ANTI-OGGETTO: Kengo Kuma e il Teatro Nō nella foresta

Il terzo articolo della serie “La percezione dello spazio nella visione degli artisti giapponesi contemporanei” prende in considerazione il teatro Nō nella foresta dell’architetto Kengo Kuma.
Questo teatro è collocato nella città di Toyoma, nella prefettura di Miyagi. Non si trova all’interno di un edificio, ma è stato pensato sin dall’inizio per essere una struttura aperta, collocata nella foresta. Toyoma è una piccola città dalle diverse tradizioni, tra cui quella di avere uno stile particolare di esecuzione del Nō. Nonostante ciò, la città non ebbe un teatro adibito a questo tipo di spettacoli fino a che Kengo Kuma non decise di intraprendere il progetto nel 1996.

Per parlare di questa architettura è bene affidarsi a uno dei saggi di Kengo Kuma in merito alla sua poetica costruttiva: Anti-object, ovvero “anti-oggetto”. Cosa significano queste parole apparentemente complesse? Anti-oggetto come architettura che non si pone estranea rispetto a quello che la circonda. In ciò viene evitata sia l’opposizione tra osservatore e oggetto osservato, sia quella di oggetto tra oggetti. Nella contemporaneità ci si occupa spesso di erigere edifici considerandoli esattamente come oggetti, entità chiuse, separate da tutto il resto. È a volte assente un progetto che possa tenere conto delle caratteristiche dello spazio in cui la costruzione sorgerà. Questa dovrebbe mantenere un legame con i luoghi aperti: non va più trascurato il design di questi ultimi. Si vedrà nei paragrafi successivi un ulteriore significato che Kengo Kuma associa ad “anti-oggetto”: ciò che egli chiama “minimisation” (che spiega non essere minimalismo), un venir meno della materia.

Kengo Kuma scrive come in questo progetto «our goal was neither an object nor a building, but rather a garden in which three floor surfaces are carefully placed in a natural environment» (il nostro obiettivo non era né un oggetto né un edificio, ma piuttosto un giardino in cui tre superfici pavimentali sono accuratamente collocate in un ambiente naturale).

Il Nō è una forma teatrale sorta all’incirca nel XIV sec. in Giappone. È una disciplina artistica che è legata alla religione shintoista e implicitamente restituisce dei significati estetici che sono stati codificati nella modernità. “Yūgen” è un’esperienza estetica di difficile traduzione concettuale, che viene associata alle performance di Nō: questo termine viene spesso tradotto con “misteriosa profondità”. Questo sentire estetico porta a comprendere ancor meglio la scelta che è stata fatta a proposito del luogo in cui collocare il teatro di Kengo Kuma: la foresta. In ambito shintoista il luogo naturale incontaminato, non raggiunto dall’uomo, è spazio in cui la divinità si manifesta. In tal senso è bene menzionare il significato di oku, il quale fa a sua volta riferimento ad altri termini che rappresentano opposizioni. Nigi e ara rappresentano ciò che è toccato dall’uomo, costruito, rispetto al selvatico, mentre omote e ura hanno significati rispettivamente di superficie, esterno e interno. Oku, infine, fa riferimento a una profondità, spazio nascosto, intimo. Questo però non deve confondere: se pensando ad una abitazione oku può essere considerato lo spazio più interno e celato, nel caso del luogo di manifestazione del kami esso coincide sia con uno spazio nascosto sia con uno spazio inaccessibile: la natura dunque, in questo caso la foresta.

Il palco del teatro Nō è una finestra sul regno degli spiriti. L’equilibrio che si stabilisce è questo: il palco principale, chiamato butai, è cornice del mondo della morte, dello spirituale; il pavimento chiamato kenjo è il mondo dei vivi, dove siedono gli spettatori; di mezzo un passaggio, un tratto tra le due parti chiamato shirasu. Le strutture sono ben orientate verso la terra e non hanno alcuna propensione alla verticalità, sono completamente aperte alla foresta, non vi è alcun edificio a separarle da quest’ultima, dunque le persone possono accedervi in ogni momento, proprio come in un santuario shintoista. Le superfici sono in legno, esattamente come gli alberi intorno. Così Kengo Kuma si concentra su un design dello spazio aperto invece che sull’edificio come oggetto, e infatti scrive: «By opening up the space to the natural environment, I was able to dissolve the rigid framework of architecture» (attraverso l’apertura dello spazio all’ambiente naturale, sono stato in grado di dissolvere la rigida struttura dell’architettura).

Il bosco fa da sfondo al teatro, costruzione svuotata, con strutture semplici, cornice rispetto al paesaggio e a un mondo altro. Si vuole incorniciare con le strutture costruite sia il mondo spirituale che viene a presenza durante la celebrazione, sia il paesaggio oscuro circostante, che è sempre luogo in cui lo spirituale si cela. La foresta si perde nell’ombra, l’architetto spiega come essa suggerisca una «distanza eterna» che nessun oggetto può catturare. Kengo Kuma esplicita come il suo intento fosse quello di «Reduce the materiality of the stage until it approached the condition of an immaterial frame – ideally, a single thin floor floating over the shirasu» (ridurre la materialità del palco fino ad avvicinarlo alla condizione di una cornice immateriale – idealmente, un unico pavimento sottile che galleggia sopra lo shirasu).

Il materiale prevalente nella costruzione è il legno, utilizzato sia per il butai che per il kenjo. Per quanto riguarda il tratto mediano, ovvero lo shirasu, Kengo Kuma utilizza un materiale particolare. Egli nel suo saggio spiega come solitamente in questi tipi di teatro questa parte sia formata da ciottoli bianchi: ciò anche a indicare l’elemento dell’acqua, come segno di purificazione nel passaggio da un mondo a un altro. Tuttavia, l’architetto decide di utilizzare della pietra nera del luogo, affinché si armonizzi con l’oscurità che prevale nell’intreccio di rami e foglie della foresta. Lo shirasu va allora ad assomigliare ancora all’acqua, ma nella sua profondità. Ancora il focus si pone sul nascondimento, sull’impossibilità di identificazione e resa a oggetto. Il teatro Nō è un microcosmo in continuità con la stessa foresta e realtà quotidiana.

Kengo Kuma fa, in conclusione, un paragone molto interessante: anche nella stessa performance di Nō la materia viene ridotta fino quasi ad essere eliminata, poiché viene reso possibile l’andare e venire tra il mondo della quotidianità e quello degli spiriti. Allo stesso modo, le strutture dell’architettura sono semplici, sottili, dello stesso materiale che il paesaggio circostante offre, caratteristica che li porta ancor di più a farsi trasparenti: mentre le travi di legno richiamano i tronchi degli alberi, il materiale di cui è composto lo shirasu ricorda l’oscurità della foresta, il suo segreto.
Una materia, dunque, che non scompare ma diviene quasi fluida, si mescola a ciò che la circonda, rifugge la denominazione di oggetto, si disperde nel tempo.

Conclude il saggio con questa frase: «The result will be the emergence of something that is not so much architecture as landscape» (il risultato sarà l’emergere di qualcosa che non è tanto architettura quanto paesaggio).

 

 

 

Susanna Legnani