Tradizioni inventate – il caso Eugen Herrigel e il maestro di kyūdō Awa Kenzō

Solo di recente, un approccio più scientifico al problema ha permesso di mettere a nudo le approssimazioni e le forzature che i primi interpreti occidentali della cultura giapponese hanno elaborato basandosi su pregiudizi inconsapevoli e informazioni indirette e falsate.

Un caso esemplare riguarda il kyūdō, l’arte del tiro con l’arco, resa popolare in Occidente da Eugen Herrigel (Lo Zen e il tiro con l’arco).

Un recente studio di Yamada Shōji ha permesso di sfatare il mito creato in occidente da Herrigel secondo cui l’arte del tiro con l’arco giapponese sarebbe una pratica di allenamento spirituale.

Il rapporto Zen/kyūdō non ha fondamento storico così come le immagini e i miti che circondano lo Zen, noti grazie alla divulgazione in occidente di D.T. Suzuki, sono stati recentemente riveduti e reinterpretati.

Lo zen infatti non è il fondamento sapienziale del kyūdō e tanto meno chi lo pratica lo fa necessariamente con finalità di tipo spirituale.

Il libro di Herrigel è stato pubblicato in Germania nel 1948 e racconta l’esperienza vissuta in Giappone dall’autore nell’apprendimento del tiro con l’arco sotto la guida del maestro Awa Kenzō, dal 1924 al 1930.

Yamada sottolinea come Herrigel non possa essere attendibile come interprete della cultura giapponese perchè non conosceva la lingua (utilizzava un interprete); inoltre basava la propria conoscenza dello Zen solo sulla divulgazione di Suzuki ed ebbe per maestro Awa Kenzō (1880-1939) che a sua volta non era rappresentativo della corrente di kyūdō più affermata in Giappone. Awa Kenzō era infatti considerato un eccentrico; fondò una nuova religione, il Daishadōkyō (che puravendo tratti mistici non aveva nulla a che fare con lo Zen. Quando Herrigel iniziò con il tiro con l’arco, Awa iniziava a formulare la propria dottrina basata su esperienze spirituali personali. I due episodi che Herrigel ritiene fondamentali per dimostrare la propria tesi hanno luogo in assenza dell’interprete, che peraltro si ritiene non fosse in grado di riportare fedelmente in inglese il pensiero del maestro. Il proprio desiderio di comprendere lo Zen ha portato Herrigel a una serie di interpretazioni sbagliate.

La vita di Awa Kenzō è interessante ai fini della nostra ricerca perché ricalca sia le esperienze di parecchi fondatori di Nuove Religioni sia quelle legate a nuove elaborazioni di arti marziali nel clima culturale della restaurazione Meiji.

Secondo la biografia commemorativa scritta da Sakurai Yasunosuke,  Awa nacque nel 1880 nella prefettura di Miyagi, primogenito della famiglia Satō che operava nella lavorazione del riso. A vent’anni sposò una ragazza della famiglia Awa e venne adottato prendendo il cognome della moglie. A 21 anni iniziò ad allenarsi in kyūjutsu alla scuola Hekiryū Sekkaha dal maestro Kimura Tatsugorō e ricevette dopo solo due anni il diploma della completa trasmissione (il più alto) Menkyo kaiden, e aprì la propria palestra. Nel 1910 si trasferì a Sendai e cominciò a studiare il kyūjutsu della Hekiryū Chikurinha sotto la guida di Honda Toshizane diventando istruttore presso la Scuola Superiore Numero 2 (Daini kōtō gakkō).

Cominciava tuttavia a nutrire dei dubbi sulla sua scuola di tiro con l’arco. Nel manuale tradizionale della dottrina Sekkaha, Yoshida Toyokazu scrive che all’inizio ognuno deve imparare correttamente le tecniche di tiro, postura, impugnatura, tensione, bilanciamento ecc. Solo dopo un tempo di preparazione sufficiente l’allievo può essere in grado di fare a meno delle tecniche: la freccia scoccherà naturalmente.

La massima “non c’è bisogno di nulla” (nani mo iranu, ) verrà isolata da Awa come interpretazione estremizzata a base della sua nuova dottrina, lo shadō, la via del tiro con l’arco opposta a kyūjutsu. Questa posizione suscitò molte critiche da parte dei maestri di questa arte. Tutto ciò avveniva tuttavia nell’ambito di quel clima particolare segnato dalla trasformazione da scuola dijūjutsu a jūdō da parte di Kanō Jigorō.

La biografia di Sakurai citata da Yamada descrive l’inizio di questa nuova religione come frutto di un’esperienza mistica: una notte, nel suo quarantesimo anno di età, dopo un intenso allenamento il suo io, jiko) esplode in una miriade di granelli di polvere colorata e viene assalito da una grande onda di luce.

Awa ricava da questa esperienza una lezione: ciascuno deve allenare la propria energia mentale shinki e generare energia spirituale reiki. In questo modo si entra nella Via Assoluta, zettaidō) che mette da parte la relatività, sōtai e si può vedere la vera natura del tiro, sharikenshō). La parola kenshō (vera natura, avere l’illuminazione) appartiene alla terminologia Zen, ma per il resto nella dottrina di Awa sono assenti altri elementi assimilabili allo Zen.

Nel 1927 Awa fondò ufficialmente la nuova organizzazione della Grande Dottrina della Via del tiro con l’arco, Daishadōkyō. La “Grande Dottrina” a cui Herrigel si riferisce era dunque questa nuova religione e non lo zen. Awa considera il tiro con l’arco una religione e lui stesso  cercò di diffonderla con un lavoro missionario fukyō. Awa morì nel 1939 e, nonostante il suo stile di tiro con l’arco sia ancora praticato, la sua nuova religione si esaurì con lui.

Come potè Herrigel associare l’insegnamento di Awa allo Zen? Herrigel era nato ad Heidelberg nel 1884 e aveva studiato il mistico tedesco Meister Eckhard (1260- 1327). Oltre alle sue “preoccupazioni” mistiche era stato influenzato dai saggi di D.T. Suzuki sul buddhismo zen, secondo il quale tutta le espressioni della cultura giapponese (l’arte, lo spirito dei samurai, l’estetica e la morale) hanno nel buddhismo zen una radice in comune e possono essere comprese solo conoscendo profondamente questa radice. Herrigel partì quindi per il Giappone con l’intenzionedi scoprire lo Zen attraverso una espressione artistica geidō .

Il collega Komachiya gli presentò il maestro Awa che alle sue domande razionali rispondeva con parole che trascendevano la logica. Questa circostanza permise ad Herrigel di interpretare liberamente le sue parole. Uno dei motivi del successo letterario del libro in Europa fu proprio nell’alone di mistero ed esoterismo presentato da Herrigel nella sua esposizione.

Consideriamo le caratteristiche dei protagonisti. Come dimostra Yamada nel suo studio, Awa stava cercando di fare del tiro con l’arco una nuova religione. Herrigel non aveva gli strumenti per comprendere la natura idiosincratica di Awa nell’ambito del panorama religioso giapponese e riconosceva come maestro di Zen un personaggio che invece promuoveva una dottrina del tutto estranea allo Zen.

Come avvenivano dunque le conversazioni fra i due? Il primo degli episodi a cui si è accennato in precedenza, chiarisce questo aspetto. Si tratta di un doppio tiro al buio. Il maestro scocca una prima freccia e colpisce il bersaglio. Scocca quindi una seconda freccia che colpisce la prima, spezzandola.

Si tratta di una coincidenza, anzi di un errore. Infatti il maestro non si esprime sull’accaduto, ma Herrigel lo interpreta come segno di assoluta maestria rimanendone stupefatto. Egli non sapeva che per i praticanti di kyūjutsu è una grave mancanza rovinare l’attrezzatura. Herrigel riporta l’episodio riempiendolo di significato mistico convinto di poter contare sulla sua capacità di interpretare “da mente a mente” ishin denshin, non avendo accanto il traduttore.

Komachiya stesso spiega le difficoltà del tradurre un linguaggio difficile e improvvisato, farcito di espressioni contraddittorie e criptiche come quelle di Awa. Il secondo episodio dimostra come Herrigel abbia costruito una serie di deduzioni a partire da una frase pronunciata dal maestro e probabilmente resa in modo impreciso dall’interprete. Secondo Herrigel il maestro afferma che il colpo “si tira”, indipendentemente dalla volontà dell’arciere. La particella impersonale intenderebbe qualcosa che trascende l’io.

A parte il fatto che nessun altro allievo parla di questa dottrina e Herrigel la cita solo nella edizione del 1948 (e non quella del 1936, forse per aggiungere spessore alla tesi), è più probabile che alla base del malinteso ci sia una cattiva interpretazione/traduzione. La traduzione in giapponese di “si tira” suonerebbe sore ga iru. Tuttavia, secondo Feliks Hoff, presidente della Federazione Kyūdō tedesca, potrebbe trattarsi della traduzione di sore deshita! così è, ben fatto! (“that’s it!” che invece fu tradotto con “it shoots!”).

Nonostante Herrigel abbia vissuto in Giappone per sei anni, i suoi scritti sono pieni di esagerazioni e cattiva informazione. Le intenzioni individuali di Herrigel alla ricerca dello zen negli elementi del tiro con l’arco giapponese hanno dato origine a un mito moderno che ancora oggi resiste: il suo libro continua ad essere ristampato e letto in tutto il mondo.

Occorre anche ricordare la successiva attività di Herrigel al suo ritorno in Germania come autore di un manuale per le truppe del Terzo Reich infarcito di ideologia e misticismo liberamente ripresi dall’etica dei samurai.

Chiara Bottelli, nipponista, si occupa di turismo responsabile e artigianato