Il senso della bellezza giapponese e l’architettura sukiya (4)

“Il godimento risiede nel non fatto”

Zeami, (1363?-1443?), nell’opera Kakyō che egli scrisse per trasmettere i segreti del teatro noh, parla del fatto che “il godimento risiede nel non fatto.” “Il non fatto” si riferisce alla cessazione di tutte le espressioni, musicali o vocali, durante brevi e silenziosi intervalli che si realizzano quando un passaggio di danza o di canto si muove verso quello successivo. Non è né un vuoto arresto né una pausa silenziosa, ma l’utilizzo di un breve intervallo in cui trasuda la tensione interiore dell’artista ed è trasformata in qualcosa dal forte impatto come un’espressione senza espressione. L’arte di un maestro deve includere l’espressione dell’inespresso e “il godimento risiede nel non fatto” è la spiegazione di Zeami di questa estetica dell’intervallo nel teatro noh.

La parola “omoshiro(ki)” che Zeami utilizza per esprimere il godibile è scritta oggi con i kanji di “faccia” e “bianco” ed è utilizzata di solito per esprimere una sensazione piuttosto superficiale di divertimento o piacere. L’antica raccolta di poesie Manyō Shū, comunque, scrive “omoshiro” utilizzando due kanji che denotano l’emozione, il cui significato combinato si traduce con qualcosa come “pietoso”. “Omoshiro” esprime così un movimento emotivo del cuore che coinvolge l’amore della bellezza e una tenera sensazione di pathos. “Il non fatto” di Zeami connota un filtrare verso la tensione interiore, così questo “godimento” denota chiaramente il significato più antico e più profondo di omoshiro utilizzato nel Manyō Shū.

Come dichiarato in precedenza, la bellezza dei dipinti giapponesi Zenga e della forma d’arte haiga (haiku più pittura) si dice risieda nello spazio bianco. Su un puro foglio bianco, il posizionamento di alcune pennellate che rappresentano un ramo di pruno e un uccello canoro appollaiato basta a convogliare l’idea dell’inizio di primavera. Il resto della carta è lasciato vuoto – il “non fatto” a cui si riferisce Zeami. Guardando questo spazio vuoto bianco, ciascun spettatore lo riempie con la propria immagine di primavera, che sia il panorama primaverile della propria città natale, ricordi di una visione durante i propri viaggi o qualcosa d’altro. il godimento dello Zenga e dell’haiga risiede in questo spazio vuoto e bianco del “non fatto” che esiste fra l’immagine reale rappresentata nel dipinto e l’immagine che risiede nel cuore dello spettatore.

La bellezza del silenzio

Nella sua opera Die Welt des Schweigens, Max Picard scrive: “La natura essenziale di Dio è il silenzio. La natura essenziale degli esseri umani è il linguaggio.” (Ritradotto dalla traduzione giapponese di Toshikatsu Sano, Tokyo: Misuzu Shobo, 1964). Dalla nascita, gli esseri umani sono incapaci di silenzio.

Ignazio, il Patriarca di Antioco, ha descritto Gesù come “Il Verbo nato dal silenzio”, riferendosi a una divinità la cui natura fondamentale è silenziosa. Picard continua a scrivere: “Il silenzio non è in nessun modo un’entità negativa, né è il mero atto del “non parlare”. È una forza positiva che esiste indipendentemente dal proprio mondo completo”. Ciò si lega alle parole di Zeami, “il godimento risiede nel non fatto”, e all’estetica dell’intervallo.

La bellezza del contrasto duale

Nella sua opera Iki no Kōzō [La struttura dell’Iki], il filosofo Kuki Shūzō (1888-1941) esprime il concetto dell’iki (attrazione dell’eleganza) del periodo Edo (1603-1867) come la forma ultima conseguita attraverso il contrasto duale. Può essere utilizzata per descrivere tutti i fenomeni culturali ed è perfetta per spiegare le forme architettoniche giapponesi. “Iki” può essere simbolizzato dalla tensione presente poco prima che un uomo e una donna si bacino per la prima volta. In questo stato, i due sono infinitamente vicini anche se assolutamente non congiunti, e la tensione che deriva dalla contemplazione duale del loro potenziale combinato si lega al concetto di iki. In termini semplici, l’”iki” di Kuki richiede raffinatezza, spirito vigoroso e seduttività.

Applicando l’esempio concreto dell’architettura giapponese alla precedente analogia, consideriamo qui il rapporto fra il tetto, che sarebbe l’uomo, e le pareti, paragonabili alla donna. Il tetto e le mura esistono in infinita riconciliazione, tuttavia qualsiasi connessione diretta è interrotta dalla creazione degli spazi fra la parte sottostante il cornicione e le mura. Se a queste entità duali è concesso connettersi e combinarsi, la tensione e quindi l’”iki” dell’architettura andrà persa.

Izue Kan