Architettura invisibile – Sou Fujimoto tra uomo e natura

Roma, 2 marzo – Nell’elegante cornice dell’Aula dei Gruppi Parlamentari, partecipiamo alla lezione di Sou Fujimoto, architetto giapponese di fama internazionale, capo dello studio Sou Fujimoto Architects. L’incontro si svolge nell’ambito degli eventi collaterali della mostra “Architettura invisibile”, ospitata dal 19 gennaio al 26 marzo presso il Museo Carlo Bilotti. Non è la prima volta che l’architetto si reca a Roma. Ha già visitato la nostra capitale quando era ancora studente e si recò in viaggio-studio in Europa, alla scoperta degli stili architettonici del Vecchio Continente.

“Architettura invisibile” è un’espressione che riassume efficacemente la filosofia dietro ai lavori di Fujimoto. La spiegazione ce la fornisce lui stesso, proprio all’inizio della conferenza, raccontandoci il contesto geografico e sociale in cui è vissuto. Sōsuke, il suo vero nome, è nato e cresciuto in un piccolo paesino sperduto tra le foreste dell’Hokkaidō, in cui si conoscevano tutti e le porte delle case erano sempre aperte. La giovinezza è trascorsa giocando nei boschi tra gli alberi. È proprio qui che ha avuto la prima ispirazione che ha contribuito alla formazione del suo concetto di architettura. Lo spazio-foresta non è delimitato da pareti o colonne, ma da tutta una serie di piccoli elementi che ne plasmano la struttura, in cui anche i vuoti e le trasparenze contribuiscono a rafforzare la spazialità esistente. La sensazione è quella di essere in uno spazio intimo e familiare. La stessa peculiare caratteristica, secondo la sua testimonianza, si può ritrovare nelle strade di Tokyo, dove si è trasferito per frequentare l’università, nonostante in questo caso si tratti di uno spazio completamente artificiale. Anche qui la spazialità era definita da una serie di elementi apparentemente scollegati, come possono essere pali della luce, panchine o distributori automatici, a ognuno dei quali ci si relaziona con un differente comportamento, un differente approccio. Il suo duplice background, spiega come mai una delle sue principali preoccupazioni sia l’unione armoniosa tra artificiale e naturale, tra uomo e natura, tra visibile e invisibile.


Questa sua inusuale concezione dell’architettura, continua a spiegare, ha trovato la sua massima espressione nel
Serpentine Pavillion, realizzato ad Hyde Park, a Londra, nel 2013, “costruzione” che l’architetto considera il suo miglior lavoro. Non si tratta di un edificio vero e proprio, quanto dell’unione di innumerevoli singoli elementi – una successione irregolare di pali e piattaforme bianche – che singolarmente presi non significano nulla, ma nel complesso creano un ambiente liberamente fruibile. Il pubblico è incoraggiato a esplorarlo e a capire in quale modo approcciarvisi. Lo si può esplorare, cercare un tavolo per mangiare o una panchina per sdraiarsi. Ci si può anche arrampicare in cima. È uno spazio veramente pubblico. Inoltre, grazie al modo in cui è realizzato, non esistono veri limiti tra il dentro e il fuori, e tutta la costruzione è immersa completamente nella natura, senza creare contrasti forti. È una soluzione in cui il naturale e l’artificiale si fondono, in cui non si percepisce la linea di demarcazione tra i due. Fujimoto insiste che si tratta di una nuova interpretazione di architettura. Non tanto tecniche di costruzione, quanto capacità di saper reinterpretare lo spazio.



Giochi di prospettive, rapporti mutevoli tra interno ed esterno, tra pubblico e privato – sono le caratteristiche fondanti dello stile di Fujimoto, e si possono ritrovare in ogni sua opera, sia pubblica che privata. I due progetti di abitazione House NA e House N, ad esempio, che uniscono la visionarietà di Fujimoto alla più antica tradizione architettonica nipponica. Nelle case del Giappone classico, infatti, i locali erano separati da una semplice parete scorrevole di carta di riso, che pur delimitando lo spazio non costituiva una netta separazione tra le varie stanze. Allo stesso modo in House NA la divisione tra i vari locali, così come tra interno ed esterno, viene meno. Tutto è unico e la funzione di ogni spazio dipende unicamente da come le persone vogliono interpretarlo. Un pavimento può diventare un tavolo, una sedia può diventare una mensola, un soffitto può essere un letto. Si tratta solo della ripetizione dello stesso modulo in dimensioni e rapporti diversi, proprio come nel padiglione Serpentine. La coppia che ha commissionato il progetto ha raccontato all’architetto di usare gli ambienti della casa in modo non convenzionale, per esempio leggendo in cucina o mangiando sul letto. Fujimoto ha così creato per loro una casa in cui tutto può essere tutto. In House N, invece, la distinzione tra dentro e fuori è completamente ribaltata grazie ai vari moduli che si contengono a vicenda e al fatto che il più esterno non è chiuso. Non si può mai dire di essere del tutto dentro o del tutto fuori. Altri progetti di Fujimoto basati su queste idee sono Public toilet, la nuova biblioteca dell‘Università di Musashino, l’auditorium Forest of Music o il complesso residenziale Arbre blanche.


L’arte di Fujimoto è quella di saper creare spazi innovativi, che sfidano le leggi dell’architettura portandoli – come dice lui stesso – all’estremo. L’ambiguità di fondo consiste nella difficoltà di etichettare le sue opere che proprio per questo motivo possono apparire troppo rivoluzionarie e di conseguenza poco funzionali. Ci racconta che spesso i suoi progetti sono stati cancellati, proprio per questi timori. Tuttavia, questa visionarietà e questo coraggio, gettano le loro basi in un background culturale ancorato saldamente al passato, alla tradizione nipponica e alla ruralità del suo paese natale, dove l’intimità condivisa, come se si trattasse di un unico nucleo familiare allargato, e lo strettissimo contatto con la natura fanno completamente decadere molte contrapposizioni manicheiste che nella società odierna diamo per scontate.

Federico Moia