Kyudo – Alle origini della via del guerriero

Codificato già nel XV secolo, il kyudo o la “Via dell’Arco” è oggi una delle arti marziali tradizionali più emblematiche del Giappone.

Quando si pensa a guerrieri ed arti marziali giapponesi è facile che alla mente salti il nome samurai e la naturale associazione di questi con la sua spada, la katana. Tuttavia è bene sapere che l’identificazione della spada come “l’anima del samurai” nacque specialmente durante il periodo Edo (1603-1868). In epoca antica invece molta importanza veniva data alla “via dell’arco e della freccia” (kyusen no michi), considerate le armi base del guerriero giapponese. In un famoso testo composto intorno al 1120 (fine del periodo Heian), il Konjaku Monogatari, troviamo moltissimi riferimenti al tiro con l’arco nei racconti riguardanti le gesta di guerrieri nipponici.

Con la sua codificazione il kyudo si fece anche rituale e da quel momento l’obiettivo della disciplina fu la ricerca di unità tra lo spirito e la tecnica: né solo virtuosismo pratico né solo forma spirituale, ma una sintesi perfetta dei due.

L‘arciere che si appresta al tiro procede per fasi. Per primo si posiziona in linea col bersaglio, poi assume la corretta postura del busto e del corpo. Mentre con una mano regge l’arco, con l’altra afferra la corda, il tutto mantenendo lo sguardo fisso sul bersaglio. A quel punto il kyudoka (praticante di kyudo) solleva l’arco e tende la corda. Questa fase è particolarmente importante: chiamata nobiai, il praticante cerca di raggiungere la massima estensione orizzontale e verticale del proprio corpo. Se ci riesce la tensione prodotta non è solo fisica ma anche ricca di energia spirituale, in cui il momento di maggiore concentrazione (Yagoro) è anche il momento per scoccare.

Si giunge così alla fase detta hanare, ovvero “rilascio”. Fino a questo punto l’arciere ha saputo estraniarsi dal resto del mondo e concentrarsi solo su di sé, sul proprio arco, sulla freccia e sul bersaglio da colpire. Tuttavia nel momento di massima tensione anche questi elementi diventano altro e abbracciano il “tutto”: l’istante in cui il non-essere tocca l’esistenza in ogni cosa. In quell’attimo lo sgancio avviene quasi involontariamente e le frecce volano a colpire il bersaglio (atari). Al praticante è richiesto di di superare il naturale soliloquio mentale degli attimi precedenti il tiro, in quanto ciò può condizionare l’istante del rilascio e far mancare il bersaglio. Mantenendo invece viva la disciplina e un senso di autocritica, il kyudoka può migliorarsi e mantenersi sulla Via.

Oggi in Giappone, come anche in molte altre parti del Mondo, le persone praticano Kyudo per esercitarsi a dominare il corpo, ricercare la vera natura del sé oltre sistemi ideologici e idee personali, e portarne così i benefici nella vita quotidiana.

Nel kyudo l’esercizio della tecnica si incontra con la conoscenza e cura della spirito, e non deve sorprendere se infatti kyudo e il buddhismo giapponese Zen hanno spesso viaggiato su linee parallele.

Marco Furio Mangani Camilli