Un’estate in Giappone. Diario di viaggio – Sesta tappa: Hiroshima

Hiroshima ha il suono del destino. Pronunciare il suo nome fa quasi paura, come se una sorte crudele e inevitabile ancora aleggiasse sul cielo della città. È l’emblema di una tragedia; un crimine, un orrore. Uno torto che l’umanità ha fatto a se stessa. Nel suo nome, sembra vibrare la sensazione della morte. Si immagina di essere introdotti a una realtà dove quel 6 agosto del 1945 sembra ripetersi costantemente, e dove la lugubre coltre della memoria vuole imporre un silenzio, forse un lutto rispettoso e costante per quanto è successo.

 

Ecco, forse è proprio questo. Quando si pronuncia il nome di Hiroshima si pensa di entrare in un mondo in lutto. E invece no. Hiroshima si rivelata una città viva, gioiosa, dinamica. Con un’effervescenza che corre al di sotto della superficie e che contagia per magia l’aria che si respira.

Questo non vuol dire che i segni non siano rimasti, anzi: Hiroshima sembra essere una città che non ha alcuna intenzione di dimenticare o di nascondere la tragedia. Essa infatti è li, nel mezzo della città tra i grattacieli moderni, gli schermi pubblicitari e le luci al neon; ha la forma di una piccola costruzione di cemento in stile occidentale con la cupola in rame di cui rimane solo il famigerato scheletro. La cupola della bomba atomica, con la sua sagoma cadente eppure riconoscibilissima, è li, domina lo sguardo di chi si aggira nella zona, a eterna memoria di quell’ormai lontano giorno d’agosto.

Eppure, camminando intorno al perimetro di questo fantasma, quel giorno non sembra così lontano; sembra di essere li, l’ora dopo, o il giorno dopo, nel silenzio che avvolge lo spazio, e sembra di poter immaginare dopo la deflagrazione. Siamo in effetti a poca distanza dal luogo dell’esplosione; la cupola è tutto quello che della vecchia Hiroshima è sopravvissuto, e lei sembra saperlo, e sembra voler urlare (silenziosamente, è chiaro) a ogni visitatore, ad ogni abitante del luogo, del mondo forse, quello che lei, più di settant’anni fa, ha visto. Non con rabbia. Ma con profonda tristezza, quasi con la paura di non essere ascoltata.

Ho incontrato la cupola per la prima volta in un caldo pomeriggio di metà agosto, attraversando il parco della pace. L’ho intravista quella stessa sera in mezzo alle luci della città, nell’effervescenza degli stand di street food e di unici okonomiyaki locali.

In quel turbinio di luci, la sua presenza è strana: è un monito doppio.

In tutte queste luci, ricordatevi che io ho visto.

Ma anche – nonostante quello che ho visto, guardate tutte le luci che sono fiorite.

La doppia possibilità della memoria e della rinascita, una quasi impensabile senza l’altra.

Marianna Zanetta
Articolo originale: http://www.mariannazanetta.com/2015/09/22/hiroshima-mon-amour/