L’uomo e la donna nella società giapponese contemporanea attraverso l’amae.

simboli_di_genere“L’era della donna” (onna no jidai), così si sente spesso dire di questi tempi in  Giappone, perché in effetti la donna sembra abbia raggiunto in larga parte una condizione di parità che la vede protagonista o comunque partecipe di ruoli sociali piuttosto elevati, come l’ingresso in politica, con la possibilità di scegliere liberamente tra una buona varietà di opzioni nel pieno raggiungimento di uno stile di vita adeguato alle proprie esigenze.

Ma si tratta effettivamente di emancipazione? Le donne sono realmente libere di muoversi come reputano senza conseguenze che vadano ad intaccare la loro libertà effettiva? Ciò che è interessante è soprattutto chiedersi come le donne stesse si autoritraggano all’interno del sistema e come considerino il proprio stato attuale. E questa è una cosa davvero difficile da evincere in una società come quella giapponese, soprattutto se si pensa che la percezione individuale varia comunque a seconda dell’età, dello status socio-economico, del background educativo e del livello di consapevolezza circa i problemi relativi alla condizione della donna.

Ad esempio nel contesto di una azienda, l’uomo è rappresentato nel ruolo tipico di salaryman giapponese, totalmente dedito al proprio lavoro, che pospone i propri interessi personali a quelli dell’azienda, vista come una grande famiglia a cui si deve lealtà e rispetto, all’interno della quale non ha bisogno di far prevalere una propria identità come individuo distinto dalla massa, un sistema in cui le responsabilità singole sono sempre demandate a un entità superiore e imparziale che è il gruppo. La donna invece è ritratta come colei che deve provvedere a facilitare il gravoso onere del marito, non facendogli mancar nulla, dedicandosi alla casa e alla cura dei figli, sostenendolo nel suo sforzo di mandar avanti una complessa macchina sociale che si nutre dell’equilibrio raggiunto nel totale rispetto dei propri ruoli e nell’aderenza a regole sociali necessarie per il suo funzionamento. Quindi si potrebbe dire che in realtà il ruolo ricoperto dalla donna è essenziale in quanto fornisce un supporto irrinunciabile per l’uomo senza il quale, anche se è lungi dall’ammetterlo, quell’equilibrio ideale finirebbe per infrangersi con un’onda contro uno scoglio. Sul posto di lavoro, la parità di cui prima si parlava, è impersonificata dalle cosiddette office lady, che sì hanno raggiunto un certo buon grado di riconoscimento come ingranaggi del meccanismo, ma che nell’effettivo sono relegate a ruoli che le confinano palesemente in uno stato di inferiorità. Normalmente si tratta di semplici mansioni da segretarie, come far fotocopie, organizzare i viaggi dei superiori, servire tè e caffè, e provvedere ai bisogni dei salaryman, esattamente come una madre e una moglie fanno a casa con la propria famiglia. E ci si chiede: perché nonostante questo evidente falso riconoscimento di parità non si dia voce a proteste, non sia esplicitato il proprio disagio e la propria insoddisfazione da parte delle donne? Si tratta effettivamente di un problema di genere o si tratta solo di capacità personale? E soprattutto le donne sono consce di questo e lo accettano, o semplicemente lo ignorano e non si rendono conto d’essere in un certo qual modo prese in giro, come se solo il fatto d’essere formalmente e regolarmente entrate a far parte del sistema lavoro dovesse porle a tacere nonostante non vi sia un reale riconoscimento?     

In realtà, consce di questo o no, la rigidità istituzionale che le relega al proprio ruolo è la stessa condizione del loro reale potere e della loro influenza. Non essendo soggetta allo stesso tipo di doveri e responsabilità dei propri colleghi, non deve rendere conto delle proprie azioni allo stesso livello e di conseguenza è molto più libera nei propri movimenti e si può dire “tenga il coltello dalla parte del manico” in quanto conscia del fatto che senza il suo aiuto l’uomo non sarebbe in grado di provvedere da solo alle proprie esigenze di base. Ed è proprio qui che si instaura quel tipo di meccanismo che consiste in una effettiva, anche se volutamente mascherata, dipendenza dell’uomo dalla donna anche in ambito lavorativo: meno l’uomo è autosufficiente, più può essere manipolato. E’ indicativo il fatto che un buon manager sia considerato colui che riesce a ottenere la cooperazione delle donne basandosi sul proprio fascino personale e sulla capacità di non far pesare alle donne il proprio ruolo subordinato. L’uomo necessita d’essere in buone relazioni con le donne, perché altrimenti queste, per mezzo di pettegolezzi e dispetti sempre mascherati sotto l’apparenza della cordialità, sono addirittura in grado di fargli perdere visibilità e dignità agli occhi dei superiori, di minare il rispetto dovuto da parte di colleghi e colleghe, finanche ad instaurare un meccanismo che conduce sino alla perdita stessa del lavoro. Allo stesso tempo, più le donne resistono alla propria condizione più rafforzano gli stereotipi che le vedono protagoniste. Ad esempio, rifiutandosi di svolgere un lavoro o declinando una richiesta di collaborazione e aiuto, confermano la propria predisposizione a essere facilmente trasportate dalle emozioni e d’essere quindi degli esseri irrazionali, non seriamente dedite al proprio lavoro, e nell’atteggiamento di mascherata, ma allo stesso tempo così esplicita, protesta nei confronti degli uomini non fanno che fornire una scusa concreta e delle motivazioni per la discriminazione a cui sono sottoposte. Ma queste soffuse ed equilibrate proteste quotidiane sono l’unico mezzo che le donne posseggono per resistere al potere maschile che, come dimostrato, così potere non è.

La ragione dell’astruso funzionamento di questa complessa macchina sociale può essere riassunto da un concetto che Takeo Doi (uno dei più influenti psichiatri giapponesi del XX secolo) definisce come amae, ossia un termine giapponese che in campo psicologico si riferisce alla dipendenza dell’individuo dagli altri, al suo desiderio di trarre soddisfazione dal rapporto con gli altri, d’essere considerato, e che come conseguenza di questo desiderio frustrato, perché non possibile in un sistema sociale come quello giapponese, comporta un’insoddisfazione perenne dell’individuo che si ritrova a poter godere unicamente di realizzazioni a livello di gruppo perché quelle personali sono raramente perseguite e considerate. Quindi la dipendenza dagli altri è ben esplicitata dal rapporto tra uomo e donna dove ognuna delle parti ha bisogno dell’altra per poter esistere e per illudersi di aver raggiunto quella libertà personale che non è libertà dell’individuo dal gruppo ma una libertà che trae origine dall’amae e che per essere perseguita ha necessariamente bisogno della presenza degli altri. 

 

Eleonora Bertin