proiezione delle pellicole, tramite l’acquisto o la costruzione delle sale.

Altre novità consistevano nella specializzazione dei ruoli attraverso l’introduzione di una nuova figura accanto a quella del regista, il producer, e nella nascita dello "star system": l’attore principale, spesso legato alla rispettiva casa da contratti a tempo indefinito, rappresentava dunque il mezzo fisico attraverso cui pubblicizzare i film, nonché il cardine di questo nuovo sistema produttivo che avrebbe funto poi da modello per lo sviluppo dell’industria cinematografica giapponese.

All’inizio degli anni Venti, il contributo più rilevante verso una nuova fase di radicale rinnovamento e prosperità provenne dall’intervento di Kido Shirō, direttore dei nuovi studi di Kamata della casa Shōchiku, che incrementò la produzione di opere gendaigeki: queste consistevano in drammi di ambientazione contemporanea, in forte contrapposizione con i film in costume denominati jidaigeki, ai quali era stato prevalentemente rivolto l’interesse del pubblico fino a quel momento.

In particolare, a favorire la proliferazione di opere jidaigeki fu l’imprescindibile influenza del teatro tradizionale sul cinema degli albori. Le prime produzioni cinematografiche, infatti, consistevano in rappresentazioni di geisha danzanti, attori famosi di kabuki e melodrammi popolari shinpa: questa forma teatrale ebbe origine in seguito alla restaurazione Meiji per l’impossibilità del kabuki di presentare commedie d’ambientazione contemporanea. Pur avendo esordito come teatro rivoluzionario e di propaganda della politica liberale e antifeudale, mantenne figure tradizionali come l’oyama (l’attore che interpretava i ruoli femminili, anche denominato onnagata).

La forte influenza del teatro si era manifestata inoltre nella necessità di trovare un personaggio che riuscisse a dare una spiegazione anticipatoria della rappresentazione, a fornire la voce ai vari personaggi, tradurre e commentare le scene in lingua straniera dei film importati e descrivere le tecniche cinematografiche utilizzate durante la proiezione. Questi compiti erano stati affidati al benshi, ruolo svolto principalmente da uomini che si sarebbe poi rivelato decisivo nello sviluppo del cinema giapponese.

Il potere incantatore dei benshi si sposava alla perfezione con le esigenze del pubblico e costituiva uno scoglio notevole per chi tentasse di scardinarlo o, addirittura, proporre nuove tecniche di ripresa; nonostante ciò, verso la fine degli anni Dieci era stato introdotto in Giappone il flashback, in seguito agli esperimenti tecnici di D. W. Griffith. Quest’ultimo aveva svolto un ruolo decisivo nell’applicazione all’interno del cinema americano del director system, che prevedeva la centralità nella figura del regista, e nell’elaborazione dell’innovativo montaggio alternato.

Il Paese, dunque, non era ancora preparato a un intero sconvolgimento del sistema tradizionale: il maggiore ostacolo al processo di “americanizzazione” era ancora rappresentato dalla presenza dei benshi, la cui popolarità aveva raggiunto il picco massimo tra la fine del primo conflitto mondiale e la metà degli anni Venti.

Lorenzo Leva

 

Lorenzo Leva nasce a Fermo nel 1990 ed è laureato in Lingue, Mercati e Culture dell’Asia (Università di Bologna). Ha approfondito le sue conoscenze riguardanti l'economia, la cultura e la società giapponese durante un periodo di sei mesi presso la Université Paris Diderot-Paris VII di Parigi, con un Master in Asian Studies presso l'Università di Lund e un'esperienza di fieldwork presso la Waseda University a Tokyo.
Coltiva da anni una forte passione per il cinema orientale e giapponese in particolare, di cui ha analizzato l’evoluzione e le caratteristiche.

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