Uno sguardo al primo Japan Film Festival Online

Organizzato dalla Japan Foundation in collaborazione con le varie sedi estere, tra cui l’Istituto Giapponese di Cultura in Roma è stato presentato in 20 paesi del mondo il primo festival di cinema giapponese online: il Japan Film Festival Plus.

Il JFF è stato ideato per promuovere il cinema giapponese nel mondo e faceva parte di un progetto, “Japanese Film Anytime, Anywhere”, inizialmente avviato nel 2016 in alcuni paesi asiatici e in Australia, per poi raggiungere progressivamente Cina, Russia e India, con l’intento di presentare le più recenti uscite cinematografiche giapponesi.

Nel 2019/20 è stato proposto in 56 città di 12 diversi paesi, registrando oltre 170.000 spettatori.

Quest’anno, dovendo far fronte all’emergenza sanitaria globale, la Japan Foundation ne ha promosso una versione online, definita Plus, per una condivisione in streaming dell’evento in ben cinque continenti.

La versione “Plus” è stata una raccolta di contenuti di vario genere, tra cui lungometraggi, video-interviste ai registi, articoli di approfondimento e corti d’animazione, poi trasmessi sulla piattaforma del festival dal 26 febbraio al 7 marzo.

I 30 titoli, che spaziavano dal thriller alla commedia, dagli anni ’50 alle ultime uscite, erano disponibili in streaming gratuito previa registrazione per un tempo limitato di 24 ore da quella di proiezione, scaglionata in tre turni mattutini: 9.00/11.00/13.00. Una volta scaduto il tempo di visione, si rendevano disponibili i film successivi, con una media di tre al giorno.

Numerose sono state le tematiche trattate, sia proprie della cultura e della società giapponesi sia riflessioni di carattere universale, ad esempio l’amore, in tutte le sue forme.

Una menzione particolare meritano i cortometraggi in Stop Motion di Yashiro Takeshi, un professionista di questa tecnica di animazione, che hanno ritratto le avventure di Norman e il suo pupazzo di neve e di una piccola e generosa volpe di nome Kon.

Una bellissima iniziativa, insomma, che ha attirato l’attenzione di curiosi e interessati, ma se ve la siete persa, non vi resta che aspettare l’anno prossimo!

 

Amanda De Luca


LE PROPRIETA' ARMONICHE IN OZU 

 

di Anna Laura Longo 

L’Istituto Giapponese di Cultura di Roma ha portato in questi giorni a conclusione la rassegna intitolata Vi racconto Ozu, dedicata al cineasta giapponese di cui ricorre il 12 dicembre l’anniversario  univoco della nascita e della morte. Pur essendo sospesa l’apertura al pubblico dell’Istituto stesso, i  film sono risultati disponibili in digitale, in versione originale con sottotitoli in italiano o inglese. 

Le proprietà armoniche presenti nelle pellicole di Yasujirō Ozu – collocabili tra gli anni ’30 e ’60 - continuano a condurci flessibilmente tra derive e incubazioni temporali, all’interno delle quali si  disciolgono in forme molteplici le vite e i contatti esistenziali. Tutto avviene nel segno del  mutamento. Tra passaggi e maturazioni più o meno significative ogni accadimento, seppur flebile, diviene uno squarcio carico di rilievo, in grado di stagliarsi dinanzi alla vista dell’osservatore, senza tracce di stravolgimento. 

Nei confini di una concezione geometrica ammaliatrice si riversa un alone di pacata intensità. Quasi  una mobilitazione poetica prende corpo e lascia spazio alla circolarità delle esperienze, avvolte da  tracce di vaghezza o sospensione, o ancora plasmate dai risvolti temporali che si annodano tra forme di scorrimento o di apparente fissità. La circolarità e il senso del divenire inquadrano dunque posture  umane differenziate, che perseguono o disattendono a volte i desideri e le aspettative più o meno  recondite. Resistenza e arrendevolezza, dissolvimento o inseguimento delle speranze, coraggio o  parvenza di libertà sono solo alcuni degli indizi rintracciabili e afferrabili nelle trame che variamente  si dispiegano. 

Lo sguardo resta in generale avvinto nei margini di una diramazione di gesti e sguardi, dialoghi e  interazioni, dove gli ambienti, connotati con sobrietà sapiente, divengono veri e propri luoghi  sinergici, incunaboli di trasformazioni autentiche. 

L’invito è certamente quello di tornare a scoprire ed approfondire le evoluzioni stilistiche  riscontrabili in alcuni titoli salienti come Tarda primavera, Una gallina nel vento, Viaggio a Tokyo e  molti altri, per situarsi e dare sostanza ad una calda e al contempo austera visione, presumibilmente rigenerante. 

 

Fonte immagine in evidenza : https://www.moviedigger.it/vi-racconto-ozu-rassegna-gratuita/


"Aki no aware": la compenetrazione emotiva nell’autunno di Dolls e Little Forest

Siamo agli albori dell’XI secolo, quando la dama di corte Murasaki Shikibu compone ciò che i critici letterari contemplano come primo esempio di romanzo psicologico, nonché cardine della letteratura giapponese: ci riferiamo senza dubbio al Genji monogatari. Uno dei maggiori contributi dell’opera, che ruota intorno alle vicende amorose del “Principe Splendente”, è quello di aver riportato in auge un concetto basilare dell’estetica giapponese, il mono no aware.

Nel Genji monogatari, infatti, questo termine raggiunge la massima espressione, acquisendo una rinnovata definizione. Più che concetto estetico volto a sottolineare una bellezza che desta un coinvolgimento personale alla vista, il mono no aware assume un carattere di melancolia derivante dalla consapevolezza che ciò che si osserva sarà destinato a sfiorire.

La “sensibilità (aware 哀れ) delle cose (mono 物)” delinea così una percezione che accomuna ciascun soggetto nella partecipazione emotiva alla trasformazione degli elementi naturali nel tempo. Alla base della cultura estetica, della poesia e della letteratura giapponese, questo concetto ha fortemente influenzato anche gran parte delle opere cinematografiche moderne e contemporanee.

Registi del calibro di Mizoguchi Kenji e Ozu Yasujirō, in film come Tarda primavera (Banshun, 1949) e Tardo autunno (Akibiyori, 1960), hanno tentato di suscitare l’empatia dello spettatore nei confronti dei personaggi attraverso una poetica incentrata sull’ordinarietà della vita quotidiana e l’inevitabile susseguirsi delle stagioni. E di certo, a rivelare maggiormente la sensazione di caducità, disillusione e isolamento dell’essere umano nel suo rapporto complesso con la natura è, tra tutte le stagioni, l’autunno (aki 秋).

Il capolavoro Dolls (2002), diretto da “Beat Takeshi” Kitano, ne è una chiara testimonianza. Il film si svolge su un intreccio di tre vicende che indagano il tema dell’amore. Quello rappresentato da Kitano, però, non è l’amore ardente e impulsivo che prelude a un intuibile lieto fine. Al contrario è silenzioso e all’apparenza celato, tuttavia carico di una potenzialità emotiva che sfocia in disperazione, follia e inevitabilmente violenza.

In particolare, la condizione di incomunicabilità che affligge i personaggi (tematica affrontata in modo magistrale da Michelangelo Antonioni nel cinema italiano) è evidente nel primo episodio, il più emblematico. I due “vagabondi legati”, Matsumoto e Sawako, iniziano infatti un lento cammino senza meta, quasi come unica reazione possibile a un legame ormai compromesso. E’ in questo processo di accettazione del destino che il senso di solitudine, il silenzio e la frustrazione prendono il sopravvento sulle personalità dei personaggi, indifferenti alle risa dei passanti e all’incessante scorrere del tempo.

La cura dell’altro e la dipendenza reciproca generano così un progressivo autoannullamento dei due innamorati, fisicamente legati soltanto da una corda rossa durante l’intero cammino. Nessuna possibilità di evasione, ma in fin dei conti nessuna vera intenzione. Qui l’allusione romantica del regista è riconducibile al “filo rosso del destino” (Unmei no akai ito), una leggenda popolare cinese diffusa in Giappone secondo cui ogni persona è legata alla propria anima gemella da un indistruttibile filo rosso.

Il principale riferimento culturale della pellicola, da cui la scelta del titolo, riguarda però le marionette dello spettacolo bunraku. Il film si apre infatti con una scena dell’opera teatrale I Messi dell'Inferno (Meido no hikyaku) di Chikamatsu Monzaemon. E’ proprio il drammaturgo del periodo Edo, ribattezzato lo "Shakespeare del Sol Levante", ad aver rappresentato in alcuni suoi drammi la pratica dello shinjū (心中), letteralmente il “doppio suicidio d’amore”.

La totale assenza di dialogo o di contatto fisico definisce così l’apatica fuga delle “bambole”, che percorrono le quattro stagioni tra giardini in fiore, spiagge deserte, boschi autunnali e interminabili distese di neve. E dove non riescono i personaggi nell’intento di esprimere le proprie emozioni, il compito è lasciato all’impatto visivo della natura e dei suoi colori ricorrenti, primo su tutti il rosso della foglia d’acero che percorre le vicende trasportata dal fiume, creando una perfetta analogia con il sangue sull’asfalto.

Insomma, più mono no aware di così, si muore.

L’imprescindibile legame tra essere umano e natura è tema fondamentale anche in Little Forest di Mori Jun'ichi, una miniserie basata sull’omonimo “slice of life” manga di Igarashi Daisuke. Complessivamente, l’opera è divisa in 2 parti: Summer/Autumn (2014) e Winter/Spring (2015).

Il racconto si svolge nella fittizia e circoscritta comunità di Komori (“piccola foresta”) nella regione del Tōhoku, dove la giovane Ichiko, interpretata dall’incantevole Hashimoto Ai, vive da sola in seguito all’inaspettata partenza della madre. In totale armonia con l’ambiente rurale che la circonda, Ichiko è immersa nelle tradizioni culinarie giapponesi e si dedica con meticoloso impegno a tutte le attività agricole necessarie per il proprio sostentamento. In base alle variazioni climatiche scandite dalla graduale evoluzione delle stagioni, la protagonista ci mostra la ripetitività delle azioni quotidiane nella vita agreste, come la coltivazione del riso, il taglio del legname e infine la preparazione dei piatti.

Anche Little Forest presenta pochissimi dialoghi, perlopiù inerenti agli incontri di Ichiko con gli amici Yūta e Kikko e con gli altri abitanti della comunità. Gran parte del parlato consiste di fatto in monologhi e descrizioni dettagliate delle ricette e dei metodi agricoli, nonché commenti conclusivi sulla riuscita o meno dei piatti. A intervallare i momenti di solitudine sono alcuni flashback, in cui la ragazza ricorda gli insegnamenti di cucina della madre, e gli autoreferenziali “itadakimasu” pronunciati prima delle degustazioni.

Nonostante lo stile pressoché documentaristico del film e la staticità generale della trama, Little Forest offre una miriade di spunti riflessivi. Innanzitutto, l’opera rimanda implicitamente alle differenze di vita tra campagna e città, un leitmotiv del cinema giapponese moderno. Ichiko mostra infatti sentimenti contrastanti riguardo al suo ritorno nel paese natale, una scelta perlopiù forzata, e rivela in varie occasioni le sue incertezze riguardo a una permanenza futura.

Accompagnato da una colonna sonora piuttosto suggestiva e da favolose immagini dei paesaggi circostanti, il film espone così il conflitto interiore della giovane nel suo delicato viaggio introspettivo alla ricerca di un posto nel mondo, nella costante riflessione su una possibile ricongiunzione con la madre.

Decisamente consigliato per gli appassionati di cucina giapponese. Come afferma Ichiko nell’episodio dedicato all’autunno, “nel periodo in cui gli alberi cambiano colore, le castagne candite diventano protagoniste”. Un invito da cogliere al volo, no?

Lorenzo Leva

 

Lorenzo Leva nasce a Fermo nel 1990 ed è laureato in Lingue, Mercati e Culture dell’Asia (Università di Bologna). Ha approfondito le sue conoscenze riguardanti l'economia, la cultura e la società giapponese durante un periodo di sei mesi presso la Université Paris Diderot-Paris VII di Parigi, con un Master in Asian Studies presso l'Università di Lund e un'esperienza di fieldwork presso la Waseda University a Tokyo.
Coltiva da anni una forte passione per il cinema orientale e giapponese in particolare, di cui ha analizzato l’evoluzione e le caratteristiche.

Contatti:
lorenzo.leva@gmail.com


Cinema giapponese: la nuova produzione nella "seconda epoca d’oro"

A metà del ventesimo secolo, per l’industria cinematografica giapponese ebbe inizio un glorioso periodo di rinascita che avrebbe percorso gli anni Cinquanta nel cosiddetto "secondo decennio d’oro".

In seguito alla ripresa economica del dopoguerra, nello scenario cinematografico il decisivo confronto con gli Stati Uniti, sebbene avesse determinato una riorganizzazione dell’assetto industriale, aveva offerto alle case giapponesi l’occasione di espandersi nel mercato internazionale, attraverso una produzione rinnovata e per la prima volta orientata all’esportazione. Il dopoguerra vide inoltre la fioritura di numerose personalità che difficilmente si sarebbero imposte negli anni precedenti a causa del tipico sistema di apprendistato giapponese, per cui la quasi totalità dei registi si vedeva affidare la piena responsabilità di un film solo dopo un lungo tirocinio come assistenti.

Uno tra questi fu senza dubbio Kurosawa Akira, che già nel 1943 aveva esordito con Sugata Sanshiro. Con Rashomon, infatti, nel 1950 una nuova era di rinnovamento e prosperità si era affacciata alle porte del cinema giapponese, che fino a quel momento aveva sviluppato uno stile proprio nella costante alternanza tra codici provenienti dall’esterno e rappresentazioni minuziose dei costumi del popolo. Il film riscosse un successo senza precedenti: fu premiato l’anno successivo al Festival di Venezia con il Leone d’Oro e in seguito con l’Oscar come miglior film straniero a Hollywood, dando così la possibilità al cinema nazionale di essere conosciuto e apprezzato all’estero per la prima volta.

L’ambiguità del trionfo conseguito dalla pellicola derivò dall’innovativa interpretazione del genere jidaigeki proposta da Kurosawa, che tramite questo esperimento d’avanguardia stabilì un punto di rottura rispetto alla tradizione e ai film in costume convenzionali ai quali il pubblico era abituato. A ossessionare il popolo giapponese, oltre Kurosawa stesso, era la preoccupazione di aver fornito al resto del mondo un’immagine troppo eccentrica della cultura nipponica. Tuttavia Rashomon diede al regista l’opportunità di trasporre al meglio il suo stile espressivo, ma soprattutto rappresentò un passo importante verso l’internazionalizzazione del cinema giapponese, che in breve tempo avrebbe conquistato l’attenzione dei grandi festival europei.

L’iniziale diffidenza di Nagata Masaichi della Daiei riguardo alla produzione di Rashomon fu così smentita, tanto che il presidente della casa si convinse a produrre una quantità sempre maggiore di jidaigeki per il mercato straniero. Inoltre, Nagata lanciò un programma di produzioni a colori permettendo alla Daiei di diventare la prima major giapponese a servirsi del colore non solo sul piano sperimentale. Il procedimento utilizzato per questa novità era il Fujicolor, già impiegato dalla Shochiku in Carmen torna a casa del 1951; quest’ultimo film, diretto da Kinoshita Keisuke, aveva ottenuto un grande successo al botteghino che consentì alla casa produttrice di recuperare il potere perduto a causa della mancata adesione agli standard moderni, concentrandosi piuttosto sui classici melodrammi destinati a un pubblico prevalentemente femminile.

In seguito alla nuova disposizione postbellica dell’apparato industriale, il numero delle major era aumentato a tal punto che il monopolio del mercato fu spartito tra sei grandi case: Nikkatsu, Shochiku, Daiei, Toho, Shintoho e la neocostituita Toei. Mentre la Daiei era occupata nella realizzazione di film di alta qualità e continuava a rivolgere la sua attenzione al mercato estero, la Toho era ancora troppo debole per reggere il confronto con le altre case. In tale contesto, la Toei si fece avanti proponendo un piano di produzione il cui scopo era distribuire un nuovo doppio programma ogni settimana: il piano permise alla casa di concentrarsi sulla produzione interna di film in costume con budget decisamente ridotti.

Dal 1950 ci fu anche una rinnovata proliferazione di compagnie indipendenti, interessate principalmente alla politica. Nello stesso anno, infatti, un provvedimento del Comandante Supremo delle Forze Alleate aveva allontanato i comunisti da tutti gli organismi di comunicazione di massa attraverso la cosiddetta red purge, che aveva già coinvolto numerosi nomi celebri a Hollywood. Le più importanti tra queste case nascenti furono la Studio 8, fondata da Gosho Heinosuke, la Kindai Eiga Kyokai e la Shinsei Eigasha. In alcuni casi la scelta dell’indipendenza risiedeva piuttosto nel desiderio di usufruire di una libertà creativa fino ad allora limitata da alcune major, come la Shochiku.

Mentre già nel 1953 la quasi totalità delle sale cinematografiche proiettava spettacoli a doppio programma, l’industria aveva l’onere di soddisfare sia le esigenze del pubblico locale che quelle dell’audience straniera. Tuttavia, a causa di una fiacca coordinazione tra le major non fu possibile attuare in questi anni una politica esportatrice adeguata; soltanto nel 1957 la creazione della UniJapan Film compensò l’assenza di un organismo centrale destinato all’esportazione.

Lorenzo Leva

 

Lorenzo Leva nasce a Fermo nel 1990 ed è laureato in Lingue, Mercati e Culture dell’Asia (Università di Bologna). Ha approfondito le sue conoscenze riguardanti l'economia, la cultura e la società giapponese durante un periodo di sei mesi presso la Université Paris Diderot-Paris VII di Parigi, con un Master in Asian Studies presso l'Università di Lund e un'esperienza di fieldwork presso la Waseda University a Tokyo.
Coltiva da anni una forte passione per il cinema orientale e giapponese in particolare, di cui ha analizzato l’evoluzione e le caratteristiche.

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Storia del cinema giapponese: l'influenza americana

L’industria cinematografica giapponese è stata soggetta nel corso degli anni a notevoli trasformazioni, dovute principalmente al confronto con realtà esterne che sin dal principio hanno esercitato sul Paese del Sol Levante un grande fascino. L’interesse per le innovazioni straniere, tuttavia, ha da sempre dovuto scontrarsi con un atteggiamento ricorrente di fronte a qualsiasi tipo di novità: iniziale curiosità ed entusiasmo prima della piena assimilazione dell’idea e del conseguente adattamento ai propri modelli.

Tra le modernità importate, il cinema registrò da subito un’immediata popolarità. Il rapido processo di divulgazione della “settima arte” fu così attuato dalle prime case di produzione, che diedero un contributo essenziale alla nascita del sistema industriale cinematografico, nell’intento di ottenere una repentina espansione all’estero, attraverso l’importazione di nuovi macchinari provenienti dalla Francia.

Il successo riscosso dall’apertura del nuovo circuito di sale Fukuhodo di Tōkyō nel 1909 confermò i buoni propositi nel redditizio settore della produzione: la Fukuhodo fu tre anni dopo accorpata alle altre case in un grande trust plasmato sulla Motion Picture Patent Company americana, la Nikkatsu Corporation.

Dopo la costruzione di un nuovo studio nelle vicinanze di Asakusa, la prima major giapponese si specializzò nella realizzazione di drammi dello shinpa (la “nuova scuola”), arrivando già nel 1914 a produrre 14 film al mese e a possedere nel 1921 più della metà delle 600 sale cinematografiche dell’intero paese. Nel frattempo, con lo scoppio della prima guerra mondiale, gli Stati Uniti iniziarono a estendere il proprio dominio su Francia e Italia, i due paesi esportatori più importanti fino a quel momento.

L’egemonia del cinema americano nel primo dopoguerra e conseguentemente per l’intero decennio successivo fu testimoniata in particolar modo dalla nascita dello "studio system", un efficiente apparato industriale che prevedeva la fusione delle piccole compagnie in aziende maggiori a concentrazione verticale, capaci dunque di controllare produzione, distribuzione e proiezione delle pellicole, tramite l’acquisto o la costruzione delle sale.

Altre novità consistevano nella specializzazione dei ruoli attraverso l’introduzione di una nuova figura accanto a quella del regista, il producer, e nella nascita dello "star system": l’attore principale, spesso legato alla rispettiva casa da contratti a tempo indefinito, rappresentava dunque il mezzo fisico attraverso cui pubblicizzare i film, nonché il cardine di questo nuovo sistema produttivo che avrebbe funto poi da modello per lo sviluppo dell’industria cinematografica giapponese.

All’inizio degli anni Venti, il contributo più rilevante verso una nuova fase di radicale rinnovamento e prosperità provenne dall’intervento di Kido Shirō, direttore dei nuovi studi di Kamata della casa Shōchiku, che incrementò la produzione di opere gendaigeki: queste consistevano in drammi di ambientazione contemporanea, in forte contrapposizione con i film in costume denominati jidaigeki, ai quali era stato prevalentemente rivolto l’interesse del pubblico fino a quel momento.

In particolare, a favorire la proliferazione di opere jidaigeki fu l’imprescindibile influenza del teatro tradizionale sul cinema degli albori. Le prime produzioni cinematografiche, infatti, consistevano in rappresentazioni di geisha danzanti, attori famosi di kabuki e melodrammi popolari shinpa: questa forma teatrale ebbe origine in seguito alla restaurazione Meiji per l’impossibilità del kabuki di presentare commedie d’ambientazione contemporanea. Pur avendo esordito come teatro rivoluzionario e di propaganda della politica liberale e antifeudale, mantenne figure tradizionali come l’oyama (l’attore che interpretava i ruoli femminili, anche denominato onnagata).

La forte influenza del teatro si era manifestata inoltre nella necessità di trovare un personaggio che riuscisse a dare una spiegazione anticipatoria della rappresentazione, a fornire la voce ai vari personaggi, tradurre e commentare le scene in lingua straniera dei film importati e descrivere le tecniche cinematografiche utilizzate durante la proiezione. Questi compiti erano stati affidati al benshi, ruolo svolto principalmente da uomini che si sarebbe poi rivelato decisivo nello sviluppo del cinema giapponese.

Il potere incantatore dei benshi si sposava alla perfezione con le esigenze del pubblico e costituiva uno scoglio notevole per chi tentasse di scardinarlo o, addirittura, proporre nuove tecniche di ripresa; nonostante ciò, verso la fine degli anni Dieci era stato introdotto in Giappone il flashback, in seguito agli esperimenti tecnici di D. W. Griffith. Quest’ultimo aveva svolto un ruolo decisivo nell’applicazione all’interno del cinema americano del director system, che prevedeva la centralità nella figura del regista, e nell’elaborazione dell’innovativo montaggio alternato.

Il Paese, dunque, non era ancora preparato a un intero sconvolgimento del sistema tradizionale: il maggiore ostacolo al processo di “americanizzazione” era ancora rappresentato dalla presenza dei benshi, la cui popolarità aveva raggiunto il picco massimo tra la fine del primo conflitto mondiale e la metà degli anni Venti.

Lorenzo Leva

 

Lorenzo Leva nasce a Fermo nel 1990 ed è laureato in Lingue, Mercati e Culture dell’Asia (Università di Bologna). Ha approfondito le sue conoscenze riguardanti l'economia, la cultura e la società giapponese durante un periodo di sei mesi presso la Université Paris Diderot-Paris VII di Parigi, con un Master in Asian Studies presso l'Università di Lund e un'esperienza di fieldwork presso la Waseda University a Tokyo.
Coltiva da anni una forte passione per il cinema orientale e giapponese in particolare, di cui ha analizzato l’evoluzione e le caratteristiche.

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Naruse Mikio

Enciclopedia del Cinema (2004)

di Dario Tomasi

Naruse, Mikio

Regista cinematografico e sceneggiatore giapponese, nato a Tokyo il 20 agosto 1905 e morto ivi il 2 luglio 1969. Quasi coetaneo di Mizoguchi Kenji e Ozu Yasujirō, N. ha faticato più dei suoi colleghi ad affermarsi nel mondo del cinema giapponese prima e internazionale poi e solo con il tempo la sua opera ha conquistato l'attenzione che merita. N. realizzò soprattutto degli shomingeki ("drammi sulla gente comune"), concentrandosi in modo particolare sull'universo familiare, spesso colto nella sua essenza, di là dalle contingenze storiche e sociali. Il suo cinema è innanzi tutto una straordinaria galleria di ritratti femminili, di donne che rifiutano il ruolo di vittime e si battono con coraggio per realizzare le loro aspirazioni, anche quando sanno d'essere prive di vie d'uscita. È proprio l'ammirazione del regista per questa irrazionale ostinazione a dare al suo cinema un carattere decisamente particolare. Se negli anni Trenta N. ricorse a quello stile ornamentale tipico del cinema giapponese dell'epoca, con angolazioni insolite e frequenti movimenti di macchina, negli anni Cinquanta il suo linguaggio si prosciugò, si fece più lineare, per permettere allo spettatore di cogliere con l'attenzione dovuta i gesti dei personaggi, le sfumature degli sguardi, i mutamenti d'espressione, il lavoro degli attori.

Nato in una famiglia di umili condizioni, N., dopo aver frequentato una scuola tecnica, entrò, all'età di soli quindici anni, negli studi Kamata della Shōchiku, dove conobbe il regista Ikeda Yoshinobu che nel 1922 lo promosse suo assistente. N. rimase tale per sei anni, prima di passare nello staff di Gosho Heinosuke e, finalmente, debuttare come regista nel 1929 con Chanbara fūfu (I coniugi Chanbara). Il film, come i molti che seguirono negli anni immediatamente successivi, si basava sulla tipica formula della Shōchiku: un'insolita miscela di slapstick e melodramma, gag e lacrime. Ne è un esempio il primo film conservato del regista, Koshiben ganbare (1931, In bocca al lupo, piccolo salariato), in cui si narrano le vicissitudini di un agente assicurativo pronto a subire ogni umiliazione pur di vendere una polizza a una ricca signora. N. si specializzò così negli shomingeki, genere cui infuse la propria personale esperienza, la sua capacità di descrivere le atmosfere degli shitamachi (i quartieri popolari) e la variegata realtà dei suoi abitanti, come per es. accade in Kimi to wakarete (1933, Dopo la nostra separazione), storia di una geisha che si vede disprezzata dal figlio a causa del suo mestiere. Dopo aver lasciato la Shōchiku nel 1934 ed essere passato alla PCL (Photo Chemical Laboratory, poi Tōhō), N. diresse nel 1935 il suo primo film sonoro, Tsuma yo, bara no yōni (Moglie, sii come una rosa), con cui ritornò a quell'equilibrio di dramma e commedia che già aveva caratterizzato i suoi film d'esordio e riuscì a conquistare l'attenzione della critica e del pubblico. Al successo di questo film seguì, tuttavia, un lungo periodo di crisi, che attraversò gli anni della guerra e quelli dell'occupazione americana, in cui N. diresse pochi film senza incidere in quasi nessuno: fra le poche eccezioni si può citare Hataraku ikka (1939, Tutta la famiglia lavora), storia di una numerosa famiglia nella quale, per sopravvivere, tutti sono costretti a lavorare, compresi vecchi e bambini. Ma con gli anni Cinquanta le cose cambiarono di nuovo e N., ritrovata la propria vena creativa, realizzò i film più importanti della sua carriera. Del 1951 è Meshi (Il pasto), sottile analisi della crisi coniugale di una coppia, alla cui sceneggiatura collaborò anche il futuro premio Nobel Kawabata Yasunari. Il film è l'adattamento di un romanzo della scrittrice Hayashi Fumiko, dalla cui opera N. trasse altri cinque film: Inazuma (1952, Il lampo), storia del rapporto di una madre con i suoi quattro figli ‒ tre femmine e un maschio ‒ avuti ognuno da un uomo diverso; Tsuma (1953, Moglie), sul tentativo di una donna di salvare un matrimonio alla deriva; Bangiku (1954, Tardi crisantemi), che vede fra i suoi protagonisti una geisha in lotta contro l'ineluttabile trascorrere del tempo; Ukigumo (1955, Nubi fluttuanti), uno dei film più apprezzati del regista, storia dell'amore assoluto di una donna per un uomo debole ed egoista; Horoki (1962, Cronaca di una vita vagabonda), biografia per immagini della stessa Hayashi. In quegli anni N. lavorò soprattutto per la Tōhō e riuscì a dar vita a un gruppo di collaboratori ricorrenti che comprendeva gli sceneggiatori Tanaka Sumie e Mizuki Yōko, il musicista Saitō Ichirō, il direttore della fotografia Tamai Masao e gli attori Takamine Hideko e Uehara Ken. Nacquero così altri film di qualità come Okāsan (1953, Madre), Ani imōto (1953, Fratello e sorella) e Fūfu (1953, Marito e moglie), tutte scrupolose indagini di microcosmi familiari, come Yama no oto (1954, Il suono della montagna), dal celebre romanzo di Kawabata, mentre con Nagareru (1956, Fluttuare) il regista disegnò il declino della tradizionale figura delle geishe ormai divenute, nel dopoguerra, semplici prostitute. Negli anni Sessanta N. realizzò ancora un buon numero di film ma, come altri registi della sua generazione, fu coinvolto dalla crisi del mondo produttivo. Da ricordare in particolare Onna ga kaidan o agaru toki (1960, Quando una donna sale le scale) e Midaregumo (1967, Nubi sparpagliate), ancora due convincenti ritratti femminili: quello della proprietaria di un bar di Ginza, il primo; di una donna incinta il cui marito muore in un incidente stradale, il secondo, che fu anche il l'ultimo film del regista. bibliografia

J. Mellen, The waves at Genji's door: Japan through its cinema, New York 1976, pp. 270-89.

A. Bock, Japanese film directors, New York 1978, pp. 99-136.

A. Bock, Mikio Naruse: un maître du cinéma japonais, Locarno 1983.

L. Interim, Mikio Naruse. Le quatrième grand, in "Cahiers du cinéma", 1983, 344, pp. 6-11.

H. Niogret, Mikio Naruse. L'agencement des emotions, in "Positif", 1984, 275.

M. Tessier, Y. Mizuki, Mikio Naruse, in "La revue du cinéma", 1984, 391, pp. 61-70.

Mikio Naruse: un maestro del cinema giapponese, Catalogo della rassegna organizzata dall'Istituto di cultura giapponese, Roma 1984.

D. Tomasi, Meshi (Il pasto), in "Cineforum", 1991, 4, pp. 62-67.

J. Magny, A. Scala, L'éclair Naruse, in "Cahiers du cinéma", 1993, 466, pp. 47-53.

B. Eisenschitz, Au-delà d'un nuage, in "Cahiers du cinéma", 2001, 553, pp. 59-61.

M.R. Novielli, Storia del cinema giapponese, Venezia 2001, pp. 91-104, 179-81.

C. Tesson, Naruse du style et des larmes, in "Cahiers du cinéma", 2001, 553, pp. 62-64.


Thermae Romae - Far East Film Festival di Udine

Teatro Nuovo Giovanni da Udine
Sabato 21 Aprile, ore 20:15
Regia:
TAKEUCHI Hideki
Anno:
2012
Durata:
108'
Stato:
Japan
La cultura giapponese del bagno, dalle semplici vasche di casa ai resort termali di lusso, è la più sviluppata nel mondo, come molti giapponesi saranno felici di dirvi. Per Lucius, un progettista di terme dell’antica Roma nell’epoca di massimo splendore che viaggia nel tempo, le terme giapponesi sono un’infinita fonte di meraviglia e di ispirazione - oltre che di frustrazione. Lucius è il protagonista del fumetto di Yamazaki Mari Thermae Romae (“Le Terme di Roma”), che ha venduto oltre cinque milioni di copie in quattro edizioni tascabili, e del nuovo film di Takeuchi Hideki ad esso ispirato. Ma Lucius, interpretato da Abe Hiroshi (perfetto per la parte), ha ragione di essere sbalordito: arrivato attraverso un tunnel nel tempo in un bagno pubblico giapponese vecchio stile, come una divinità nuda che emerge dalle onde, egli vede un mondo e un popolo completamente diversi dal suo. Pur pensando che gli anziani che fanno il bagno siano “schiavi dalla faccia piatta”, Lucius si stupisce delle meraviglie che la loro cultura ha prodotto, che si tratti di un latte al profumo di frutta (così rinfrescante dopo essere stati a lungo in ammollo!) alle ceste di vimini per gli abiti (così leggere e pratiche!). Poi si risveglia di nuovo nella sua epoca, ma con una bottiglia di latte vuota, a testimonianza che la sua breve visita nel Giappone odierno non è stata un sogno. Licenziato da un lavoro di architettura poco tempo prima perché troppo rigido e conservatore, Lucius inserisce le innovazioni che il Giappone gli ha ispirato in un nuovo impianto termale - e ben presto si ritrova fra le mani un successo. Nel frattempo viene notato dall’anziano imperatore Adriano (Ichimura Masachika), che ne richiede i servigi. Sembrerebbe proprio che Lucius ce l’abbia fatta. Ma siccome è un perfezionista ostinato, entra in contrasto con un futuro imperatore designato che fa il galletto con le donne (Kazuki Kitamura) e si sente in colpa per aver imbrogliato gli “schiavi”. Così, quando l’acqua del tunnel del tempo lo ributta diverse volte nel paese degli schiavi dalle terme meravigliose, Lucius scopre altre idee da sfruttare e comincia a fare amicizia con gli indigeni, compresa una disegnatrice di manga molto carina (Ueto Aya) che adora disegnare le sue forme classiche e scolpite. Lucius, invece, è molto più interessato ai bagni e ai water che lei vende come secondo lavoro. Thermae Romae fa qualche immersione occasionale nelle torbide acque delle guerre e degli intrighi politici dell’antica Roma, ma rimane saggiamente ancorato ai suoi esordi comici, evitando invece di strombazzare con urgenza sciovinista il contrasto tra il Giappone “progredito” e l’ “arretratezza” di Roma. Al contrario, il film evidenzia aspetti della cultura giapponese tradizionale del bagno collettivo che possono essere visti come irrimediabilmente antiquati dalle giovani generazioni nipponiche, abituate ad immergersi in un solitario e antisettico sfarzo, ma che agli occhi del neofita Lucius recuperano il loro originale splendore. Inoltre, invece di ricalcare gli ammuffiti esempi di Hollywood e servirsi di attori inglesi dall’aspetto elegante nei ruoli degli antichi romani, i produttori hanno astutamente utilizzato attori giapponesi con tratti Nihonjinbanare (“non nipponici”), a cominciare da Abe, che trascorre gran parte del film parzialmente o completamente svestito, e sembra sia appena uscito da una delle sezioni del Louvre dedicate alle statue romane, ma con tutti gli arti intatti. Il film ne guadagna in comicità, anche se Abe e colleghi non sono romani da fumetto, mentre invece la loro presenza sottolinea il messaggio “in acqua-siamo-tutti-fratelli” che il film vuole trasmettere. Infine, proprio mentre la storiella di Lucius come “ viaggiatore nel tempo e sott’acqua” inizia a stancare, arrivano nuove complicazioni, tra il serio e lo sciocco, che mantengono viva l’attenzione senza far sconfinare la trama nel melodrammatico. Inoltre, i miracoli della computer graphics, uniti ai set dell’epoca romana dei teatri di posa di Cinecittà, popolati da ben duemila comparse, portano vita e vivacità al mondo di Lucius e dei suoi contemporanei. Cecil B. DeMille, il re dei peplum hollywoodiani affollati di migliaia di comparse, avrebbe sicuramente approvato.
Mark Schilling

Il cinema di Oguri Kohei

 

Cineasta dal rigore estremo, Oguri Kohei rappresenta un caso singolare nel panorama cinematografico giapponese e non solo. Autore di soli cinque film in trent’anni di carriera, questo autore ha raccontato il Giappone del dopoguerra, non lesinando di toccare aspetti anche molto scomodi, approdando poi a un cinema sospeso tra l’allegorico e l’elegiaco. Le sue opere, in particolare le ultime due, portano agli estremi quella tendenza, propria del cinema giapponese classico, del dare grande importanza alla rappresentazione dei paesaggi, alla relazione tra i personaggi e l’ambiente circostante. E’ una concezione non antropocentrica, coerente con lo shintoismo, con quel fondamento animista e non monoteista, della cultura nipponica che vede il mondo della natura come un’estensione armonica dell’uomo. Se normalmente nel cinema, occidentale e non, la cosa più importante, nella costruzione delle scene, sono i dialoghi e la sceneggiatura, per Oguri queste rivestono un ruolo secondario cui anteporre i luoghi in cui si svolge la scena, che assurgono il ruolo di protagonisti. La casa tradizionale giapponese non è costruita di materiale pesante, in modo da costituire una rigorosa barriera tra interno ed esterno. E’ fatta di elementi scorrevoli e removibili, che non costituiscono un confine netto tra il dentro e il fuori e questo, secondo il regista, è un esempio del modo peculiare nipponico di concepire la natura.

Molto frequenti, nel suo cinema, sono gli elementi della tradizione secolare della cultura giapponese, quali cerimonie, riti e processioni. Ne è un esempio la lunga sequenza di teatro che, in L’uomo che dorme, scandisce il passaggio tra la vita e la morte. Oguri preferisce, in tal proposito, non parlare di “tradizioni giapponesi”, ma semplicemente di “tradizioni”, togliendo l’etichetta “giapponese” che, a suo dire, costituisce una limitazione. La tradizione infatti è un concetto universale, e ancestrale, che lega l’uomo alla campagna circostante. L’autore riconosce comunque una maggiore connotazione spirituale dei riti e le celebrazioni propri della cultura nipponica, a differenza di quelli delle civiltà monoteiste.

Importante è anche la lettura che Oguri fa della storia recente del Giappone. Si tratta del primo paese asiatico ad aver avviato, nell’era Meiji, un forte processo di modernizzazione, che equivaleva a una occidentalizzazione o europeizzazione. Questo grande sforzo sarebbe stato possibile solo per il fatto di essere una potenza coloniale e imperialista, che poteva così disporre di una gran quantità di mano d’opera proveniente dalle colonie. La sconfitta nella Seconda Guerra Mondiale è stato lo scotto sovrumano che il paese ha dovuto pagare per questa politica espansionista, e ha costituito una crisi, una ferita non rimarginabile anche con il successivo sviluppo economico.

Le opere di Oguri, nella loro successione cronologica, rappresentano l’avvicendarsi delle stagioni della vita. Il primo film, Doro no kawa (Fiume di fango, 1981), è dedicato all’infanzia. Ambientato a Osaka negli anni ’50, è la storia di due bambini, uno dei quali vive su una chiatta, ormeggiata sul fiume Aji, dove la madre esercita l’attività di prostituta. Uno sguardo neorealista impietoso, al pari dell’Oshima di Il cimitero del sole (1960), sulla miseria del Giappone postbellico, girato in bianco e nero con lo stile del cinema giapponese classico, tanto da non sembrare per nulla un film degli anni ‘80. In particolare, Oguri mostra una grande sensibilità nei confronti del mondo infantile, avvicinandosi al genere classico shoshimin kazoku eiga ("film sui bambini e sulle loro famiglie"), che ha visto protagonisti grandi maestri quali Shimizu Hiroshi e Shindo Kaneto. Il fiume, immagine ricorrente nel cinema di Oguri, che dalla purezza della sorgente fino allo sfociare nel mare, diventa via via più fangoso, rappresenta il corso della vita, il suo “sporcarsi” man mano che si lascia l’innocenza dell’infanzia.

Il secondo film, Kayako no tameni (Per Kayako, 1984), incentrato sulla giovinezza, racconta la storia d’amore di due immigrati coreani di seconda generazione. Uno dei tabù più intoccabili del Giappone, quello del razzismo nei confronti dei coreani, viene affrontato e denunciato con una lucidità che ha pari, ancora una volta, solo nell’opera di Oshima con film come Il ritorno degli ubriaconi (1968).

L’approdo alla vita adulta è oggetto del terzo film, Shi no toge (L’aculeo della morte, 1990), che, avendo per oggetto un tradimento coniugale, tocca il tema della condizione della donna in Giappone. E’ tratto da un romanzo che appartiene al genere letterario detto shishosetsu o watakushishosetsu, la cui caratteristica è il racconto in prima persona delle esperienze vissute dall’autore. Oguri si confronta con un concetto a lui totalmente estraneo, la fede cristiana dello scrittore. Il titolo riprende infatti un brano della Lettera ai Corinzi che recita: “il pungiglione della morte è il peccato”.  A partire da quest’opera, lo stile narrativo di Oguri si fa meno lineare, diviene ellittico e astratto, fino ad arrivare ai successivi due film, in cui predomina l’aspetto simbolico.

Il passaggio tra la vita e la morte, che avviene come un soffio di vento, è il tema di Nemuru otoko (L’uomo che dorme, 1996), un’elegia sul ciclo della vita e della natura. Racconta di un piccolo villaggio rurale, Hitosuji, dove abita un uomo in coma che attende la fine della sua esistenza. Si tratta di un’opera decisamente criptica, coerente con il rifiuto netto, da parte del l’autore, di ogni tipo di didascalismo e con la sua volontà di instaurare dubbi, più che certezze, nello spettatore.

Enigmatico anche il successivo, Umoregi (La foresta pietrificata, 2005), lirico e sempre più tendente all’astratto e all’onirico. Ambientato in un villaggio di montagna dove la vita dei ragazzi, intenti a inventare una storia, e degli adulti, legati ai rimi della natura e alle tradizioni, viene sconvolta dalla scoperta di una foresta fossilizzata. Le età dell’uomo, oggetto delle precedenti opere, alla fine si incontrano e coesistono in un racconto fiabesco, in quello che è ad oggi l’ultimo film di Oguri Kohei.

Giampiero Raganelli


Il cinema giapponese tra tradizione e modernità

Kenji Mizoguchi - Genroku Chûshingura (1941)

Per un osservatore distante 
Stanno conversando dei fiori
Eppure a dispetto delle apparenze
Sono immersi in pensieri molto differenti

Ki No Tsurayuki

Con questa poesia, del poeta, di epoca Heian, Ki No Tsurayuki, inizia un saggio fondamentale sul cinema giapponese, Pour un observateur lointain di Noël Burch. L’autore dimostra i caratteri di unicità ed originalità di questa importante cinematografia, l’unica, almeno fino al 1945, non derivante dalla cultura occidentale. Solo i registi nipponici hanno saputo elaborare codici di rappresentazione filmica esclusivamente propri e profondamente divergenti dagli standard hollywoodiani che venivano adottati anche in Europa e in tutte le nazioni in qualche modo colonizzate.
Un semplice sguardo alla storia di questo paese può fornire una spiegazione. Non è mai stato invaso in duemila anni di storia, fino alla sconfitta della Seconda Guerra Mondiale, e non è mai stato soggetto ad uno status coloniale. Pur essendosi aperto all’occidente, nell’era Meiji, ha saputo usare le conoscenze tecnologiche acquisite per costruire un bastione contro l’egemonia americana. Questo è alla base dell’originalità del suo cinema e ha reso possibile l’autonomia tecnica ed economica della sua industria. Esiste del resto uno stereotipo che dice che i giapponesi non copiano, bensì adattano.

Esclusivamente nipponica è stata l’introduzione, nell’epoca del muto, della figura dei benshi. Si trattava di narratori che, posizionati ad un lato dello schermo e, avvalendosi di un’orchestra, prestavano la voce ai personaggi del film e ne commentavano la storia. Le origini sono riconducibili, nel periodo Edo, agli etoki, sorta di cantastorie che facevano uso di dipinti e strumenti musicali, e all’interno di una forma di rappresentazione, simile al vaudeville, detta yose.

Fin dagli albori, il cinema nipponico si è concentrato su due filoni principali, il jidaigeki e il gendaigeki. Il primo, una sorta di dramma in costume derivato direttamente dal teatro kabuki, si basa su di una tradizione di codici feudali risalente al periodo Tokugawa. Molte opere come il celebre Chushingura (I quarantasette ronin), o la biografia del samurai Myamoto Musashi, possono vantare numerosi adattamenti, anche ad opera di registi molto importanti come Mizoguchi Kenji e Inagaki Hiroshi. Il gendaigeki è invece un genere di ambientazione contemporanea incentrato su su storie di gente comune, sulla vita come è realmente. In questo campo alcuni registi hanno saputo esprimere un cinema intimista e poetico, basato sulla serenità insita nella semplicità. I grandi maestri sono stati Ozu Yasujiro, Naruse Mikio, grande autore di ritratti femminili, e Shimizu Hiroshi, da ricordare per la sua particolare sensibilità verso il mondo dell’infanzia.

Una peculiarità dei film giapponesi è quella di dare molta importanza alle atmosfere, alla relazione tra i personaggi e l’ambiente che li circonda. Questo riflette quel sentimento, assolutamente nipponico, che vede il mondo della natura come un’estensione dell’uomo stesso. E’ evidente nell’utilizzo degli elementi che viene fatto in molti film. Basta pensare alla scena della battaglia sotto la pioggia in I sette samurai (Shichinin no samurai, 1954), o il sole pressoché palpabile in film come Ventiquattro occhi (Nijushi no gitomi, 1954) o L’isola nuda (Hadaka no shima, 1960). Molto importante è anche il modo di trattare le stagioni. Molti titoli di film di Ozu ne costituiscono un campionario e sono un parallelo con le vicende narrate. Anche il già citato L’isola nuda si fonda sul passare delle stagioni e sui relativi cambiamenti naturali della piccola isola in cui è ambientato. Il regista Naruse Mikio ha, similmente ad Ozu, un catalogo di titoli, nella propria filmografia, che si fondano sulle nuvole: Nubi fluttuanti, Nubi d’estate, Nubi disperse.
Questa sensibilità sembra essere ancora viva nel cinema di oggi. Ne è un esempio, il film (Tokyo marigold Tôkyô Marîgôrudo, 2001), di Ichikawa Jun, in cui un fiore annuale simboleggia la caducità di una storia d’amore che dura una sola stagione.

Giampiero Raganelli

Tratto dal n. 67 di Pagine Zen


Il Cinema giapponese e la sua derivazione teatrale

Kenji Mizoguchi- Ugetsu (1953)

Nella cinematografia nipponica sono frequenti le opere basate sulla commistione tra il linguaggio cinematografico e quello teatrale, forse proprio a causa del rapporto di filiazione che lega queste due arti, come si è visto. In occidente non mancano esempi di questo tipo,Dopo la prova (1984) di Bergman,L’ultimo metrò di Truffaut o Vanya sulla 42ª strada (1994) di Malle.

Sono però episodi più sporadici. Il teatro kabuki ha trovato molte espressioni al cinema. Una di queste è La ballata di Narayama (Narayama bushikô, 1958) di Kinoshita Keisuke, tratto dal romanzo di Fukazawa Shichirô, storia di un arcaico villaggio di montagna. Il film palesa la sua struttura teatrale già dalla scena iniziale, con un kurogo che batte un gong. E per le scenografie stilizzate, palesemente. Si può vedere solo in Cinemascope, il formato ideale perché ricalca la scena del kabuki. Dallo stesso romanzo è stata realizzata, nel 1983, una versione molto diversa, naturalistica ed estremamente cruda, a opera di Imamura Shohei. Nel mondo del kabuki è ambientato Storia dell’ultimo crisantemo (Zangiku monogatari, 1939) di Mizoguchi Kenji, incentrato sulla carriera di un onnagata, l’ interprete tradizionale di ruoli femminili. Nel film ci sono tre maestose scene teatrali, che si pongono in un rapporto dialettico con la vicenda narrata. Un simile approccio è anche quello di La vendetta di un attore (Yukinojo henge, 1963), remake di un film del 1935, realizzato da Ichikawa Kon, il regista famoso in occidente per L'arpa birmana. Anche qui è protagonista un onnagata, che vuole uccidere tre uomini per vendetta. Memorabile la prima scena teatrale iniziale, dove i fondali si confondono con paesaggi reali, e in cui vengono enunciati i protagonisti del film, che si trovano tra il pubblico.
Sul teatro bunraku è incentratoDoppio suicidio ad Amijima (Shinjô: Ten no Amijima, 1969) di Shinoda Masahiro, regista che aveva fatto studi universitari sul teatro tradizionale. Tratto dal grande drammaturgo Chikamatsu Monzaemon, il film vede la presenza scenica dei kurogu, che guidano le azioni dei personaggi. Indubbiamente la pellicola più estrema, tra quelle giocate tra teatro e cinema, come evidente dal prologo che vede dei burattinai intenti a realizzare i pupazzi di quelli che saranno i personaggi in carne e ossa. Idea questa ripresa nel bellissimo Dolls (2002) di Takeshi Kitano. Anche il teatro nô ha avuto strascichi al cinema come in un’altra opera di Mizoguchi, I racconti della luna pallida d’agosto (Ugetsu monogatari, 1953). E’ una storia con elementi fantastici che seguono i dettami del nô, quali la struttura tripartita negli elementi jô (inizio), ha (sezione media più complessa), kyû (veloce conclusione), e i ruoli tipici del waki, il viandante, e dello shite, il personaggio che si rivela un fantasma in cerca di vendetta. Quest’ultima figura è una donna, Wakasa, truccata come una maschera nô e vestita come un personaggio nô. Anche Kaidan (1965) di Kobayashi Masaki, racconta storie di spiriti, che si basano sugli stessi archetipi narrativi. Come La ballata di Narayama, anche questo film fa uso di fondali irreali che creano un’atmosfera artificiosa. Per realizzare la sua versione del Macbeth, Trono di sangue (Kumonosu jô, 1957), Akira Kurosawa si basa sulla tecnica del nô. E'evidente nella figura di Asaji, corrispettiva di Lady Macbeth, che è sempre immobile, ieratica, inespressiva proprio come nel nô, dove gli attori comprimono la loro energia, e sono in grado di produrre emozioni molto intense con gesti quasi impercettibili. Lo scrittore Mishima Yukio, che aveva scritto molto per il teatro nô, nel suo unico approccio al cinema da regista, Yûkoku (1966), utilizza lo spazio vuoto e astratto di una scenografia nô, per ambientare la sua storia di seppuku. Da citare infine la rappresentazione di nô all'aperto, nell'elegiaco L’uomo che dorme (Nemuru otoko, 1996) di Oguri Kôhei, che accompagna la dipartita di un personaggio. E’ un teatro che mescola realtà e visione, vita e morte.