Suzuki D.T. e il ruolo dello Zen in occidente

Il saggio di Herrigel è responsabile in buona misura dell’immagine che il pubblico occidentale si è formato a proposito dello Zen, senza mettere in dubbio l’attendibilità dell’autore. L’interesse di Herrigel per lo Zen non nasce da uno studio diretto delle fonti ma proviene dalla lettura dell’opera di divulgazione di D.T. Suzuki (Daisetsu Teitarō, 1870-1966).

È stato attraverso l’opera di questo studioso che lo zen arriva alla piena visibilità in occidente. Egli si assunse il compito di divulgare lo Zen e interpretarlo per l’occidente, al fine di renderlo un argomento di interesse per tutti gli studiosi occidentali di religioni e non solo per gli orientalisti ancora legati ai resoconti dei missionari. La principale preoccupazione di Suzuki fu quella di creare una base dottrinale per definire il buddhismo in modo univoco. Con Awakening of faith in Mahayana (1900) contribuì alla formazione di una precettistica propria dello zen.

Il suo maestro Shaku Sōen (1859-1919) fu il primo ad andare negli Stati Uniti nel 1893. Altri esponenti della sua scuola furono Nakuriya Kaiten (1867-1934) autore di The Religion of the Samurai, (London 1913) e Anesaki Masaharu (1873-1949). Essi tuttavia non avevano la conoscenza della lingua inglese di Suzuki e la loro influenza era destinata a durare poco. Okakura Kakuzō (1863-1913) con il suo The Book of Tea (1906) contribuì all’emergere del cosiddetto “zen orientalism” : insieme a Zen and Japanese Culture (1959) di Suzuki questi saggi puntarono l’attenzione soprattutto sugli aspetti legati alla sensibilità artistica e al gusto estetico dello Zen intendendoli come elementi quintessenziali dello spirito giapponese. Un successivo contributo alla divulgazione della filosofia zen fu elaborato dalla cosiddetta “Scuola di Kyoto”, fondata da Nishida Kitarō (1870-1945), amico di Suzuki.

Nel suo saggio The Zen of Japanese Nationalism, Robert Sharf contesta l’idea di Zen come “pura esperienza” che trascenda qualsiasi forma di pensiero e discute sulla genesi di questa interpretazione che ha avuto tanto successo e seguito in occidente. Secondo Earhart, lo Zen è certamente l’aspetto più popolare e conosciuto del buddhismo giapponese ma non necessariamente quello meglio compreso. Il particolare interesse che lo Zen ha suscitato in occidente, grazie ai suoi divulgatori, ha fatto sì che gli si attribuisca un ruolo primario nella storia del buddhismo in Giappone, come se rappresentasse lo spirito della nazione.

Nel considerare il rapporto fra Zen e arti marziali, Suzuki mette in relazione l’atteggiamento di non interferenza della mente presente nello Zen, con l’analoga disposizione mentale che costituisce un elemento vitale nell’arte della spada. È come una barca che scende le rapide senza scosse: nello Zen, e così pure nella scherma, è estremamente preziosa una mente senza esitazioni, senza interruzioni, senza nulla di intermedio.

Anche la diffusione delle arti marziali deve molto a Suzuki. Dal Giappone le arti marziali sono state introdotte prima negli USA, dove si praticano già da circa un secolo, ma solo dal secondo dopoguerra sono diventate progressivamente popolari anche in Europa.

In Occidente si praticano arti marziali orientali per varie ragioni. Alcuni intendono imparare tecniche di autodifesa; altri per restare in forma, considerandole una forma esotica di esercizio fisico. Alcuni iniziano ad allenarsi in cerca di illuminazione: da quando D.T. Suzuki ha introdotto l’idea che le arti marziali siano una via per l’illuminazione, nel suo libro Zen and Japanese Culture (1959), le arti marziali sono state percepite come una forma di “zen in movimento”.

Anche se le motivazioni che hanno spinto a iniziare spesso rimangono, continuando la pratica si sviluppano nuove motivazioni che vanno dal senso di sicurezza dato dagli esercizi, al senso di appartenenza e cameratismo del dōjō, oltre al coinvolgimento in una serie di aspetti filosofici e spirituali collegati alla pratica stessa.

Non va trascurato nemmeno il fenomeno dello sfruttamento della fortuna delle arti marziali da parte del cinema e della televisione, in particolare negli USA, attraverso serie di telefilm e film avventurosi che hanno per protagonisti poliziotti esperti in arti marziali o samurai erranti, fino alle recenti rielaborazioni più sofisticate come Kill Bill di Quentin Tarantino. Tali modelli grazie alla diffusione dei media spingono verso le arti marziali un numero di persone molto maggiore di qualsiasi libro o richiamo individuale.

Chiara Bottelli, nipponista, si occupa di turismo responsabile e artigianato