Cinema giapponese

narayama_bushikoLa ballata di Narayama / Narayama bushiko

In un remoto villaggio di montagna vige l’arcaica regola, dettata dalla miseria e dalla penuria di cibo, di abbandonare sulla montagna di Nara tutti i vegliardi che hanno raggiunto i settant’anni. Orin, una vecchia donna, avvicinandosi all’età fatidica, si prepara al “pellegrinaggio” finale.

Il film sarà proiettato venerdì 19 febbraio alle ore 19.00 presso il Centro Incontri Culturali Oriente Occidente, Via Lovanio 8 (MM2 – Moscova) nel contesto della rassegna “5 centimetri al secondo. Viaggio nel Giappone antico e moderno attraverso il cinema”, curata da Giampiero Raganelli.

Regia: Kinoshita Keisuke

Sceneggiatura: Kinoshita Keisuke, da un romanzo di Fukazawa Shichirō

Fotografia: Kusuda Hiroyuki

Musiche per jōruri: Nozawa Matsunosuke

Musiche per nagauta: Kineya Rokusaemon

Con: Tanaka Kinuyo (Orin), Takahashi Teiji (Tatsuhei), Mochizuki Yûko (Tamayan), Ichikawa Danko (Kesakichi), Ogasawara Keiko (Matsu-yan), Miyaguchi Seiji (Matayan), Itô Yûnosuke (Figlio di Matayan),Mitsuda Ken (Teruyan), Eijirō Tōno

Produzione: Shōchiku (Ōfuna)

Durata: 98’

Giappone, 1958

Il romanzo di Fukazawa, che fu un caso letterario nel 1957, riprende l’antica leggenda di Obasute yama, che racconta della pratica, diffusa per istinto di conservazione nei villaggi rurali, di condurre i vecchi, ormai inutili e improduttivi, a morire in alta montagna. Fukazawa, scrittore scomodo, costruisce un’opera impregnata di una sorta di lirismo crudele e disumano, e di un senso di relativismo etico. Nella figura di Orin, nella sua rassegnazione al sacrificio per il bene della comunità, si può vedere quello spirito autenticamente giapponese, che ha portato, per esempio, ai piloti kamikaze della Seconda guerra mondiale. Lo scrittore Itō Sei disse «Il nostro sangue non può che scaldarsi alla lettura di questo romanzo».

Kinoshita opera alcune modifiche rispetto alla narrazione originale. La figura di Orin è vista come una vittima, che subisce passivamente le condizioni avverse, secondo il modello della madre giapponese già delineato dal cineasta in tutta la sua opera. Una donna votata a sacrificarsi per la società, verso la quale il regista prova un sentimento di pietà, assente nel romanzo. Kinoshita reinterpreta anche il personaggio di Shinpei, il figlio di Orin e perfetto chonan (primogenito), rendendolo centrale nella narrazione, e facendolo diventare il proprio portavoce. Attraverso Shinpei, il regista esprime la propria indignazione rispetto alla vicenda: «Che sacrificio imbecille» esclama, in una battuta assente nel romanzo.

Ma il grande lavoro di Kinoshita è quello di trasporre tutto come una rappresentazione di kabuki. Lo stile antinaturalistico di questa forma di teatro tradizionale permette di evitare di mostrare in modo diretto e naturalistico l’orrore della storia. Tutto il film è girato in studio, avvalendosi di gigantesche, e meravigliose, scenografie, trentasei in tutto, e dell’apporto di un compositore di bunraku, per la musica eseguita con lo shamisen, e di un grande maestro di nagauta, la musica di accompagnamento degli spettacoli di kabuki. Il romanzo di Fukazawa viene così rielaborato secondo uno spirito classicista, che ne sottolinea il carattere di finzione. Il risultato è un racconto fantastico, dalla portata filosofica, impregnato di mistero. Ciononostante Kinoshita non riesce a sopprimerne il lirismo crudele, conformandosi in definitiva al suo spirito decadente.

Curiosità

Nel 1983 il regista Imamura Shoei realizzò un altro adattamento dal romanzo di Fukasawa, che ebbe molto successo, vincendo la Palma d’oro al Festival di Cannes. Questa seconda versione è decisamente più esplicita e cruda, e quindi fedele al libro. Kinoshita ebbe modo di criticarla, definendola “pornografica”, per il fatto di mostrare, con compiacimento, tutte le scene sgradevoli che lui aveva preferito omettere.

Esiste anche una terza, molto meno nota, versione, opera del regista sudcoreano Kim Ki-young, dal titolo Goryeo jang (1963). Per concezione quest’ultima si avvicina di più a quella di Imamura.

Kinoshita Keisuke

Uno dei registi classici del cinema giapponese, della generazione di Ichikawa Kon e Kurosawa. La sua carriera procede parallelamente a quella di quest’ultimo, con il quale è stato spesso messo accostato. Entrambi hanno esordito alla regia nel 1943, Kinoshita con Il porto in fiore / Hana saku minato, e Kurosawa con Sugata Sanchirō. Kinoshita firma i suoi grandi capolavori negli anni ’50, dopodichè inizia una fase di declino in cui, per la crisi che investe il cinema, si dedica perlopiù a lavori televisivi. A differenza di Kurosawa non gode di quella popolarità all’estero che avrebbe permesso al collega/rivale di fare film con produzioni straniere (Dersu Uzala, Kagemusha). Per un gioco del destino, i due registi condividono anche l’anno di morte, il 1998.

La produzione cinematografica di Kinoshita, consiste di 47 titoli, di 33 dei quali è anche autore della sceneggiatura, che spaziano tra generi molto diversi, commedie, melodrammi, musical, film di guerra, jidaigeki (film storici). Come Ozu, suo collega alla casa di produzione Shōchiku, il suo cinema tratta principalmente della famiglia giapponese, e della sua dissoluzione. Il suo approccio ai personaggi e alle vicende trattate, è stato definito, dal grande studioso Noël Burch, come quello di un sociologo positivista.

Giampiero Raganelli