Intervista: “Udaka Sensei”

Fabio Massimo Fioravanti

intervista di Manuela De Leonardis

Udaka Sensei è la storia dell’incontro tra il maestro giapponese Udaka Michishige (Kyoto 1947), uno dei più grandi attori viventi del teatro Nō e il fotografo italiano Fabio Massimo Fioravanti.
Un racconto inedito che si svolge attraverso una selezione di trentasei scatti a colori realizzati nel 2012, nel passaggio tra due stagioni: primavera/estate e autunno/inverno.
La narrazione procede per piani paralleli. In primo piano sono inquadrate quindici maschere nelle categorie di: dei, guerrieri, donne, uomini, fantasmi e demoni, che con ventagli e costumi sono tra gli elementi visivi basilari del Nō, teatro antichissimo e raffinatissimo.
Queste maschere appartengono alla collezione di Udaka Michishige che, oltre a essere attore di talento riconosciuto nel suo paese come “Bene Culturale Nazionale Immateriale” (National Intangible Cultural Asset), è anche il creatore delle maschere che indossa e che insegna a realizzare seguendo le regole della tradizione (nel 2010 è uscito il suo libro The Secrets of Noh Masks, edizione Kodansha).
Fabio Massimo Fioravanti scopre il teatro Nō già in quel suo primo viaggio in Giappone – nel 1989 – quando grazie all’amico Junkyu Mutō, noto scultore giapponese residente in Italia da oltre trent’anni, e a sua moglie Miyako Tanaami che in giovane età era stata allieva della Scuola Kongo, partecipa al progetto Antichi Costumi del Teatro Nō. La collezione della famiglia Kongo. Della Scuola Kongō, che con Kanze, Hosho, Komparu e Kita è una delle cinque scuole di attori protagonisti del teatro Nō, fa parte anche Udaka Michishige che pur non essendo membro della famiglia ha appreso quest’arte fin da bambino, grazie all’insegnamento del maestro Iwao II Kongō. L’incontro con Udaka Sensei (letteralmente il maestro Udaka) avviene, tuttavia, solo nell’aprile 2012.
La riservatezza e il rispetto che trapelano dalle immagini del fotografo italiano non sfuggono al maestro che le apprezza quanto le qualità tecniche, tanto da coinvolgerlo nella realizzazione del suo prossimo libro sulle maschere. L’attore lascia entrare il fotografo nel suo studio di Kyoto per osservare i movimenti durante le prove, i cambi di costume, la ritualità con cui prende la maschera, la indossa e poi la ripone nella sua custodia. Movimenti che si ripetono anche sul palcoscenico del National Nō Theatre di Tokyo e al Nō Theatre di Matsuyama.
Ma il momento culminante, investito di una sorta di sacralità, è quello in cui sono ammessi solo gli addetti ai lavori, nella cosiddetta “stanza dello specchio”, anticamera del palcoscenico. Questo momento è documentato dal fotografo nello scatto in cui Udaka Sensei è riflesso nello specchio al centro della gestualità delle mani degli assistenti che lo circondano e accudiscono.
Essere ammesso in questo luogo, nella fase immediatamente precedente all’entrata in scena dell’attore è un dono prezioso che il maestro gli fa. Fioravanti ne è consapevole e il suo sguardo, anche in questo contesto, non tradisce la reciproca stima. Non si avvicina troppo al soggetto, non forza i tempi. Fotografare per lui è anche uno scambio a livello umano e questo respiro permea tutte le sue fotografie.

Per il progetto del Teatro Nō sei andato più volte in Giappone…

Fino ad oggi sono stato in Giappone sette volte. Nel corso del 2012 ci sono tornato due volte. La prima volta per tre mesi, dalla fine di marzo alla fine di giugno, e poi in autunno, quando finalmente il maestro Udaka Michishige mi ha dato i permessi per fotografare il backstage al National Nō Theatre di Tokyo e a Matsuyama, da metà ottobre a metà dicembre.

Ti eri già interessato al Teatro Nō nei tuoi precedenti viaggi nel Sol Levante?

Il primo contatto con questa disciplina artistica risale al 1989, quando realizzai il catalogo per la mostra Antichi Costumi del Teatro Nō. La collezione della famiglia Kongō. Fotografai Iwao II, il caposcuola della famiglia Kongō, deceduto nel 1996. Fu una seduta di una ventina di minuti al massimo nel vecchio teatro Kongō, prima che venisse spostato nell’attuale sede. Fotografai il maestro una seconda volta a Milano, qualche mese dopo – a dicembre – in occasione dell’apertura della mostra al Castello Sforzesco. Questo è stato il punto di partenza di una fascinazione che è proseguita nel tempo anche con il progetto Zuiganji. La vita dei monaci Zen che ho realizzato nel 1997.
Questa mostra è stata ospitata nel 2010 al Museo Nazionale d’Arte Orientale “Giuseppe Tucci” di Roma e al Museo d’Arte Orientale “Edoardo Chiossone” di Genova, dove è rimasta per quasi tre anni. Ho pensato di riprendere in mano questo progetto considerando che anche il teatro Nō è legato al buddismo e allo zen, per cui rientra nello stesso tipo di ricerca.

Che tipo di esperienza è stata quella con i monaci zen nel ‘97?

Ho vissuto per un mese con i monaci di Zuiganji a Matsushima. Anche in questo caso il mio contatto è stato Junkyu Mutō, un artista giapponese che vive in Italia da molti anni, di cui sono amico oltre che il suo fotografo ufficiale dal 1985. Con Junkyu ho collaborato alla mostra sui costumi del teatro Nō e a Da Sendai a Roma: un’Ambasceria Giapponese a Paolo V al Museo Nazionale di Castel Sant’Angelo (1990/1991). La casualità ha voluto che la prima ambasceria giapponese partì proprio da Sendai, luogo natio del mio amico, e dopo un giro lunghissimo arrivò a Roma nel 1615. Il progetto dei monaci zen, in particolare, è nato da una frase del poeta errante Matsuo Basho che aveva scritto di non essere mai stato tanto felice come a Matsushima. Anche Marguerite Yourcenar, che è una delle mie passioni, ha scritto un saggio bellissimo pubblicato in Il giro della prigione, in cui sulle orme di Basho arriva a Matsushima. Matsushima è la baia che è di fronte alla città di Sendai, vuol dire “isola dei pini”. Nella baia ci sono circa duecentottanta isolotti su cui crescono i pini. Un giorno, mentre ero nello studio di Junkyu e fotografavo le sue opere, gli dissi che avevo letto quel saggio e mi sarebbe piaciuto andare a vedere il tempio di Zuiganji che si trova a Matsushima. Lui rispose subito che se volevo andare non ci sarebbero stati problemi, perché il monaco priore – Hirano Sojō – era un suo caro amico. Junkyu discende dalla famiglia di samurai Mutō legata ai Date, che erano i principi di quella zona e il tempio Zuiganji è legato alla famiglia Date. Attraverso Junkyu si sono aperte molte porte, perché questo tempio – differentemente da altri dove è possibile soggiornare e dormire – non è aperto né ai visitatori né ai pellegrini.

Facendo un passo indietro alla prima volta che sei andato in Giappone, nel 1989, cosa ti ha colpito di questo paese?

In quel primo viaggio in cui sono rimasto per un mese, dato che ero lì con Junkyu Mutō e altri collaboratori per l’organizzazione della mostra Antichi Costumi del Teatro Nō. La collezione della famiglia Kongō i primi quindici giorni trascorsero ai ritmi frenetici e organizzatissimi dei giapponesi, tra incontri, presentazioni e cene ufficiali. Non ho problemi a riconoscere che volevo scappare via di corsa. Poi, invece, ho capito che dovevo iniziare a girare per conto mio, come faccio di solito quando viaggio. A quel punto non sarei più voluto tornare in Italia. Ricordo ancora che, appena arrivati dall’aeroporto a casa di Junkyu la nonna ultranovantenne – una nobildonna nella sua casa tradizionale – si gettò a terra, prostrandosi, per darci il benvenuto. Rimasi letteralmente scioccato! Dopo tanti viaggi sono sempre più convinto che i giapponesi siano solo apparentemente occidentalizzati: per certi aspetti il Giappone è il futuro dell’occidente, ma nel profondo la tradizione è ancora fortissima in tutti gli aspetti.

Torniamo al Teatro Nō e ad uno dei suoi massimi protagonisti contemporanei: Udaka Michishige. Quando hai conosciuto il maestro?

Nell’agosto 2011 ho iniziato a pensare al progetto sul Teatro Nō, che al momento è un work in progress perché tornerò in Giappone anche quest’anno. La principale difficoltà è stata quella di trovare i contatti che mi permettessero di essere introdotto. Uno dei contatti, qui in Italia, era Matteo Casari che insegna al DAMS di Bologna, l’altro è Monique Arnaud, che oltre essere docente di regia teatrale all’Università IUAV di Venezia è anche uno shite (attore protagonista) di Nō, ed è l’unica shihan (istruttore autorizzato) ad insegnare stabilmente il Nō in Europa. Monique mi ha fatto il nome dell’INI – International Noh Institute, di cui è direttrice della sede europea – quella principale è a Kyoto – e mi ha parlato di Rebecca Teele Ogamo, il primo straniero ad essere ammesso nell’associazione di attori Nō professionisti. Lei è americana ma vive in Giappone da oltre quarant’anni. Dopo uno scambio intenso di mail, Rebecca è riuscita a fissarmi l’appuntamento nello studio di Udaka Michishige a Kyoto, nella zona nord della città. La prima volta ci siamo incontrati il 5 aprile 2012.

In quel primo incontro, però, non hai scattato neanche una fotografia!

No, perché non mi sembrava neanche educato. Prima era necessaria una conoscenza reciproca. Udaka Michishige ha almeno tre studi, a Tokyo e a Matsuyama, oltre che quello di Kyoto e ruota tra queste città dove recita e segue i suoi allievi, ma vivendo a Kyoto vi trascorre anche più tempo che nelle altre città. Dato che anche io abitavo a Kyoto, in una piccola casa che avevo affittato, lo vedevo ogni settimana. In questo suo studio fa anche lezione di danza e di realizzazione delle maschere. Comunque, per tornare alla domanda, ho iniziato a fotografarlo solo dopo una settimana, durante le prove dello spettacolo Tomonaga.

Fin dal primo approccio hai riscontrato l’apertura del maestro nei tuoi confronti.
Non solo ti ha permesso di fotografarlo, ma ne è nata anche una collaborazione.

Sicuramente il fatto che sia uno dei pochi maestri che parla l’inglese ha reso più facile il nostro incontro. Inoltre Udaka Michishige fa anche tournée all’estero (ha fatto una splendida tournée a Parigi, Dresda e Berlino nel 2007 e in Canada lo scorso anno), e non solo accetta allievi stranieri, ma si è dimostrato in grado di crescere tra loro figure di grande professionalità. Anche in questo c’è una maggiore apertura rispetto agli altri maestri che, benché siano grandissimi, hanno comunque una visione più ristretta. Non solo lui mi ha permesso di fotografarlo ma, in maniera diretta o indiretta, quasi tutti i permessi per fotografare, anche a Miwa, Nara o in altri luoghi, li ho avuti attraverso di lui e la sua collaboratrice Rebecca Teele Ogamo. In particolare ci tenevo a fotografare i backstage, perché mi ero reso conto che gli spettacoli a teatro rischiavano di essere fotograficamente tutti uguali perché anche avendo i permessi nei teatri di Nō obbligano i fotografi a stare in una unica postazione fissa in fondo al teatro. Ma per questo non mi ha permesso subito di scattare foto. Penso che volesse vedere quanto ci tenevo. Il permesso è arrivato a luglio, mentre ero già tornato in Italia. Così quando sono tornato in Giappone, a metà ottobre, ho finalmente potuto fotografare i backstage di due suoi spettacoli. Toru al National Noh Theatre di Tokyo e Sesshoseki al Nō Theatre di Matsuyama. Solo dopo aver visto una certa passione da parte mia e la costanza con cui continuavo ad andare agli spettacoli e a fotografare, mi ha chiesto se gli fotografavo le maschere per il suo nuovo libro.

Malgrado non abbia voluto che lo fotografassi troppo da vicino, Udaka Sensei ti ha
permesso di scattare delle fotografie molto private, come quelle nello studio in cui si
vedono i suoi appunti di entrata in scena, le maschere o quando è nella “stanza dello
specchio” prima dell’inizio dello spettacolo…

Sostanzialmente il Nō ha degli aspetti rituali, per cui non è possibile entrare in certi luoghi perché si verrebbe a rompere quella ritualità. I giapponesi sono molto conservativi delle tradizioni: credo che solo una persona come lui, così di ampie vedute e all’apice della carriera, si sia potuta permettere questa “trasgressione”. Quando eravamo a Tokyo, poi, anche se gli spazi erano grandi c’erano sempre molti assistenti – chi cura le maschere, chi i vestiti, il coro e i musicisti – insomma non volendo creare problemi ho fatto chiedere da Monique Arnaud al maestro dove voleva che mi mettessi e cosa avrei potuto fotografare. Lui disse che ero libero di fotografare quello volevo. Devo dire che questa sua affermazione mi ha fato particolarmente piacere. La “stanza dello specchio”, in particolare, è già sul palco. Il pubblico non vede nulla, ma solo la tenda con i cinque colori simbolici separa il palco da quell’ambiente. Era lì, in questo luogo “proibito”, che volevo fotografare. Ma sono stato attento a non disturbare troppo, per cui ho evitato di fare troppi cambi d’obiettivo, preferendo un’ottica fissa e avvicinandomi all’attore con discrezione. Percepivo quel fortissimo rituale e sentivo che bisognava avere rispetto per il momento.

Quando hai fotografato il maestro nel suo studio rimanevi ore ed ore, fino a tarda
sera, quando magari avevi finito di fotografare, chiudendo la giornata con una tazza
di tè insieme a lui…

Sì, penso che sia importante non solo rispettare i reciproci tempi, per me fotografare è anche uno scambio a livello umano.
Maschere, ventagli e vestiti sono tra gli elementi più importanti del Teatro Nō… Diciamo che sono gli elementi più importanti tra quelli che si possono fotografare, perché poi ci sono la musica e il canto, ma questi è impossibile fotografarli! Udaka Michishige è forse l’unico attore che, in questo momento, realizza anche maschere. L’ho fotografato anche mentre insegna questa tecnica. L’espressione è fondamentale nella maschera. La maschera viene realizzata in modo tale che è apparentemente neutra, ma con l’incidenza della luce muta espressività e per l’attore è determinante il controllo dell’incidenza della luce sulla maschera.

Alla fine delle prove o dello spettacolo le maschere vengono conservate nel rispettivo
involucro di tessuto: nei tuoi scatti l’attore è più volte ripreso nell’atto di prendere
la maschera, riporla, metterle i lacci. Sembra di assistere ad un dialogo privato…

Quegli involucri di tessuti preziosi vengono a loro volta conservati nelle valigette. Ne ho fotografate una trentina di quelle tradizionali costruite da lui. Udaka Michishige è anche autore di testi teatrali di Nō moderno, ad esempio ne ha scritto uno sul dramma di Hiroshima e per l’occasione ha prodotto delle maschere apposite. Quanto alla tua considerazione, ho colto un aspetto rituale anche nel rispettoso saluto che l’attore fa alla maschera, avvicinandola al suo volto, ogni volta che la toglie dalla custodia di tessuto e quando ve la ripone.

Non hai mai pensato di fare un’intervista al maestro?

Malgrado abbia parlato molte volte con lui, non ho mai pensato di sistematizzare questi nostri colloqui. Una volta gli dissi che volevo fotografare un certo spettacolo, ma lui commentò che non ne valeva la pena, perché l’attore che recitava non era all’altezza.
Allora gli chiesi quando, secondo lui, un attore si può considerare bravo. Lui mi rispose con una citazione di Zeami che parla del fiore. “L’attore è grande quando raggiunge il fiore”, disse.

Visto che è stato citato il nome di Zeami Motokiyo, definito “lo Shakespeare giapponese”, quale è, secondo te, la sua grandezza?

Zeami è colui che ha sistematizzato il Teatro Nō che è una forma di spettacolo frutto di una lunga e complessa evoluzione, che ha tra i suoi precursori il bugaku (danza), il gagaku (musica di accompagnamento), i kagura (danze religiose), il dengaku (danze agresti), i sangaku (una specie di spettacoli di acrobati e giocolieri). Alla fine del 1300 (1374) lo shogun Yoshimitsu assiste ad uno spettacolo di sarugaku (primo nome del No) a Imagumano. In quell’occasione la danza rituale Okina fu eseguita da Kanaami, il padre di Zeami Motokiyo. Il giovane principe fu entusiasta della recitazione dell’attore e lo fece subito chiamare alla sua Corte insieme con il talentuoso figlio. E’ così un teatro quasi di strada, fatto di canti, danze e musica, che spesso veniva messo in scena nelle fiere di paese e lungo i fiumi, è diventato il teatro ufficiale della corte shogunale e delle classi nobili, ed ecco che sono comparsi i vestiti sontuosi e le maschere. E’ stato quindi proprio Zeami Motokiyo, detto lo Shakespeare giapponese, a dare al Nō la sua forma attuale scrivendo anche un centinaio di opere.

La scenografia è sempre molto essenziale nel Teatro Nō. A dare colore sono proprio
gli abiti e gli accessori…

In realtà la scenografia non c’è affatto. Ogni teatro ha l’hashigakari, una specie di ponte o passerella, da cui entrano l’attore protagonista, lo shite, e l’attore co-protagonista, il waki: lungo questa passerella ci sono sempre tre pini che spesso sono veri, piantati in giarre, che simboleggiano il pino sacro. L’unico elemento scenografico vero e proprio, sul fondo del palco, è un pino dipinto, anche questo a simboleggiare il pino sacro di Kasuga-Taisha, il santuario scintoista di Nara che è tra i più importanti del Giappone.

In altri progetti fotografici hai usato il bianco e nero, perché per raccontare Udaka
Sensei e il Teatro Nō hai scelto il colore?

Perché quello che colpisce molto di questo teatro è proprio l’aspetto cromatico.
Istintivamente penso che questo lavoro funzioni solo a colori, perché il colore è determinante nel descrivere i dettagli degli abiti che diventano espressivi. L’attore protagonista, lo shite, a parte la bravura attoriale che deve avere nei movimenti, nella danza e nel canto, nonché nei kata, ovvero nel mettere insieme i vari movimenti e nel coordinarli, in realtà esprime la sua arte anche nella scelta delle maschere, dei vestiti, dei sottabiti, delle cinte, dei ventagli… e tutto questo lo fa abbinando i colori.

Roma, 22 aprile 2013