Intervista a Masashi Hirao – Parte I

Alberto Moro, Presidente dell’Associazione Culturale Giappone in Italia, intervista il Maestro di bonsai Masashi Hirao, nominato Ambasciatore Culturale dall’Agenzia degli Affari Culturali del Governo Giapponese. La sua missione? Diffondere la passione per il bonsai.

Maestro Masashi, come si è avvicinato all’arte del bonsai?

Penso che il primo passo sia stato inconsapevole, quando, prima di interessarmi al bonsai, sono rimasto colpito dai giardini dei templi che si potevano ammirare nella zona di Kyoto, dove frequentavo l’università. Solo qualche tempo dopo, a un’esposizione di bonsai, ho pensato che avrei potuto riprodurre e reinterpretare quei bellissimi paesaggi e ho deciso di rivolgermi a un Maestro.

E’ così che è avvenuto l’incontro con il suo Maestro, Sabuto Kato?

Un amico mi ha consigliato di parlare con lui per avere qualche indicazione sul mondo del bonsai: non sapevo nulla di lui, della sua fama e neppure della sua arte. Ed è stato proprio questo mio essere un foglio bianco in materia che ha colpito il Maestro Kato, perché gli ha permesso di trasmettermi la sua esperienza senza che io avessi alcuna nozione pregressa.

Secondo lei, qual è il significato del fare bonsai?

ll bonsai comporta una rivalutazione della natura tramite l’arte, e ci tengo a sottolineare che si tratta di curare e osservare la crescita di un albero, e quindi un essere vivente all’interno di un vaso, non di materia passiva o di un oggetto, e ciò costituisce uno dei presupposti principali per avvicinarsi a questa pratica. Per bonsai non si intende solamente la pianta, ma la pianta posizionata nel suo vaso.

Semplificando, il bonsai comporta il prendere una pianta cresciuta in condizioni svantaggiate e portarla a esprimere il suo pieno potenziale tramite la scelta del vaso, il suo posizionamento all’interno di esso e le cure quotidiane ad essa dedicate, in un processo che parte dalla scelta degli strumenti di lavoro e non si conclude mai veramente. Le attenzioni dedicate alla pianta infatti vanno portate avanti quotidianamente, tenendo conto di quali siano la sua personalità e i suoi punti di forza, in modo che tutti gli sforzi siano mirati a farla esprimere al meglio e permetterle così di sopravvivere più a lungo.

Al contempo, il continuo dialogo con essa permette anche al bonsaista di rivelare se stesso e la propria sensibilità. Insomma, proprio questo equilibrio delicato fra la capacità di mettere in risalto le qualità intrinseche della pianta, l’espressione personale del bonsaista e il gusto del futuro acquirente porta questa attività a essere più vicina all’artigianato che all’arte nel senso classico del termine.

Lei si trova in Europa per proseguire l’opera del suo Maestro. Qual è il suo obiettivo?

La parola d’ordine è incuriosire. Voglio diffondere l’arte del bonsai, portarla al di fuori della cerchia ristretta in cui ora è praticata e renderla accessibile al vasto pubblico. E’ proprio per questo che sto provando a sperimentare nuove forme di performance, più appetibili a un pubblico giovane e a nuovi ambienti: ad esempio, fare una presentazione in discoteca e riuscire ad attirare anche uno solo dei presenti è un buon risultato, perchè magari quella persona deciderà in futuro di approfondire la sua conoscenza in merito. Ovviamente sono ancora in una fase sperimentale e resto aperto a nuove forme di collaborazioni e di eventi.

Queste forme innovative di performance trovano in Milano un suolo fertile: in quanto capitale della moda e del design. E’ senza dubbio una città pronta ad accogliere forme d’arte meno collaudate.

Qual è il processo che la porta a creare un bonsai? Riesce a visualizzare la sua forma finale prima di iniziare a lavorare o modifica progressivamente l’aspetto della pianta?

Come dicevo prima, la mia priorità è identificare le caratteristiche uniche della pianta e farle risaltare: la prima fase è interamente di studio della pianta e dei suoi tratti dominanti.

In base a questo, decido quali lati nascondere e quali sviluppare maggiormente, come disporre i rami…Insomma, raggiungere una determinata forma non è il risultato solo di scelte estetiche, ma anche funzionali.

Più in generale, cerco di visualizzare come si svilupperà la pianta nel tempo e non solo nell’immediato, dal momento che il bonsai è una forma artistica che ha nel mutamento continuo la sua essenza.

Ci tengo a precisare che la scelta di quale approccio adottare è molto personale e varia da bonsaista a bonsaista: io ad esempio preferisco non utilizzare strumenti elettrici o meccanici per non perdere la naturalezza della composizione, mentre altri preferiscono dare alle opere una forma scultorea, a costo di imporre forzature alla struttura iniziale della pianta.

Che rapporto ha con i suoi strumenti di lavoro?

Quando lavoro devo diventare tutt’uno con gli strumenti, quindi non sarebbe sbagliato definirli un’estensione di me stesso. Dal momento che li utilizzo fino a 20 ore al giorno, si sono sagomati in base al mio utilizzo, tanto che riesco sempre a capire se qualcuno li ha usati, quasi sentissi un senso di estraneità, e proprio per questo mi riesce difficile prestarli ad altri.

Per la Forbice d’Oro che mi ha lasciato il mio Maestro vale un discorso diverso. Essa è un simbolo, più che uno strumento, quindi la uso in maniera cerimoniale per il taglio del primo rametto, come atto preliminare all’effettiva lavorazione della pianta. E’ una maniera per mostrare al mio Maestro che sto operando in suo nome, portando avanti la missione che mi ha assegnato.

C’è qualche pianta in particolare su cui preferisce lavorare?

No, lavoro bene con qualsiasi pianta tranne le azalee, che in Giappone sono considerate una categoria di bonsai a parte.

Dopo che ha creato la pianta, che rapporto ha con essa? Le capita di tenere i bonsai che ha creato?

Purtroppo il nostro lavoro è sempre destinato a terzi, ai giardini privati o ai vivai delle famiglie di bonsaisti che si tramandano la proprietà di padre in figlio. Una volta creato, il bonsai acquisisce un certo valore ed è tramite la sua vendita che l’artigiano si mantiene.

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