Marionette che prendono vita: la magia del jōruri  

joruri1Il ningyō jōruri 人形浄瑠璃 (o jōruri delle marionette) è forse il più raffinato e suggestivo genere teatrale fra quelli sviluppatisi nel periodo Edo.

Popolare quanto il kabuki, ma profondamente diverso, fu concepito e sviluppato come sofisticato intrattenimento per adulti. Le sue radici possono essere fatte risalire agli inizi del XVI° sec. quando menestrelli ciechi (biwa hōshi), che cantavano l’epopea delle grandi battaglie accompagnandosi con una sorta di liuto chiamato biwa, unirono le proprie forze con quelle di burattinai ambulanti che vendevano nelle fiere dei villaggi anche rimedi della medicina popolare. La biwa venne presto sostituita con lo shamisen, ancor oggi lo strumento che crea la tessitura musicale di uno spettacolo di jōruri.

Nello stesso periodo una dama di corte dello shōgun, Ono-no Otsu, fece musicare un dramma per cantastorie risalente al XV° sec., il Jōrurihime  Monogatari (Storia della principessa Jōruri ovvero, in italiano “Puro Cristallo”), particolarmente adatto ad essere declamato sulla musica di shamisen. La combinazione tra suonatori di shamisen, una figura di narratore-cantore e i burattinai ebbe un successo tale da dare il nome a questo nuovo genere teatrale.

Il nome bunraku文楽fu adottato per quest’arte solo nel 1805, quando un impresario chiamato Uemura Bunrakuken (1737-1810) costruì il primo teatro permanente e fondò una compagnia stabile, cui fecero seguito molte altre, soprattutto a Ōsaka, dove esiste ancor oggi il Teatro Nazionale delle Marionette.

Gli spettacoli richiedono una stretta collaborazione da parte del cantore-declamatore (tayū), dei suonatori di shamisen e dei marionettisti. Il cantore non si limita a narrare la storia, ma presta le voci ai vari personaggi. Dal 1705 il marionettista, che prima operava nascosto agli occhi del pubblico, cominciò a manovrare a vista. In seguito all’aumento delle dimensioni delle marionette (ora possono essere alte 120, 130 cm.) e al loro perfezionamento, un solo manipolatore non fu più sufficiente: nel 1734 fu introdotto l’attuale sistema di far muovere le marionette da un gruppo di tre uomini. È un processo complesso e raffinato in cui l’omo-zukai, il manovratore principale, indossa un elegante kimono da cerimonia (il kamishimo) ed opera a viso scoperto, muovendo il corpo, la testa e la mano destra della marionetta (che è in grado anche di muovere gli occhi, le sopracciglia, la mascella e le dita). I suoi due aiutanti sono vestiti di nero e hanno il volto coperto da un cappuccio (come per i servi di scena del kabuki,  chiamati kuroko, lett. “uomo nero”, da kuroi, “nero”, anche in questo caso vi è la convenzione che il pubblico non li veda). Sono lo hidari-zukai, che muove solo il braccio sinistro della marionetta (hidari, “sinistra”), e lo ashi-zukai, che muove i piedi (ashi, “piede, gamba”). I marionettisti devono compiere un apprendistato lungo trent’anni – dieci anni in ognuna di queste posizioni – prima di potersi qualificare come manipolatori maturi. Il risultato straordinario della loro maestria è che sembra che sia la marionetta a trascinarsi dietro i marionettisti sul palcoscenico a mano a mano che vive il suo dramma: a poco a poco, così, le marionette prendono vita in scena, ed il pubblico cede al potere di suggestione di una delle più raffinate espressioni artistiche che la cultura giapponese abbia prodotto. 

Rossella Marangoni

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