Tokyo: un nome, un’immagine, un’emozione

Immensa… caotica… travolgente… luminosa… eccentrica… indecifrabile… e potrei cercarne un’infinità di aggettivi nel mio impossibile tentativo di trasmettere le intense sensazioni, irripetibili, che questo macrocosmo mi ha trasmesso per tutta la durata del mio soggiorno in Giappone… TOKYO.

Prima di partire sentivo naturalmente l’esigenza di informarmi il più possibile su quella che sarebbe stata la mia casa per i mesi a venire soprattutto perché, ascoltando i pareri e le impressioni di persone che prima di me avevano vissuto un’esperienza simile, mi trovavo in evidente stato confusionale e mi ero resa conto di non avere davvero la più pallida idea di cosa mi aspettasse.

Sfogliando Tokyo-to di Livio Sacchi, un libro sulla città di Tokyo, lessi che dal punto di vista urbanistico e architettonico è considerata uno scempio, una bruttura indescrivibile, la morte dell’architettura in sostanza e di ogni principio di equilibrio visivo e psicologico! Per precisione voglio riportarne alcuni punti salienti: “Tokyo è abbastanza orrenda; una Los Angeles in peggio, giacché il sovraffollamento spasmodico preme sopra una struttura spampanata” (Alberto Arbasino); “Tokyo è una città spaventosa, la più grande e la più brutta del mondo […] l’urbanistica è caotica, non esiste […] la caricatura di alcune ossessive prigioni di Piranesi” (Cesare Brandi).

Ora, premettendo che oltre ad essere situato dall’altra parte del mondo rispetto all’Europa, quindi tanto distante geograficamente quanto culturalmente, il Giappone abbia un metro di valutazione di cose e valori totalmente differente dal nostro, personalmente credo che Tokyo sia fantastica. Non mi permetterei mai di mettere in dubbio che dal punto di vista di chi ne fa una materia di studio non sia l’esempio perfetto dell’ equilibrio urbanistico incorruttibile, però per capire quanto in realtà queste caratteristiche siano del tutto irrilevanti e prive di peso sostanziale ai fini del godimento dello spazio bisogna solo avere la fortuna di poterlo provare sulla propria pelle.

Trovarsi immersi nella vita di tutti i giorni, totalmente oltre il tempo e lo spazio, sfrecciare alla “velocità della luce” catapultati da una stazione all’altra a distanze percorse in tempi impensabili; uscire all’aria aperta, all’improvviso travolti da luci, riflessi, altezze incalcolabili, dimensioni assolutamente non a misura d’uomo, suoni di ogni genere, vite che si sovrappongo e con la stessa indifferenza con cui si scontrano si separano; e, a pochi passi da tutto ciò, templi buddhisti o shintoisti immersi nella quiete più assoluta, abitazioni tradizionali come tutti noi le immaginiamo, quelle con il tetto così orientale e dalle forme così delicate da rapire i nostri sensi e trasportarci  in una dimensione parallela ma altrettanto reale; poi che dire poter osservare Tokyo al crepuscolo dal piano più alto di uno dei suoi mirabolanti buildings, orgogliosi e svettanti quasi come se gareggiassero a chi sfiora per primo le nuvole, riuniti a proteggere come in un caldo abbraccio l’enorme macchia verde che accoglie il complesso di edifici dell’estesissimo kōkyo, la Residenza Imperiale, di cui è visibile solo ogni tanto qua e là una porzione di tetto, una carpa di terracotta sfiorata dai raggi di un sole assonnato che bacia oltre ai famosi pini dalla struttura arzigogolata anche gli edifici di vetro della città circostante… poter immortalare tutto in un unico “click”.

Questo e un’altra infinità di caratteristiche creano l’immagine stravolgente e scioccante di Tokyo… essere sopraffatta da tutto ciò mi ha fatto capire in soli tre mesi il significato che per me ha la parola “vivere”.

 

 

Eleonora Bertin       

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