“Addio a questo mondo e alla notte”: i valori paralleli di giri e ninjo e il doppio suicidio d’amore.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nel Giappone sotto il dominio degli shōgun Tokugawa (1603-1868) il matrimonio all’interno della classe dei guerrieri era fortemente condizionato dalle alleanze fra clan, mentre nelle città e nelle campagne vi era maggior libertà di scelta. Ma se nelle campagne, poiché non vi erano sanzioni morali al riguardo, ogni tipo di unione era accettato e le coppie potevano unirsi liberamente, nelle città i matrimoni d’amore (ren’ai kekkon) erano fortemente scoraggiati e ciò portava spesso gli innamorati al doppio suicidio d’amore (shinjū), una pratica che venne messa fuori legge sotto lo shōgun Yoshimune (al potere dal 1716 al 1745), ma che continuò a essere presente nelle cronache e ad essere al centro di molti drammi teatrali.

Se il matrimonio d’amore era ampiamente scoraggiato ciò è dovuto al fatto che presupponeva che l’interesse del singolo prevalesse sull’interesse della famiglia, cosa inammissibile secondo la morale prevalente durante il periodo Tokugawa. L’individuo doveva sottomettersi alle necessità e alle scelte della famiglia, questo ovviamente era causa di forti conflitti interiori. L’individuo, infatti, non si sarebbe mai messo contro i propri genitori. Il disagio, però, era diffuso. Nelle classi benestanti era possibile per un uomo sposare una donna che gli veniva imposta dal padre e intrattenere poi relazioni extraconiugali con donne, spesso cortigiane o geisha, che finiva con il mantenere. Ma non sempre ciò era possibile. Ecco che allora si sviluppò l’idea del contrasto giri-ninjō (dovere-sentimento) che tanto ebbe posto nella letteratura e nel teatro dell’epoca.

Benché si presenti a volte la tentazione di attribuirlo esclusivamente ai rapporti umani vissuti nella shitamachi, la città bassa del popolino, il ninjō, ovvero l’insieme dei sentimenti umani, delle passioni, delle inclinazioni personali che animano l’individuo, era vissuto inevitabilmente da ogni uomo nelle relazioni interpersonali (ninjō significa letteralmente “sentimenti verso l’altro”), così come il giri, ovvero le obbligazioni sociali, una nozione istituzionalizzata durante l’epoca feudale.  Non adempiere al giri, obbligazione che poteva coinvolgere anche persone dello stesso livello sociale, portava inevitabilmente non solo alla perdita di fiducia della persona con cui si aveva contratto il debito, ma anche a una stigmatizzazione generalizzata del proprio comportamento e all’isolamento dalla comunità. Conseguenze intollerabili per qualsiasi individuo. Da qui nasce quella tensione interiore, quel conflitto fra due spinte centrifughe che portano il soggetto a scelte drammatiche e fatali, come accade, spesso, ai protagonisti dei drammi del teatro delle marionette jōruri e del teatro d’attori kabuki, drammi che, nella maggior parte dei casi, non facevano che rielaborare episodi della cronaca.

Occorre però avere ben presente la distinzione fra la natura del concetto di giri presso i chōnin (ossia la popolazione urbana, costituita perlopiù da mercanti e artigiani) e presso i bushi. Il concetto di giri, cioè di un ideale morale da perseguire nei rapporti con gli altri individui, si andò modificando nel corso del periodo Tokugawa.  Il giri per i bushi coincideva sia con il dovere di lealtà nei confronti del proprio signore (ideale meglio espresso dal termine chūgi), sia con l’iji, l’orgoglio e il rispetto per se stessi. Col tempo si applicò il giri a regole morali già esistenti e questo ne modificò la natura. Ogni classe sociale aveva le sue norme di corretto comportamento ed era obbligata dal giri a compiere le proprie funzioni scrupolosamente. Ma il giri era importante soprattutto per la classe dei samurai. E all’epoca il concetto di giri era profondamente imbevuto di bushidō e adempiere alle richieste del giri era diventato l’ideale più elevato del guerriero: ricevendo uno stipendio, il bushi incorreva nell’obbligazione di dare la sua vita, se necessario, per il suo signore. Collegato a questo principio era l’obbligazione di fare qualunque sacrificio per ripagare una gentilezza o per onorare un impegno. Accettando un favore o dando la sua parola, il samurai impegnava il proprio onore e impegnava la propria reputazione.

Ma anche un chōnin era sottoposto ad altrettanti doveri legati alla propria classe, quella dei mercanti e degli artigiani, che richiedevano lo stesso impegno incondizionato. Ma, mentre l’opinione pubblica avrebbe accordato la propria simpatia a un chōnin che si fosse suicidato piuttosto che adempiere a un obbligo che contrastava i normali sentimenti umani, un bushi, nello stesso caso, avrebbe patito la più grave onta, perché un guerriero non poteva esitare davanti al proprio dovere, né poteva permettersi di mostrare debolezza o dolore.

Quindi occorre distinguere fra i soggetti sottoposti al conflitto giri-ninjō e tener presente che la percezione di tale conflitto mutò nel corso del tempo. Addirittura, per lo storico della letteratura Katō Shūichi, il rapporto girininjō sembra rappresentare una falsa dicotomia. Lo studioso giapponese, infatti, sostiene che ci si trovi in presenza sì di un duplice sistema di valori, ma che questi attengano a due ambiti ben distinti: omote (esterno) e ura (interno), o, anche, facciata/lato nascosto, anche questa una dicotomia utilizzata frequentemente nel campo della cultura giapponese.  Questi ambiti non interagiscono e la loro esistenza parallela era favorita dalla capacità dei giapponesi del periodo di far coesistere norme comportamentali imposte dalle autorità (quali le obbligazioni sociali), e i sentimenti e le emozioni interiori, senza che gli uni invadessero il campo degli altri. Katō illustra così la sua opinione al riguardo:

Giri (che vale “obbligazione”) è il valore “esterno” (omote) e codice di comportamento di rinuncia, mentre ninjō (“sentimento”) è interiore (ura) e si richiama alla voluttà delle sensazioni. Ciò non significa che ci sia una netta frattura tra gli ideali dell’omote e la realtà dell’ura. Erano ambedue presenti: il confucianesimo predicava il giri e un’etica di autocontrollo; il teatro e i romanzi esaltavano il ninjō e proclamavano il diritto al piacere. Da una parte vi era l’esigenza dell’ordine sociale, dall’altra le spinte emotive del singolo. Norme esterne di comportamento da una parte, valori interiori dall’altra. Le norme esterne, garantite dalla pressione del potere delle autorità samuraiche, rimanevano pur sempre esteriori, non venivano interiorizzate dal singolo per rimpiazzare il ninjō o per contrapporsi ad esso. Allo stesso modo il ninjō non fu mai portato all’esterno e codificato come norma di comportamento sociale. Si può dire che questa coppia di valori procedesse in parallelo, soddisfacendo a necessità diverse. I  bushi non erano insensibili al ninjō, i chōnin non poterono mai liberarsi del tutto dal giri, ma la differenza sta nel modo in cui ciascuno di questi due valori veniva trattato nelle opere nelle quali essi si identificavano.”[1]

Comunque lo si interpreti, il conflitto fra dovere e sentimento caratterizzò la vita giapponese durante il periodo Tokugawa e influì anche sulla letteratura e il teatro che attinsero a piene mani dalla cronaca.

Spesso, infatti, il conflitto era talmente insopportabile che l’individuo sceglieva la morte pur di uscire dal vicolo cieco in cui si sentiva intrappolato. Nella maggior parte dei casi si trattò di doppio suicidio, o suicidio d’amore, denominato shinjū 心中(il significato originario era “prova di fedeltà, prova d’amore”), vale a dire del suicidio di due amanti impossibilitati a realizzare il loro sogno d’amore. Il doppio suicidio certo rappresentava un sussulto di ribellione, un rifiuto di assoggettarsi all’omologazione generale, alle imposizioni sociali e, come tale, riscosse sempre la comprensione, la simpatia, la partecipazione dei chōnin. La scelta della morte per una coppia di chōnin rappresentava un’azione ben diversa dalla scelta di morte di un bushi, per il quale la morte non simboleggiava altro che l’ideale di sacrificio, di dedizione totale al proprio signore e, in ultima analisi, anche il proprio orgoglio. Ma questa mistica della morte era assolutamente estranea alla mentalità dei cittadini del periodo Edo: la morte è allora solo l’unico mezzo per vedere trionfare la loro passione e per uscire dal conflitto insanabile fra individuo e società, fra obblighi sociali e sentimenti umani. Inoltre occorre vedere alla base di questo atto anche la presenza di un concetto buddhista, quello di onri edo ossia “odiare e lasciare questa sporca terra” e di gongu jōdo, vale a dire il desiderio di rinascere nella Terra Pura, nel paradiso del Buddha Amida, la cui devozione era diffusa fra il popolino.

Gli shinjū furono numerosissimi nel corso di tutto il periodo Edo, ma la pratica non venne mai definitivamente abbandonata, e se ne registrano esempi ancora nel XX secolo. Certo è che lo shogunato si rese ben presto conto del potenziale di ribellione costituito da questa pratica e lo represse ferocemente. Non solo lo shinjū fu proibito dallo shōgun Yoshimune, ma addirittura si proibì, nel 1722, qualsiasi opera che esaltasse simili episodi, la cronaca di casi veri e persino l’utilizzo della parola “shinjū”. Questo non scoraggiò autori come il grande drammaturgo Chikamatsu Monzaemon (1653-1724) che sublimò poeticamente due episodi di cronaca nei suoi capolavori Sonezaki shinjū (Doppio suicidio a Sonezaki, 1703) e Shinjū ten no Amijima (Doppio suicidio celeste a Amijima, 1720).

La mano del potere si abbatteva implacabile su chi sceglieva la via dello shinjū. L’editto contro il doppio suicidio venne affisso nel punto di maggior passaggio del Giappone, il Nihonbashi (il “ponte del Giappone”), nel cuore di Edo: nel caso di morte per entrambi gli amanti, veniva disposto che il loro corpo non venisse sepolto. Se restavano solo feriti, occorreva curarli e, una volta ristabiliti, sarebbero diventati hinin, posti al di fuori della società, emarginati. Nel caso fosse sopravvissuta la donna, sarebbe stata imprigionata, mentre se fosse stato l’uomo a sopravvivere, sarebbe stato messo a morte. A tal scopo fu eretta un’edicola proprio presso il Nihonbashi: lì sarebbero state esposte, per tre giorni, le teste degli sfortunati che, sopravvissuti, avevano dovuto subire la pena capitale.

Rossella Marangoni

* Questo testo è legato alla conferenza “Storie di amore e morte nel teatro kabuki e nel teatro delle marionette”.

Giorni d’Asia: Giappone. Abbiategrasso, Castello Visconteo, sabato 4 febbraio, ore 14.30.



[1] KATŌ Shūichi, Storia della letteratura giapponese, Venezia, Marsilio, 1989,  pp. 49 e 50.