"La luna vista dai maestri della stampa giapponese" in libreria

È disponibile da qualche giorno in libreria il cofanetto "La luna vista dai maestri della stampa giapponese", un volume che offre una selezione di opere dei grandi maestri di arte Ukiyo-e con la luna come figura di rilievo.

All'interno della cultura nipponica, la luna ha sempre avuto un ruolo centrale nell'immaginario collettivo, venendo celebrata da feste e rituali a lei dedicati, e rappresentando un’importante fonte di ispirazione per artisti e poeti. La sua presenza nel cielo notturno scandisce il passaggio dei mesi, e trasforma al tempo stesso l'aspetto dei paesaggi che illumina con luce candida. Tale rilevanza culturale e visiva si riflette potentemente in molti lavori letterari e artistici realizzati in Giappone nel corso dei secoli.

La raccolta include un gran numero di artisti, tra cui Utagawa Hiroshige, Katsushika Hokusai e Utagawa Kunisada. 

Il nuovo progetto editoriale de L’Ippocampo si compone di oltre cento pagine rilegate in un libretto "a fisarmonica", ideale per presentare in modo elegante e accessibile tutte le immagini del volume. L’opera è poi introdotta da un’accurata prefazione, che delinea un profilo della storia della luna nella cultura giapponese, dal X secolo alla prima metà del Novecento.

Le riproduzioni raccolte nel cofanetto offrono così una testimonianza preziosa in merito all'abilità unica dei grandi maestri dell’arte della stampa ukiyo-e: la loro capacità di raffigurare un simbolo poliedrico come la luna all’interno di composizioni visive sempre equilibrate e suggestive.

 


Cinema: “L'innocenza” di Kore-eda disponibile in streaming su NOW

Il film "L'innocenza" del regista giapponese Kore-eda Hirokazu, premiato con la Queer Palm e il premio per la migliore sceneggiatura durante la 76esima edizione del Festival di Cannes è ora disponibile in streaming su NOW per coloro che hanno perso la prima TV su Sky Cinema Due.

Il film racconta la storia di Minato, un bambino di undici anni che comincia a comportarsi in un modo bizzarro agli occhi della madre, una donna vedova costretta a confrontarsi con la dura realtà. Saoir è da sola nella crescita di suo figlio e, dopo aver scoperto che dietro il comportamento bizzarro del bambino si nasconde in realtà il suo insegnante e l’amico Yori, la donna piomba a scuola e pretende di capire dai diretti interessati cosa sta succedendo e perché suo figlio è così strano. La storia si racconta attraverso i punti di vista della madre, del bambino e dell’insegnante e man mano che i dettagli vengono a galla, anche la verità emerge in tutta la sua forza. Come spesso accade nei film del regista, la verità si rivelerà essere ben diversa da quella che Saori credeva.


Letteratura: “Made in Japan. Arte, storie e segreti di una civiltà millenaria”

La recente pubblicazione di Francesco Morena per Giunti Editore “Made in Japan. Arte, storie e segreti di una civiltà millenaria” porta i lettori in un affascinante viaggio nel tempo, nel cuore della cultura giapponese.

L'autore, studioso esperto di arte orientale, guida il lettore attraverso venti capitoli riccamente illustrati, offrendo una prospettiva accessibile sia agli studiosi che ai neofiti desiderosi di esplorare il complesso e affascinante universo giapponese.

L'opera si configura come una preziosa antologia di “pillole” che svelano le vicende, i protagonisti e le eredità che hanno plasmato l’identità culturale del paese, intrecciando la sua storia e l'arte.

“Made in Japan” si rivela così un invito coinvolgente a scoprire la profonda connessione tra passato e presente che anima la millenaria civiltà del Sol Levante.

Informazioni:

Francesco Morena
Giunti Editore, Firenze 2025
pp. 240, € 29

 


FEFF 27: La celebrity giapponese Megumi tra i giudici

Attrice, pop idol, produttrice e imprenditrice di successo, Megumi vanta ben più di settecento mila fan e recentemente ha legato il proprio nome ai fasti della Japan Night dell'ultimo festival di Cannes, evento che verrà portato anche al Far East Film Festival.
«Sono davvero onorata ed entusiasta di far parte della giuria del FEFF - commenta la stessa Megumi - e sono altrettanto entusiasta di portare a Udine, per la prima volta, la mia Japan Night. Cercherò di far conoscere i film e la cultura giapponese a persone di tutto il mondo e, allo stesso tempo, festeggerò la firma di un accordo di coproduzione cinematografica tra Italia e Giappone».

Quando due culture lontane si uniscono attraverso il vetro, progetto “DieXe” a Venezia

Sviluppato dall’architetto giapponese Kengo Kuma in collaborazione con Salviati&Co, il progetto “DieXe” propone un intreccio tra la tradizione vetraia veneziana e l’innovativa estetica giapponese.

Un’opera d’arte in vetro creata dall’architetto segna infatti un nuovo capitolo nel dialogo culturale tra Venezia e il Giappone, unendo le rispettive competenze artigianali in un’iniziativa che celebra sia il passato che il futuro dell’artigianato artistico. Infatti, le due culture, lontane fisicamente, sono in realtà molto vicine nei loro pensieri: entrambe, infatti, valorizzano profondamente la tradizione, pur senza rinunciare all’innovazione. Questo connubio di valori si manifesta attraverso la cura del dettaglio e l’attenzione all'ambiente circostante, elementi che caratterizzano il lavoro sia degli artigiani veneziani che degli artisti giapponesi.

Al centro di “DieXe” vi è l’impiego delle iconiche Briccole veneziane, elementi infrastrutturali capostipiti della laguna, le cui caratteristiche uniche hanno ispirato la creazione di stampi innovativi per il vetro. Questi stampi, a loro volta, hanno arricchito il vetro di Murano di texture raffinate, integrando l’esperienza artigianale con nuove idee e prospettive.


In libreria il romanzo inedito di Fumiko Enchi, Saimu

Un inedito romanzo della scrittrice Fumiko Enchi intitolato Saimu, I colori della nebbia è stato tradotto in italiano da Maria Teresa Orsi e con postfazione di Daniela Moro ed è ora disponibile nelle librerie!

Questo suo nuovo romanzo, mai tradotto finora, è un libro importante: continua e si fa sempre più complessa l'esplorazione del tema della sensualità e spiritualità delle donne. Questa volta la protagonista è Tsutsumi Sano, una scrittrice sessantanovenne, che riceve in dono una speciale pergamena illustrata: Fumiko Enchi riesce attraverso la sua lingua e ai suoi personaggi a raccontare le infinite stratificazioni del desiderio e del potere femminile.

Fumiko Enchi è stata un’acclamata sceneggiatrice e scrittrice, tra le più importanti voci femminili giapponesi del periodo Shōwa. Celebre per la sua profonda indagine sulla condizione delle donne nella società giapponese, nonché sulla sessualità, il desiderio e la psicologia femminile, è stata la prima donna a vincere il prestigioso premio Noma.

 


Due film per ricordare Masahiro Shinoda: Under The Blossoming Cherry Trees (1975) e Demon Pond (1979)

di Marcella Leonardi

 

Lo scorso 25 Marzo ci ha lasciati il regista e sceneggiatore giapponese Masahiro Shinoda, tra i più grandi autori - insieme a Nagisa Ōshima, Seijun Suzuki e Shōhei Imamura, tra gli altri - della  Nūberu bāgu (Nouvelle Vague) giapponese. Lo ricordiamo con due tra i suoi titoli più affascinanti.

Le recensioni sono tratte dal blog di cinema giapponese classico e contemporaneo NUBI FLUTTUANTI

 

UNDER THE BLOSSOMING CHERRY TREES (Sakura no mori no mankai no shita, 1975)

Un rozzo montanaro uccide le sue sei mogli per assecondare una donna affascinante che ha catturato. Man mano che il tempo passa, l’uomo si spinge a compiere crimini sempre più efferati per compiacere la sua nuova moglie, creatura sadica e necrofila.

Scritto nel 1947, all’indomani della Seconda guerra mondiale, in un paese prostrato e ridotto a sentimenti primordiali e violenti (scrisse Ozu nel 1951: “Mi dispiace, non riesco più a sentire lo stesso affetto (…). In passato quelle persone non erano senza cuore così come sono oggi”), il racconto di Sakaguchi Ango mette in scena una vicenda agghiacciante, in cui i confini tra sogno e incubo, bellezza e orrore sono labili e sfuggenti come il vento gelido che spira tra i fiori di ciliegio. Petali di sovrumana bellezza si moltiplicano sugli alberi e creano un sovraccarico sensoriale – di colori, profumi, di un delicato stormire tra i rami – che diviene per l’essere umano qualcosa di minaccioso e inspiegabile. Sakaguchi animava le sue foreste di uno spirito malvagio quanto magnifico e vago, simile a una presenza femminile di inusitata crudeltà e leggiadria, capace di liberare un desiderio pulsionale in chiunque la ammirasse. Nel racconto, il rude montanaro protagonista resta schiavo di un incanto che lo trascina nel più profondo abominio: la donna da lui catturata e presa in moglie è seducente come ciliegi in fiore, ma dominata dalla follia. Per lei, il montanaro ucciderà le sue mogli, taglierà teste, si piegherà alla vanità della donna e alle sue voglie perverse.

Masahiro Shinoda, studioso e appassionato di letteratura, profondamente interessato a trasporre forme e strutture letterarie in immagini – alla ricerca di un nuovo emerso dalle ceneri dei linguaggi tradizionali – si avvicina al racconto di Sakaguchi con rispetto, riproducendone la sequenza di eventi così come i dialoghi e le perturbanti atmosfere, frutto della psiche alterata dei protagonisti. Ma là dove Sakaguchi si prodigava in descrizioni minuziose, facendo della parola uno strumento affilato e innocente, usato nella sua nuda evidenza per mettere in scena l’orrore e la malattia insiti nell’esistenza umana, Shinoda consegna all’immagine il carico di significanza delle dense pagine dello scrittore.
Per questo motivo le sue inquadrature sono profonde e stratificate: all’interno dell’immagine lo spettatore può “muoversi” tra molteplici informazioni, soffermarsi su oggetti e indizi in avampiano, lasciar scorrere lo sguardo ai margini (spazio prediletto da Shinoda per collocarvi la presenza umana), fino a cogliere le microstorie sullo sfondo (un gatto, un personaggio, una finestra/palcoscenico sul mondo).

La bellezza della visione di Shinoda risiede in questo atto di trasformazione della pagina in una immagine/microcosmo di qualità tridimensionale. Emerge la sua ammirazione per Orson Welles, che ne influenza la scomposizione dell’inquadratura in una pluriformità esplorata da una regia osservatrice e testimone della degenerazione dell’essere umano.
Occhio voyeuristico, analitico, non di rado morboso, la macchina da presa “emotiva e pensante” di Shinoda si sofferma sul corpo della donna (la musa Shima Iwashita), ne ammira con voluttà la pelle diafana e le labbra carnose. In una scena ne spia i giochi erotici perversi con una passione feticista che è la medesima del protagonista: Shinoda indugia sui seni, sulla bocca, sui piedi pallidi e delicati capaci di scatenare l’irrazionale bramosia del marito. La densa atmosfera erotica che satura le scene è indissolubilmente legata a un sentimento di repulsione e disprezzo e l’inquietudine è accentuata dalle note dissonanti del grande compositore Tōru Takemitsu, che sollecita un continuo ritorno del rimosso sovvertendo canoni tradizionali e melodie, a favore di composizioni disarmoniche e sperimentali.

Mondo di sofferenza, eppure i ciliegi sono in fiore”: dalle immagini di Shinoda spira la stessa triste e crudele poesia dei versi di Kobayashi Issa (小林一茶, 1763–1828), l’orrore nei confronti di una bellezza corrotta dal male e dagli istinti. Si avverte una riflessione altra, un pensiero per un Paese che fonda la sua cultura su un’estetica squisita, di impalpabile grazia, ma cova un destino di violenza antropologica. La foresta di ciliegi in fiore osserva il male dell’uomo e lo investe del suo potere e del suo monito: la dissoluzione, con i corpi dei due amanti fagocitati in un nulla che diviene petalo soffiato dal vento.
Così come Shinoda, anche Kiyoshi Kurosawa in Charisma o Ryūsuke Hamaguchi in Il male non esiste ci raccontano di una natura aliena e gelida, dotata di un proprio “istinto” e sprezzante delle macabre miserie umane.

 

DEMON POND (Yasha-ga-ike, 1979)

L’insegnante Yamasawa si reca in un villaggio colpito dalla siccità alla ricerca dell’amico scomparso Hagiwara. Scopre che questi si nasconde lì e ha sposato Yuri, un’affascinante donna locale il cui destino è intrecciato con la campana del villaggio. La leggenda vuole che la campana debba essere suonata tre volte al giorno, altrimenti il Demone Drago si libererà.

Regista di punta della Nūberu bāgu, la “nuova onda” rivoluzionaria degli anni ’60, Masahiro Shinoda è ancora molto attivo negli anni ’70, un periodo fertile per la sua ispirazione fuori dal comune. Studioso di teatro classico, attratto dagli stilemi del teatro Kabuki (che così spesso ha incrociato le proprie forme con quelle cinematografiche), il regista porta a compimento, con Demon Pond, una sintesi tra la sua naturale e irriducibile propensione a un cinema “futuro” e la fascinazione nei confronti di miti e leggende tradizionali.
Tratto dall’omonima piéce di Kyōka Izumi (1913), Demon Pond allo stesso tempo esalta e nega la sua origine teatrale: Shinoda ricostruisce boschi, fiori e paesaggi in studio, mentre i cromatismi e l’uso della luce, profondamente anti-naturalistici, concorrono alla creazione di un contesto stilizzato in cui gli attori lavorano sulla gestualità rituale del corpo. Rispettando i severi dettami del Kabuki, Shinoda affida a Bandō Tamasaburō V, tra i più celebri e venerati onnagata (attore kabuki specializzato in personaggi femminili) il ruolo di Yuri/Principessa Sharayuki; e aderisce con serietà allo spirito dell’opera originale, dando vita a un dramma magico e suggestivo, al contempo raffinatissimo e popolare. Scenografie variopinte fanno da sfondo a conflitti di personaggi dal segno emotivo opposto, abbigliati in costumi tradizionali e fantastici; su tutti, trionfa la carismatica presenza di Bandō, nei cui gesti si realizza l’enigma di un femminile idealizzato e spirituale. Demone/donna di grazia irraggiungibile, l’attore materializza carnalmente i volti dipinti dall’arte Ukiyo-e; la macchina da presa lo accarezza delicatamente in primissimi piani soffusi di luce, quasi si accostasse a un mistero divino.

Ma se la messa in scena di Demon Pond è una resa alla bellezza dell’archetipo teatrale, ai suoi fondali dipinti, a uno spazio astratto di intensa sensorialità (ricco di colori, materiali, profumi, elementi primari), la regia cinematografica di Shinoda interviene a scomporne la classicità, all’insegna di una nuova esperienza percettiva.
Con una lucida operazione di distanziamento dai codici, Shinoda spezza la struttura tradizionale e interferisce con soggettive, campi lunghissimi alternati a primi piani, e soprattutto un montaggio irregolare e anti-armonico. I personaggi maschili appaiono sghembi, irrisolti, animati da una modernità che li confonde e li spinge ai margini del “fantastico”, quel regno dell’estraneo e del fiabesco in cui la figura umana è un corpo estraneo. Il bosco, animista e carico di presenze sfuggenti, è folcloristico e “falso” alla maniera di Kinoshita (evidenti i richiami alla messa in scena de La Ballata di Narayama, 1958, con i suoi paesaggi saturi); ma Shinoda esercita uno sperimentalismo profondamente diverso dalla passione di Kinoshita per le possibilità del mezzo-cinema, rivelando un occhio più severo, politico nel rielaborare il passato.

La brutalità dei suoi zoom, la consapevole contrapposizione tra l’immagine e il suo doppio (il riflesso nell’acqua), l’uso espressivo delle dissolvenze incrociate sembrano separare in modo netto il Giappone contemporaneo dalle sue proiezioni fantastiche e immaginarie. Quando il volto della Principessa Shirayuki sparisce “assorbito” dal tronco dell’albero, o ancor di più nella strabiliante sequenza dell’ascensione, in cui Shinoda mette in atto la più sfrenata visionarietà, lo spettatore diviene partecipe di una riflessione estetica non dissimile da quelle espresse da Toshio Matsumoto o Shūji Terayama (originariamente collaboratore di Shinoda). Il regista sollecita, con le sue immagini multisensoriali e stratificate, una sorta di “risveglio surrealista”: Demon Pond è cinema che taglia, scruta, sfiora la materia viva della leggenda, giungendo a interrogarsi su un presente privato del conforto dell’epica.

 

[Marcella Leonardi è critica cinematografica e docente. Da sempre appassionata di cinema, ha collaborato con varie testate tra cui Sonatine, Cinefilia Ritrovata, Nocturno e Otto e mezzo. Da alcuni anni si dedica prevalentemente al cinema giapponese.]


Muovere i primi passi nel mondo della lingua giapponese

Bene, ora che vi ho convinto a iniziare a studiare il giapponese illustrandovi gli aspetti più facili della lingua nel precedente articolo (che potete trovare qui), andiamo a vedere assieme come muovere i primi passi in questo mondo magico. In altre parole, da dove si parte?

Ecco cinque step da seguire per iniziare a studiare il giapponese con metodo:

 

  • Hiragana & Katakana

Il sistema di scrittura giapponese è fondamentalmente composto da tre parti: due alfabeti sillabici e i famigerati caratteri derivanti dal cinese. Andiamo a vedere più in dettaglio con la frase d’esempio qui sotto:

ローマきます

Watashi wa Roma he ikimasu.

Le parti scritte in blu sono scritte in kanji, quelle scritte in verde in hiragana e quelle scritte in rosso in katakana. Hiragana e katakana sono quelli che abbiamo precedentemente definito come alfabeti sillabici. Ma cos’è un alfabeto sillabico innanzitutto? E’ un alfabeto composto da lettere che, al posto di rappresentare un singolo suono, rappresentano quello di una sillaba, solitamente composta da una consonante e una vocale. L’hiragana (in verde) è quello che tra i due viene utilizzato più frequentemente, in particolare per scrivere le desinenze dei verbi e le particelle. Il katakana (in rosso), invece, viene utilizzato principalmente per le parole di derivazione straniera.

Il primo e indispensabile passo per apprendere il giapponese seguendo un percorso ben strutturato, è quello di partire dallo studio dei due sistemi di scrittura dei kana: hiragana e katakana. Partire da qui è fondamentale per rendersi conto della presenza di quei lati della lingua che divergono dalla pronuncia italiana, come per esempio gli allungamenti delle vocali, per poi acquisirli.

 

  • Saluti ed espressioni comuni

Una volta appresa la parte alla base del sistema di scrittura si può passare a imparare saluti ed espressioni comuni frequentemente utilizzate, come per esempio: “Buongiorno”, “Grazie”, “Arrivederci”, “Buon appetito”, ecc.

Vi stupirete di quanto queste espressioni non siano scontate! Infatti, spesso, anche se esiste un corrispettivo della stessa espressione in italiano, magari quella giapponese viene utilizzata in un contesto simile, ma leggermente diverso. Oppure, presumendo semplicemente che quella parola sia la diretta traduzione di quella in italiano, si vanno a perdere rilevanti sfumature di significato.

Prendiamo per esempio l’espressione いただきます (itadakimasu). Questa parola potrebbe essere superficialmente tradotta come “Buon appetito”. Tuttavia, se ci si ferma qui, si rischia di incappare nell’errore di rivolgere questa parola ad altri commensali, come faremmo in italiano. La chiave per comprendere perché sia sbagliato utilizzarla in questo modo risiede nel significato letterale della parola. いただきます infatti non ha un significato nemmeno lontanamente simile a “buon appetito”, si tratta della forma più cortese del verbo “ricevere”, perciò possiamo dire che equivalga all’italiano: “ricevo umilmente”. Questa espressione nello specifico viene, quindi, utilizzata per dimostrare la gratitudine nei confronti del cibo che si sta per consumare e anche alle persone che hanno contribuito alla creazione di tale pietanza.

 

  • Grammatica di base

Una volta studiati i saluti e le altre varie espressioni, si può iniziare a imparare le strutture grammaticali di base della lingua. Da questo punto si può procedere in due modi diversi in base al fatto che ci si voglia affidare alla guida di un insegnante oppure no.

Farsi affiancare da un insegnante è sicuramente molto comodo e permette di concentrarsi esclusivamente sullo studio della lingua anziché preoccuparsi di come procedere. Inoltre, un insegnante potrebbe anche andare a colmare le eventuali lacune del libro di testo o adattare la spiegazione a ciascun alunno in modo tale che il concetto da apprendere risulti il più comprensibile possibile.

Il secondo metodo è quello da autodidatta, quindi quello di dedicarsi, in modo indipendente, allo studio della lingua. Ovviamente non è impossibile, anche se è normale dover affrontare qualche difficoltà in più rispetto a un percorso con un insegnante. Detto questo, ho qualche consiglio anche per te che hai deciso di affrontare questo viaggio da autodidatta. La prima cosa che mi sento di consigliarti, innanzitutto, è quella di dedicarti a un singolo libro di testo. Può sembrare un consiglio scontato, ma spesso potremmo essere attratti dall'acquisto di nuove risorse - come libri, app e iscrizioni a siti vari - perché magari le vediamo utilizzate e consigliate da qualcuno che è più avanti nel percorso di studi rispetto a noi. Tuttavia avere una moltitudine di risorse a mio avviso non fa altro che farci deviare dal percorso che già avevamo intrapreso, facendoci sentire sopraffatti dalla quantità di conoscenza che dobbiamo acquisire e dallo studio che ne consegue. In sintesi, quando ci si approccia per la prima volta alla lingua penso che sia ideale scegliere un singolo libro e concentrarsi a completarlo.

Rimane, dunque, un’ultima domanda a cui rispondere: che tipo di libro usare? I libri di testo principalmente utilizzati e consigliati per qualcuno che inizia da zero sono i seguenti:

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  • Minna no Nihongo (a sx)
  • Genki (in centro)
  • Tobira Beginning (a dx)

Il Minna no Nihongo, essendo un libro completamente in giapponese, potrebbe essere un po’ difficile da approcciare da un principiante autodidatta, tuttavia dispone di un ulteriore volume (acquistabile a parte) con le spiegazioni grammaticali approfondite e le traduzioni. Alcuni punti a favore di questo libro sono che il volume con le spiegazioni è disponibile in diverse lingue tra cui anche l’italiano e che dispone di numerosi esercizi per far pratica di ciò che si è appreso.

Il Genki è considerato come un libro facilmente approcciabile dai principianti. La difficoltà delle lezioni aumenta progressivamente, nel libro principale sono contenute già le spiegazioni grammaticali, seppur concise e in inglese, e dispone di un workbook con esercizi basati su ciò che viene studiato nel libro. Quest’ultimo, come anche il precedente, seppur un po’ più completo è comunque stato pensato per essere utilizzato affiancato alle spiegazioni di un insegnante quindi spesso non è consigliato agli autodidatti. Su questo punto, tuttavia, mi sento di dissentire dal momento che online esistono moltissimi materiali gratuiti che possono andare a colmare questa lacuna. 

L’ultimo libro, Tobira, a mio parere è quello più versato allo studio da autodidatta in quanto dispone di spiegazioni molto dettagliate sia per quanto riguarda il sistema di scrittura, sia per quanto riguarda la grammatica. Inoltre, include anche la presentazione e lo studio dei kanji alla fine di ogni capitolo. Il libro dispone anche di due workbook, uno dedicato alla grammatica e ai vocaboli e l’altro ai kanji e alla composizione scritta. L’unico punto negativo di questo libro, per uno studente autodidatta, è la difficoltà nel ricevere un feedback su esercizi come la stesura di un breve paragrafo di testo.

 

  • Vocaboli & Kanji

Conoscere la grammatica senza conoscere un determinato numero di vocaboli è come avere una macchina, ma non la benzina per farla muovere! Perciò il prossimo step è proprio quello di iniziare a creare e ampliare il proprio vocabolario.

Per fare ciò, basta studiare i vocaboli che compaiono nelle conversazioni dei vari capitoli del libro di testo con i rispettivi kanji. Per quanto riguarda il metodo di studio, quello che consiglio di fare è di studiare attraverso l’uso di flashcards. Ma come utilizzarle?

Il primo step, se già non avete un mazzo pronto, è ovviamente quello di crearlo. Da un lato della carta andremo a scrivere la parola in italiano, mentre dall’altro la parola in giapponese in kanji, con la relativa lettura in hiragana. Una volta ultimata la creazione del mazzo di carte possiamo iniziare a studiare. Lasciando il lato con la traduzione in italiano girato verso di noi, cerchiamo di ricordare l’equivalente giapponese e lo scriviamo su un foglio (in hiragana o in kanji se stiamo studiando anche quelli). Infine girando la carta verifichiamo la correttezza della risposta che abbiamo scritto.

Prima di iniziare a studiare i kanji, consiglio di imparare a comprendere la loro origine, oltre a come funzionano e la ragione per cui hanno più di una lettura ciascuno. Questa fase preliminare sicuramente vi aiuterà a procedere più fluidamente nell’apprendimento di questi caratteri. Senza dubbio all’inizio risulterà impegnativo ricordarsi come si scrivono o come si leggono, ma più li si ripete più rimarranno impressi nella memoria.

 

  • Fare tanti esercizi di output

Infine, per fare in modo che la conoscenza della lingua appresa attraverso le attività descritte nei punti precedenti non resti latente, è importantissimo fare tanti esercizi di output, ovvero esercizi che ci spingono a usare attivamente la lingua. Creare frasi con un determinato punto grammaticale, scrivere un paragrafo di testo riguardo a un particolare tema, cercare di utilizzare la lingua che si studia quando si parla da soli e tenere un diario, sono solo alcuni esempi di esercizi di output.

Ovviamente anche fare esercizi di input, ovvero esercizi in cui semplicemente dobbiamo coniugare il verbo o inserire una parola, è importante a suo modo, ma non aiuta effettivamente a essere in grado di produrre frasi da zero e quindi a utilizzare la lingua.

 

Bene, detto questo, spero che abbiate un’idea più chiara da dove iniziare ad apprendere questa magica e meravigliosa lingua!

 

 

Testo originale scritto da @redhead.sensei


Nuova apertura: Café Kitsuné, il popolare brand franco-giapponese apre a Milano

Nato 12 anni fa come naturale estensione dell’universo Maison Kitsuné - marchio di mods, etichetta discografica e galleria d'arte fondata a Parigi nel 2002 da Gildas Loaëc e Masaya Kuroki - Café Kitsuné è oggi una catena di caffetterie e ristoranti che opera in tutto il mondo. Il progetto unisce l’arte della torrefazione alla cultura dell’ospitalità, proponendo un’esperienza che fonde il minimalismo giapponese con l’energia dei caffè parigini. L’idea alla base è infatti creare un’esperienza che mescola lifestyle, design e gastronomia, che celebri il piacere di sorseggiare un caffè di qualità in ambienti che uniscono modernità e atmosfera cosmopolita.

Con una selezione di specialty coffee, dolci, torte e pasticcini ispirati alla tradizione francese e giapponese e un’estetica curata nei minimi dettagli, il brand ha rapidamente guadagnato popolarità e conquistato un ampio e fidelizzato pubblico. C’è da dire che Café Kitsuné non è solo un brand legato al caffè, ma anche una torrefazione. Nei suoi laboratori dedicati, che loro chiamano 'atelier di torrefazione', come quello di Vertbois a Parigi e di Okayama in Giappone, i chicchi vengono selezionati con cura e lavorati per esaltare ogni sfumatura aromatica, creando le miscele che poi vengono servite nelle caffetterie della maison. Oltre al caffè preparato al momento, il brand offre anche confezioni di chicchi tostati disponibili per l’acquisto.

Il celebre café si espande con il suo primo negozio in Italia, situato all'interno del Palazzo Cordusio. L'apertura è prevista per i primi giorni di Aprile.


"Ikigai: una fusione di costumi sardi e kimono"

Un ponte tra Sardegna e Giappone, uniti dalla moda e dall’arte della calligrafia. Questa l’ultima idea dello stilista quarantunenne cagliaritano Filippo Grandulli, da cui è nata la sua ultima collezione, in collaborazione con l’artista giapponese Tontoku Amagai, conosciuta in tutto il mondo. L’ha chiamata Ikigai, la sua ultima collezione, una parola nipponica che vuol dire un concetto: «La ragione di esistere, quell’impulso che ci spinge a trovare la bellezza e la realizzazione nella quotidianità», racconta entusiasta.

Gli abiti, applauditissimi all’ultima Fashion Week di Parigi, uniscono i costumi sardi con i kimono, cambiando, destrutturando: «La collaborazione con Tontoku Amagai è nata grazie ai social. Ho visto il suo profilo, con gradi tocchi di pennello crea magie».

Dopo il successo della sua precedente collaborazione con il fotografo giapponese SAI, che ha visto i suoi scatti di una Tokyo notturna e post pioggia trasformarsi in stampe su seta, Grandulli continua così ad approfondire il legame con il Sol Levante.

Con gli ideogrammi giapponesi Tontoku Amagai ha scritto concetti profondi e che arrivano a tutti: “amore”, “forza”, “benedizione”, “buon auspicio”, e tanti altri. «Vado in Giappone una volta l’anno, per me è una boccata d’aria, lì ho sempre trovato spirito di collaborazione ed entusiasmo. È una terra dove il bello si rivela nell’inaspettato, come un tempio dentro un grattacielo. Mi ha colpito il rispetto degli altri, un valore che sento in comune tra noi. C’è un legame speciale tra Sardegna e Giappone, siamo anche due blue zone, cioè due luoghi importanti per la longevità, con centenari da record».

Le foto degli abiti sono veri ritratti, opere di Daniele Coppi, curatore dell’immagine del marchio di Grandulli, e suo compagno di vita. Tontoku Amagai tiene mostre a New York e Madrid, e questa volta ha creato tre opere inedite, trasformate in stampe su tessuti. Anche i materiali non sono lasciati al caso: «Abbiamo scelto un tessuto leggerissimo, trattato con un effetto stropicciato, che ricorda davvero la carta alla vista e al tatt».

Gli abiti, spiega Grandulli, «reinterpretano alcuni volumi della tradizione sarda, l’abbondanza della gonna, la geometria della camicia, e li fondono con l’armonia minimalista giapponese».

Lui ha scelto una carriera in Sardegna, ormai da diversi anni. «Qui sento di poter dedicarmi con più calma e dedizione ai lavori che amo fare, la Sardegna regala tempo. Volevo fare lo stilista fin da bambino, sognavo abiti guardando un pezzo di stoffa». Ora la sua nuova collezione girerà il mondo mentre lui punta al prossimo obiettivo: «Incontrerò Tontoku presto in Giappone, e creeremo ancora insieme».