Aikidō: le caratteristiche della pratica

L’aikidō si pratica su un tatami, indossando il keikogi, la classica divisa di cotone bianco usata per il jū, ma sono accettate anche le divise da karate e da kung fu, purché bianche. Ad eccezione dei bambini, per i quali solitamente si tengono apposite lezioni, i corsi sono aperti a tutti indipendentemente dal sesso o dall’età poiché l’aikidō si prefigge di essere una disciplina praticabile da chiunque. Ai principianti vengono in primo luogo insegnate le tecniche di caduta (in avanti e all’indietro), gli spostamenti e le tecniche di base. Le lezioni iniziano in ginocchio, seduti sui talloni, con un breve momento di concentrazione, seguito dal rituale saluto a un’immagine del Fondatore dell’aikidō e all’insegnante, e continuano con esercizi di respirazione profonda e di concentrazione (kokyū soren, controllo dell’energia totale attraverso il metodo della respirazione). Preparati così mentalmente e spiritualmente, si eseguono velocemente alcuni esercizi di riscaldamento, di allungamento muscolare e le cadute. L’apprendimento avviene principalmente per imitazione.

Come nella realtà non esiste una sola possibilità di attacco, così nell’aikidō (a differenza per esempio dal jū) non esistono prese prestabilire al keikogi dei praticanti poiché l’allenamento mira ad abituare mente e corpo a neutralizzare diversi tipi di aggressione (una presa al polso o alla giacca, un pugno allo stomaco, un colpo alla testa, un tentativo di immobilizzazione da tergo, ecc.).

Un assistente simula quindi in modo veritiero un attacco all’insegnante che di volta in volta, mostra le possibili risposte difensive. Gli allievi poi, in coppia, ripetono quanto visto, scambiandosi a turno i ruoli di aggressore e difensore per consentire a entrambi di sperimentare e “sentire” la tecnica tanto da parte di chi la esegue, quanto da parte di chi la subisce. Ogni tecnica viene eseguita ripetutamente da ciascun praticante sia con la parte destra dei corpo sia con la sinistra, effettuando un’entrata nello spazio morto dell’attacco o aggirandolo sul fianco.

Oltre a quelle a mani nude si studiano anche, in funzione propedeutica, tecniche con il jo (bastone di legno lungo 126 cm) e con il bokken, una copia in legno della classica spada giapponese usata per l’addestramento nelle antiche scuole di scherma.

Nel rispetto della tradizione marziale giapponese, la pratica dell’aikidō contempla anche l’esecuzione in ginocchio delle stesse tecniche apprese in piedi contro un  ipotetico aggressore, anch’egli in ginocchio o in posizione eretta.

Non essendo previsti pugni, calci o “spazzate” eseguite con le gambe, l’aikidō è sicuramente l’arte marziale che conta la più bassa percentuale di infortuni, in rapporto al numero dei suoi praticanti e alle tante ore di allenamento. Nell’aikidō non esistono cinture di diverso colore per distinguere i livelli di capacità raggiunti; la progressione nell’apprendimento e il grado di abilità conseguiti vengono ufficialmente riconosciuti attraverso il superamento delle relative prove d’esame stabilite dal programma didattico dell’Aikikai. Solo le cinture nere sono autorizzate ad indossare lo hakama (gli ampi pantaloni dei costume tradizionale giapponese).

Proponendosi in primo luogo come via di educazione morale e di mutuo rispetto, a differenza di altre arti marziali che hanno accentuato l’aspetto dell’agonismo sportivo finalizzato alla vittoria, l’aikidō rifiuta di divenire uno sport competitivo e rigetta tutte le forme di competitività o gare, poiché il desiderio di primeggiare finisce per alimentare l’egocentrismo e l’egotismo.

Per questo motivo nell’allenamento dell’aikidō non c’è un avversario da sconfiggere, non ci sono un vincitore e un perdente, ma solo due persone che, con modestia e spirito di collaborazione, a turno si scambiano i ruoli entrambi parimenti importanti nell’infinito processo dell’apprendimento.

Chiara Bottelli, nipponista, si occupa di turismo responsabile e artigianato