La dicotomia tra dovere e sentimento nel teatro di periodo Edo: l’esempio del Chūshingura

L’etica confuciana, soprattutto nel suo sviluppo neoconfuciano, rivestì un ruolo importante nella formazione di un’ideologia di dominio per il bakufu Tokugawa (1603-1868), funzionale alla giustificazione prima e al mantenimento poi (soprattutto con il terzo shōgun, Iemitsu 1623-1651) della propria posizione di potere, ma accanto ad essa resistette una cultura popolare che già prima dell’avvento dei Tokugawa al potere si era vista interessata agli aspetti più vistosi di questo sistema di pensiero  e che venne poi solo superficialmente intaccata dal “discorso” del regime il quale, però, andò penetrando lentamente ma progressivamente, nella mentalità popolare per tutta la durata del periodo, andando a ingrossare quel panorama culturale la cui complessità, fatta di tradizioni e modi di pensiero radicati nello shintō, nei culti ancestrali e nel folclore, è di ardua definizione.

Fra tutte le virtù confuciane, quella che più di ogni altra ha condizionato i rapporti fra gli uomini e ha inciso in profondità nel corso della storia giapponese è senza dubbio la lealtà (cin. zhong, giapp. chū).

Partendo da questo assunto, quello che mi interessa è analizzare come il concetto di lealtà (interpretabile sia come espressione del sistema etico utilizzato dal regime, sia come elemento originale del pensiero autoctono preesistente all’influenza cinese) sia esemplificato al meglio dall’episodio storico conosciuto come Akō gishi jiken   (il caso dei guerrieri giusti di Akō), episodio celeberrimo della storia giapponese conosciuto fuori dal Giappone come “la vendetta dei quarantasette rōnin” e, soprattutto, come questa esemplarità emerga dalla trasfigurazione poetica che ne è stata fatta nel più celebre dramma teatrale ispirato ad esso, il Kanadehon Chūshingura (1748), scritto originariamente per il ningyō jōruri, il teatro delle marionette, e poi riadattato per il kabuki, più funzionale sicuramente – nel gioco spettacolare degli attori e nella ricchezza delle variazioni di messinscena – ad incarnare un ideale (la lealtà) capace di legare profondamente gli uomini, al di là dei confini fra vita e morte.

Lo studioso del confucianesimo giapponese Peter Nosco ha osservato che non esiste miglior indizio circa la penetrazione del confucianesimo nella cultura di periodo Tokugawa che la sua presenza nella letteratura popolare dell’epoca, anche se ciò può apparire sorprendente a coloro che conoscono la sottigliezza del pensiero confuciano. Di questa popolarità non può esserci dubbio. [1]

Che il discorso confuciano fosse stato bene o male introiettato dalla popolazione del periodo Edo, è un dato inconfutabile che trova conferma nella massiccia presenza di elementi facilmente ascrivibili ad esso proprio nella letteratura coeva. Il rapporto (e spesso il conflitto) fra giri (ossia le obbligazioni sociali) e ninjō (ovvero l’insieme dei sentimenti umani, delle passioni, delle inclinazioni personali che animano l’individuo), è uno di questi elementi, e uno dei temi favoriti della letteratura e della drammaturgia dell’epoca.

Il caso del Kanadehon Chūshingura può essere considerato esemplare. Si tratta di un jidaimono, vale a dire di un dramma storico, nel quale la lunghezza e la complessità della sua trama hanno permesso di inserire atti che costituiscono veri e propri sewamono, ossia dei drammi di tipo domestico. Abbiamo quindi in questo testo la confluenza di due diverse concezioni di fare teatro, una legata strettamente alla tradizione del ningyō jōruri precedente alla comparsa di Chikamatsu Monzaemon,1653-1724 (ambientazione in un’epoca lontana, personaggi storici dal comportamento eroico), l’altra derivata dal nuovo corso imposto da Chikamatsu e dall’evoluzione nel gusto del pubblico (ambientazione nella contemporaneità con preoccupazioni di realismo, personaggi di bassa estrazione ma reali e plausibili).

Nel Kanadehon Chūshingura si ha dunque la possibilità di individuare la presenza di un complesso sistema di relazioni giri-ninjō.

Se si analizza infatti il dramma dal punto di vista della relazione giri-ninjō così come può essere isolata in un jidaimono, si ritrova una situazione di conflitto che definiremmo “classica”, legata alla lotta fra le richieste dello stato (o comunque di un’entità politica) e gli affetti familiari o i legami di lealtà nei confronti del proprio signore (come è appunto il caso del Chūshingura). Seguendo questo tipo di analisi, si potrà facilmente individuare nel Chūshingura, come ha fatto Adriana Boscaro, “un ninjō che si legittima in termini di giri, alla fin fine, sostanziato dalla forza di appartenenza al gruppo che i rōnin avevano dimostrato.”[2] Infatti, i vassalli di En’ya Hangan commettono un’azione che va contro le leggi del bakufu (il giri che costituisce l’obbligazione, le norme di comportamento imposte dalle autorità), ma lo fanno in forza del sentimento di lealtà che li lega alla memoria del loro signore (che in questo caso costituisce il ninjō), il sentimento profondo e interiore che sembra legittimare, agli occhi dell’opinione pubblica (vale a dire del pubblico che affollava i teatri per applaudire l’impresa di questi personaggi), il loro comportamento.

Questo per quanto riguarda il senso complessivo del dramma, costituito dall’ideazione della vendetta, dal sacrificio dei singoli personaggi in vista dello scopo da raggiungere e dalla realizzazione dell’impresa.

Se però si applica al dramma la nuova concezione del conflitto concepita da Chikamatsu e dai suoi epigoni, troveremo a confrontarsi l’individuo, con i suoi sentimenti e le sue passioni da un lato e la famiglia (in quanto “mondo” chiuso) e la società dall’altro, con le loro regole che tendono a schiacciare l’individuo e a caricarlo di tensioni. Andrew Gerstle ha analizzato la presenza di queste tensioni nelle tragedie sewamono di Chikamatsu, ma è possibile applicare queste osservazioni anche ad alcuni personaggi del Chūshingura: “Queste opere hanno al centro giovani uomini e donne guidati dalla loro passione che va contro le regole della società, e quasi tutti loro commettono un crimine di qualche genere, come il furto, la fuga, l’adulterio o l’omicidio. La maggior parte di questi personaggi incontra una tragica fine sia per propria mano o per mano della legge.”[3]

Gli uomini e le donne di cui parla Gerstle sono Tokubei e Oharu di Sonezaki shinjū (Doppio suicidio a Sonezaki, 1703) o anche Koharu e Jihei  di Shinjū ten no Amijima (Doppio suicidio celeste a Amijima, 1720), forse  i drammi più celebri di Chikamatsu.

Ma è possibile riferire le stesse osservazioni alla tragica storia d’amore di Kanpei e Okaru nel Chūshingura. L’episodio che li riguarda Anche i due personaggi del Chūshingura sono presi dalla passione che li distrae dai propri doveri: dov’è Kanpei quando il suo signore ha più bisogno di lui? Accanto a Okaru, ad amoreggiare lontano, al di fuori della residenza degli Ashikaga, dove gli eventi stanno precipitando. Anche Kanpei e Okaru sono costretti a fuggire con disonore, e sulla scena la loro fuga è rappresentata proprio attraverso il procedimento classico del michiyuki, come avviene per i personaggi di Chikamatsu. Questa loro fuga non è meno drammatica: alla fine del viaggio per Okaru ci sarà la vendita ad un bordello, per Kanpei ci sarà la morte. Ma sono le motivazioni di fondo ad essere diverse. Se per le coppie sfortunate di Chikamatsu la morte reca con sé la promessa dell’eternità del loro amore nell’altra vita, i due personaggi del Chūshingura sono prima di tutto, è vero, un uomo e una donna innamorati che si trovano schiacciati da un meccanismo più grande di loro, ma sono animati da un ideale altrettanto grande, la lealtà al loro signore, che manifestano ognuno secondo il proprio ruolo e le proprie possibilità. Okaru si sottomette alla decisione dei genitori di venderla (ecco la pietà filiale, virtù confuciana), perché sa che il suo sacrificio aiuterà la causa della vendetta e il riscatto del marito. Kanpei consuma il suo inutile seppuku per riaffermare la propria sincerità, la propria buona fede nel drammatico episodio della morte del suocero di cui è accusato, in un estremo tentativo di recuperare il proprio onore di bushi. Il suo desiderio di partecipare alla vendetta non potrà realizzarsi a causa dell’errore commesso e Kanpei, conoscendo il suo destino, realizza che solo con la morte potrà rimediare all’errore e ritrovare il proprio onore, riacquistando il diritto di essere annoverato nel consesso dei guerrieri leali, nella lista, cioè, dei congiurati.

Altri personaggi del dramma, protagonisti o figure minori, si trovano a dovere affrontare in varia misura il conflitto giri e ninjō. Ognuno testimonia la sua adesione all’ideale supremo di lealtà dalla propria posizione, guerriero, contadino o mercante che sia. Ho analizzato altrove il comportamento di ciascuno.[4] Ma, a mio avviso, vi è una battuta pronunciata da Yuranosuke verso la fine del VII atto del Chūshingura, che ben riassume la dolorosa scelta collettiva compiuta dall’intero gruppo dei vassalli fra il ninjō costituito dagli affetti familiari e il giri, il dovere sentito da tutti come ineluttabile, di vendicare il proprio signore. Le parole del capovassallo sintetizzano come meglio non si potrebbe tutto il coacervo di sentimenti, di passioni, di rabbia trattenuta e di senso del dovere e della dignità personale che anima il gruppo come un sol uomo e, insieme, esprime i sentimenti più intimi dello stesso Yuranosuke:

 

Ecco! Più di quaranta uomini che siamo – abbiamo abbandonato genitori e figli, abbiamo lasciato che le mogli, compagne della nostra vita, lavorassero come prostitute – e tutto questo per vendicare il nostro signore. Dal risveglio e per tutto il giorno, al ricordo del seppuku del nostro signore piangiamo lacrime di dispetto, ci si torcono le cinque viscere e le sei budella![5]  

 

Se questa battuta di Yuranosuke è rivelatrice della determinazione sua e dei suoi uomini a portare avanti la loro scelta di vendetta fino alla fine, non viene trascurata però la serie di sacrifici che questa decisione comporta. Ci trova perciò d’accordo la constatazione di Donald Shively che nessuna opera teatrale illustra meglio del Chūshingura, la capacità di sacrificio e il dramma del conflitto giri-ninjō. Shively afferma che il pubblico dell’epoca simpatizzava per gli eroi e le eroine che soffrivano per le richieste di una disciplina assoluta che inevitabilmente conduceva ad un estremo sacrificio: “Il codice etico era essenziale all’autore di teatro, perché i drammi derivavano la loro qualità drammatica dai conflitti originati dalla determinazione dei personaggi a seguire il codice. La crisi, nel dramma, coinvolgeva i conflitti fra dovere e aspirazioni personali, o fra lealtà e responsabilità filiali. Sacrificare la propria vita era bello perché dimostrava purezza di motivazioni. Nessun dramma illustra questo meglio del Chūshingura in cui quarantasette eroi, nella loro determinata dedizione alla lealtà, compiono innumerevoli sacrifici fino a che, alla fine, senza il minimo rimpianto, danno la loro vita per mantenere questo principio.”[6]

 

Su questo tema vi sarà una conferenza nell’ambito del ciclo Filosofia sui Navigli presso il Ristorante ‘Officina 12’ , Alzaia Naviglio Grande, 12 – Milano

25 marzo, dalle 10.15 alle 12.15

“Il Neoconfucianesimo in Giappone: la dicotomia tra dovere e sentimento nel Teatro del periodo Edo (1603-1868)”

Per informazioni: http//filosofiasuinavigli.wordpress.com

 

Rossella Marangoni

 


[1] P. NOSCO, “Introduction: Neo-Confucianism and Tokugawa Culture” in NOSCO, Peter  (ed.), Confucianism and Tokugawa Culture, Honolulu, Hawai’i University Press, 1997, p. 11.

[2]  BOSCARO, Adriana (a cura di), Letteratura giapponese. I. Dalle origini alle soglie dell’età modena, Torino, Einaudi, 2005, p. 147.

[3]  GERSTLE Andrew C., The Tragic Hero in Japanese Traditional Popular Drama, Venezia, Università Ca’ Foscari, 1998, p. 318.

[4] Un’analisi completa del dramma, anche sotto questo aspetto, l’ho compiuta in Specchio di Edo. Il Kanadehon Chūshingura tra ideologia di potere e cultura popolare, non ancora pubblicato.

[5] Kanadehon Chūshingura 仮名手本忠臣蔵, edizione critica a cura di Hattori Yukio,服部幸雄, Tōkyō, Hakusuisha 白水社, “Kabuki on-stage collection”, 1994 p. 219.

[6] D. SHIVELY, “Tokugawa Plays on Forbidden Topics”, in J. BRANDON (a cura di), Chūshingura: Studies in Kabuki and Puppet Theater, University of Hawaii Press, 1982, pp. 53 e 54.