Contemplare il vuoto: spunti di riflessione attorno al giardino zen (2)

 

II

Furono i religiosi zen che, a partire dal XIV° secolo, crearono uno stile nuovo di giardino, esaltato dal genio di  Musō Soseki (nome postumo: Musō Kokushi, 1276-1351), importante maestro zen e consigliere degli shōgun del governo militare (bakufu) di Kamakura. Musō disegnò numerosi giardini nei quali l’importanza è data più alla sistemazione di sabbia e pietre che alla vegetazione.

Nel 1339 Musō crea un giardino nel recinto dello Saihōji (conosciuto popolarmente come Kokedera, “tempio dei muschi”), su più piani, e realizza una novità rispetto al giardino dello stile shinden: si può passeggiarvi e a ogni angolo il paesaggio cambia, mentre vi è evidente utilizzo in senso spirituale delle pietre (impiegate a simboleggiare il monte Sumeru, cascate, isole). I laici vi sono esclusi, essendo, questo luogo, destinato esclusivamente ai monaci e alla disciplina religiosa.

Nel 1342 Musō apporta ancora una innovazione nell’arte dei giardini creandone uno per il Tenryūji: il giardino e il lago che vi si trova nel mezzo sono concepiti per essere apprezzati stando seduti sulla veranda del padiglione della residenza dell’abate (hōjō): non più luogo di piaceri, il giardino è per l’ammirazione statica, meglio, diventa luogo della contemplazione della realtà profonda, luogo della meditazione zazen.

Il tempio Tenryūji, si è detto, è collegato al nome di Musō Soseki che ne fu il fondatore e ne disegnò il celebre giardino il cui stagno riprende la forma del segno calligrafico che trascrive il termine “cuore” (kokoro).  Cuore è, nello Zen, non solo il luogo della coscienza, ma l’essenza stessa dell’uomo e, in definitiva, la natura-di-buddha (busshō) che è insita in ognuno: si tratta quindi della rappresentazione simbolica di quello che è uno dei concetti base dell’insegnamento zen. Lo stagno, il gruppo di rocce che rappresenta una cascata senz’acqua (karetaki), l’utilizzo dei monti Arashiyama e Ogura che si elevano sullo sfondo (pratica dello “shakkei” ovvero del “paesaggio preso a prestito”), tutto testimonia della capacità straordinaria di Musō Soseki di concepire il paesaggio come un dipinto, del suo genio pittorico.

Sarebbe facile pensare a una progressiva eliminazione degli elementi vegetali dalla composizione dei giardini e quindi concepire il karesansui, il giardino secco considerato nell’immaginario europeo e americano come “il giardino zen” per eccellenza, come il punto d’arrivo di un percorso evolutivo. In realtà spesso il giardino di rocce e il giardino verde coesistono uno accanto all’altro, come nel Saihōji o nel Tenryūji, risalgono alla stessa epoca e, in molti casi, sono dovuti allo stesso creatore. In uno prevale l’idea di riduzione degli elementi alle sole pietre e ghiaia, nell’altro le piante, le essenze, scelte accuratamente, rispondono a una logica in cui l’acqua occupa un posto prevalente e sostanziale. Entrambi, però, rispondevano alle esigenze dei monaci di un luogo solitario in cui compiere la meditazione (nel giardino del Saihōji grandi pietre piatte, collocate nelle radure fra gli alberi, avevano il ruolo di “piedistalli/piattaforme” per la meditazione, zazen seki) piuttosto che di oggetto di ammirazione.

Ma è evidente che il karesansui, per la sua peculiarità, pone ancor oggi interrogativi circa la sua origine e il suo significato.

Fra le varie ipotesi espresse dagli studiosi circa l’origine del giardino secco, una delle più interessanti e affascinanti resta ancora, a nostro avviso, quella che individua una filiazione del karesansui dalle aree sacre dello Shintō dei primi secoli, quelle distese di ghiaia osservabili ancora al santuario di Ise e nell’ampio spazio davanti allo Izumo Taisha. Un’ipotesi, questa, avanzata da più studiosi e in particolare dal celebre architetto Horiguchi Sutemi (1895-1984), il quale sostenne l’affinità fra un giardino di rocce come il Saihōji (opera di Musō Sōseki) e i recinti sacri dello Shintō.[i]

Hayakawa Masao, storico dei giardini, non concorda.[ii]

Per Hayakawa, infatti, l’emozione ispirata dalla vista dei recinti sacri o degli iwakura è data dall’osservare un elemento creato dalla natura, mentre l’emozione dei giardini di Musō è data dai risultati del genio umano. In entrambi i casi è una mutua consonanza, uno scambio reciproco fra forma fisica e cuore dell’uomo ma si parte da una diversa questione di precedenza: nello spazio shintō la forma naturale precede e determina la reazione dell’uomo, mentre nel giardino zen viene prima l’emozione dell’uomo che è espressa deliberatamente nella forma: è in tal modo che, secondo Hayakawa, nasce il fatto artistico.

L’ipotesi che qui vorremmo sostenere è quella di una possibile filiazione il cui trait-d’union potrebbe essere individuato negli spazi bianchi di ghiaia dei cortili imperiali, spazi cerimoniali non calpestabili, delimitati da cespugli o da alberi sacri, come nei cortili del palazzo imperiale di Kyōto (Kyōto Gosho, cortili dello Shishiden e del Seiryōden), e nel più tardo Heian Jingū (grande santuario shintō di Kyōto) che riproduce, in scala ridotta, l’architettura della residenza imperiale.

Rossella Marangoni

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