I giardini giapponesi: un percorso attraverso questa forma d’arte

Molti studiosi paragonano i giardini giapponesi a dipinti. Questo poiché essi, nella storia e cultura del Giappone, non furono quasi mai dei semplici luoghi da attraversare per giungere a un edificio, e nemmeno furono pensati solo come elementi decorativi della struttura che attorniavano. Essi furono sempre delle vere e proprio opere d’arte da ammirare come quadri, oltre che da sperimentare, vivere.

Questo parallelismo tra un dipinto e un giardino può spingersi ancora più in là se pensiamo alla varietà delle tipologie di strutture che esistono: come l’arte visuale ci stupisce con opere sempre differenti, anche il giardino in Giappone assume diversissime sfaccettature, varie per metodo, per stile, collocazione, tecnica.

Il giardino giapponese ha una profonda relazione con l’edificio che accoglie: quasi sempre queste due strutture non vengono pensate separatamente, ma si completano l’un l’altra. Il giardino è parte della stessa architettura, e l’architettura apre le sue porte al giardino, che si insinua in questa. Non ha una funzione decorativa rispetto all’edificio, né è un luogo che viene utilizzato solo come attraversamento per andare dall’estero all’interno (basti pensare che molti giardini non sono nemmeno attraversabili). Esso è qualcosa da osservare, ammirare, solo alcune volte percorrere. È un luogo  di sentieri da scoprire e che attiva la nostra immaginazione.

Nonostante le tipologie di giardino siano molto differenti tra loro, e facciano riferimento e concezioni e tecniche diverse, è possibile ricondurre questa forma d’arte a un antico modo di pensiero a proposito della natura. Shintoismo e buddhismo zen sono i culti che plasmano la concezione di natura che a sua volta è linfa vitale per le arti sin dalla tradizione. Lo shintoismo vede nelle forme della natura la presenza del sacro, dei kami, e per questo esercita rispetto e venerazione nei confronti di questa. Sin dall’antichità il culto shintoista prevede l’adornare elementi naturali (come ad esempio pietre o alberi) per mettere in evidenza i luoghi di possibile manifestazione della divinità, per ricordare come luogo naturale e entità sacra non si pongano su differenti livelli di realtà, ma siano invece in continuità tra loro. In concreto: la divinità non risiede in un luogo altro rispetto al mondo umano e naturale, ma silenziosamente è presente nel mondo negli elementi che lo compongono. In un modo molto simile, seppur differente, il buddhismo zen vede continuità in tutte le cose: l’uomo deve cercare di non vedersi più come un soggetto astratto dal tutto, ma deve comprendersi come inserito nella realtà delle cose, nella natura in divenire. Non deve mortificarsi, solamente comprendersi come parte di una realtà in cui nessun ente sussiste per se stesso. Nel corso della storia, e ancora oggi, spesso i due culti si sono intrecciati al punto da fondersi: i kami dello shintoismo vengono a volte considerati delle manifestazioni del Buddha.

Il sentimento estetico che si sviluppa da queste premesse va dunque nella direzione dell’apprezzamento e rispetto per ciò che già esiste nel mondo, per la natura che diviene: essa è dimora del sacro, ed è anche ciò che tutti siamo al fondo. È l’accettazione e ammirazione delle cose per come esse sono e si danno, seppur effimere o destinate a perire.

L’arte pone le sue radici in queste concezioni, e nella forma dell’architettura di giardini si concretizza nella valorizzazione degli elementi della natura così per come sono, senza il desiderio di volerli addomesticare o sottomettere. Compito dell’architetto è quello dunque di predisporre un giardino in cui nulla sembri artificiale o posto dall’esterno, ma piuttosto dove gli elementi della natura vengano valorizzati per ciò che sono, poiché detengono una bellezza che non è costruita o creata, ma è scoperta e valorizzata, interpretata. Ciò viene espresso molto bene dallo studioso Teiji Itō nel confrontare un giardino occidentale con uno orientale: in occidente, l’architetto si pone come colui che organizza e plasma la materia, che impone una forma; in oriente, invece, l’ordine è prima percepito e poi accettato. Itō crede dunque che si tratti di scoprire un nuovo tipo di naturalezza: non quella di un paesaggio incontaminato, ma quella che l’artista fa emergere e scopre nella natura attraverso tecniche differenti.

L’arte dei giardini, comunque, non ha interpretazioni univoche: quando ci troviamo di fronte a uno di questi, la nostra immaginazione può vagare, come davanti a un quadro o a un’opera d’arte. Solo, non dovremmo pensare a questo come a un oggetto posto in un museo. Dovremmo invece pensare al giardino come a un insieme di elementi vivi, pulsanti, in trasformazione, in continuità con ciò che lo circonda. Il resto è lasciato agli occhi di chi guarda: questo percorso tra diverse tipologie non vuole quindi essere un modo per fornire un’unica interpretazione a chi legge, ma vuole piuttosto essere un invito e una traccia per chi voglia perdersi in questa meravigliosa forma d’arte.

 

Fonti:

Sophie Walker, Il giardino giapponese

 

a cura di Susanna Legnani