Intervista a Masashi Hirao – Parte II

Alberto Moro, Presidente dell’Associazione Culturale Giappone in Italia, intervista il Maestro di bonsai Masashi Hirao, nominato Ambasciatore Culturale dall’Agenzia degli Affari Culturali del Governo Giapponese. La sua missione? Diffondere la passione per il bonsai.

La prima parte dell’intervista è disponibile a questo link.

Qual è la percezione del bonsai in Giappone e come mai è praticato principalmente da uomini?

A livello sociale, il bonsai è considerato un’attività accessibile solo a pochi fortunati, praticata per tradizione, e pertanto non rientra fra le occupazioni più comuni. Questo aspetto inibisce molto i giovani, che percepiscono il bonsai come un’arte incompatibile con il proprio stile di vita. Inoltre, diversamente da altre pratiche, il lavoro del bonsaista non rappresenta uno status symbol, e questo in parte lo rende meno attraente come percorso da intraprendere.

I media non sono interessati a colmare questa distanza dal grande pubblico e contribuiscono a mantenere la sua aura di eccezionalità, trattando il mondo del bonsai solo in riferimento a qualche giardino famoso o per far conoscere l’esistenza di qualche apprendista straniero.

Il livello di chiusura di questo ristretto gruppo di praticanti, storicamente maschile, è tale da tenere le donne al di fuori di esso: infatti, occuparsi di una pianta comporta anche sforzi fisici come sollevare vasi pesanti e non ha nulla della ritualità e del prestigio sociale della cerimonia del tè o dell’ikebana, dove è possibile sfoggiare kimono preziosi od oggetti pregiati.

Vorrei riuscire a infrangere questa barriera: tutte le arti dovrebbero essere passioni in grado di aiutare a essere liberi e a stare bene.

Il legame delle arti con logiche economiche e consumistiche appare sempre più evidente. Questo avviene a scapito della dimensione artistica?

Spesso il bonsai viene maggiormente considerato un hobby piuttosto che una forma culturale o, ancora peggio, come una pratica per anziani; questo avviene anche a causa di un mancato rinnovamento delle forme divulgative.

Non solo: intorno al bonsai si è creato un vero e proprio business che porta a privilegiare la quantità rispetto alla qualità, a scapito dei prezzi. Questa tendenza purtroppo danneggia chi si sostiene grazie alla sua pratica.

Una possibile via d’uscita potrebbe essere innalzare gli standard qualitativi ed elevare la pratica del bonsai ad arte, ma finchè continua a prevalere l’ottica commerciale, noi bonsaisti siamo chiusi in un circolo vizioso.

In alcune arti, come il sumi-e, è possibile realizzare un’opera tecnicamente perfetta ma incapace di comunicare lo spirito dell’artista. Si corre lo stesso rischio con il bonsai?

Per la creazione di un buon bonsai non esistono delle tecniche universalmente valide, ma è piuttosto necessario applicare l’esperienza acquisita: si tratta soprattutto di piccoli gesti quotidiani di cura e attenzione verso un essere vivente e pertanto è difficile cadere in un eccesso di formalità. Un bonsaista calcola automaticamente quali siano i bisogni della pianta in termini di acqua, o di esposizione al sole e in base ad essi cerca di portare la pianta a svilupparsi nella direzione voluta.

Si potrebbe paragonare questo procedimento alla tecnica di Picasso, il quale sapeva disegnare benissimo, ma ha deciso di spezzare la linearità del disegno e andare oltre a esso. Con un processo simile, il bonsaista decide di rompere la norma per dar vita a determinati effetti, che permettono alla pianta di esprimersi al meglio.

Perchè i Maestri del bonsai sono ancorati al Giappone, quando molte arti tradizionali orientali hanno visto la diffusione in Occidente come garanzia per la loro sopravvivenza?

In effetti, i Maestri di bonsai si spostano in altri Paesi solo se invitati. La situazione sta migliorando con l’istituzione dell’Associazione Mondiale del Bonsai, ma spesso i Maestri di bonsai giapponesi sono troppo legati alla propria tradizione, e così fanno fatica a scendere a compromessi con altre culture e altri linguaggi.

Spesso in Giappone siamo talmente concentrati a guardare la bellezza degli altri Paesi che riscopriamo il valore della nostra tradizione solo quando viene riflessa dall’ammirazione dell’Occidente. Spero dunque che, portando in Europa l’arte del bonsai, essa possa essere rivalutata anche nel mio Paese.

La tradizione del bonsai nasce in Cina: che rapporto ha con questa nazione?

In effetti, il bonsai è nato dal bonkei cinese, utilizzato un tempo per ricreare dei piccoli paesaggi naturali su vassoio, così da mostrare la progettazione di un territorio.

Si parla di un’arte sviluppatasi in più di 1200 anni, con origini anche precedenti a giudicare dai 2000 anni d’età del più vecchio bonsai conosciuto. Esistono anche testimonianze scritte risalenti a 1300 anni fa che raccontano dell’abitudine di trasportare alberi mignon in vasi. Tuttavia, non si sa a quel tempo che valore gli venisse attribuito, se venisse considerata una pratica artistica o meno.

A causa del boom economico, i cinesi hanno ricominciato a comprare i bonsai, anche se hanno un modo diverso di approcciarsi a essi: i giapponesi infatti sono attenti ai piccoli dettagli che possono cambiare l’atmosfera, mentre in Cina hanno una sensibilità diversa, che li spinge a preferire un primo impatto più scenografico.

Che impressione ha avuto della pratica del bonsai in Italia?

Il bonsai si è diffuso anche in Italia da moltissimo tempo, ormai.

Quello che mi ha colpito positivamente dei bonsaisti italiani è la capacità di divertirsi mentre lavorano. Il mio progetto consiste nel dimostrare a tutti quanto sia divertente fare bonsai, ma spesso sono talmente concentrato su quello che sto facendo che non riesco a far trasparire quanto sia per me piacevole come attività. Negli italiani invece la gioia derivante dalla pratica è palese, riescono a chiacchierare e ridere mentre lavorano senza perdere la concentrazione.

Quali zone consiglia di visitare in Giappone agli appassionati di bonsai italiani?

Senz’altro consiglio The Omiya Bonsai Art Museum e la regione di Omiya nel suo complesso. Si tratta di una zona storica ricca di giardini e particolarmente accessibile anche ad appassionati di altri Paesi, visto che le guide sono abituate all’afflusso di stranieri. I bonsai del luogo sono riconosciuti a livello nazionale, al punto che l’unione bonsaisti giapponese ha creato apposta un marchio di qualità per identificarli.

Qui a Milano ha scelto di esibirsi in performance molto originali, che abbinano quasi sempre il bonsai alla musica dal vivo. Esiste un genere di musica che meglio si adatta al suo lavoro?

Preferisco musiche ben ritmate, che mi diano la carica necessaria per terminare una performance in un paio di ore e che permettano di tenere viva l’attenzione del pubblico. Quindi propendo per la musica dance e rock piuttosto che per il jazz.

Tuttavia, è essenziale che in queste performance il bonsai e la musica abbiano lo stesso valore. Mi piace creare un lavoro di squadra, dove il gruppo che mi accompagna sia parte integrante del progetto. In questo modo divento membro della band stessa, lavorando in perfetta sintonia con loro.

C’è stato qualche episodio che l’ha colpita particolarmente durante la sua permanenza in Italia?

E’ sempre entusiasmante quando dei bambini passano davanti ai miei bonsai e urlano ‘Che bello!’ C’è sempre una tale naturalezza nel loro modo di esprimersi che sono veramente gratificato dal fatto che trovino davvero belle le mie creazioni. 

Intervista a cura di Alberto Moro
Testi a cura di Silvia Pagano

Si ringraziano Emma Akiko Mercante,Raffaella Nobili e Basilio Sileno per il preziosissimo contributo.