Wabi nella poesia di Fujiwara Ietaka

Foto di Antonello Anappo

 

A coloro che aspettano

solo le fioriture dei ciliegi

vorrei mostrare l’erba di primavera

che spunta attraverso la neve

in un villaggio montano.

Il maestro del tè Sen Rikyû (1522-1591), riteneva che questa poesia di Fujiwara Ietaka (1158-1237) riuscisse a esprimere molto bene lo spirito wabi. Rikyû, attraverso la citazione di questa poesia, voleva invitare coloro che desiderano con grande intensità ammirare le fioriture dei ciliegi a rivolgere lo sguardo dentro se stessi, così da realizzare che l’essenza autentica della bellezza dei fiori è già presente nei nostri cuori.

Il villaggio montano ricoperto dalla neve per lui simboleggiava il luogo ideale dove il nostro spirito poteva essere in grado di raggiungere una condizione di libertà dalle passioni.

Rikyû riconosceva l’esistenza di numerose persone che ricercano solo la contemplazione estetica di bellezze appariscenti: le fioriture, i colori delle foglie autunnali, la luna piena; ma nello stesso tempo attraverso la poesia di Ietaka desiderava presentare una sensibilità estetica molto più profonda. Anche nella stanza del tè ci sono persone che sono in grado di apprezzare solo gli oggetti preziosi e rinomati e non riescono ad andare oltre a un’impersonale adesione a canoni estetici largamente condivisi.

Per Rikyû l’erba di primavera che spunta attraverso la neve rappresenta un’immagine ideale di bellezza modesta e non appariscente che si manifesta in un paesaggio naturale apparentemente immoto. Per il maestro del tè inoltre il senso più profondo della bellezza si trova nel ciclo della natura che, attraverso lo spuntare dei fili d’erba, testimonia la transizione dalla stagione invernale, rappresentata dalla neve, alla rinascita della natura che anticipa la primavera. L’immagine del ciuffo d’erba come simbolo del ciclo naturale ha una valenza estetica profondamente minimalista e suggestiva nella sua modestia, rispetto all’eccessiva eccitazione dei nostri sensi prodotta dalle fioriture dei ciliegi e dal rosso cremisi delle foglie d’acero.

Questa percezione estetica veniva sviluppata da Rikyû anche nella stanza del tè, dove alle preziose e antiche porcellane cinesi dalla bellezza appariscente preferiva oggetti nativi dai colori meno brillanti e dalla forma grezza e irregolare, come le tazze nere in stile Raku. L’ideale estetico del maestro Takeno Jô-ô (1502-1555) trovava compimento nella semi-oscurità della stanza del tè, attraverso l’utilizzo combinato di oggetti cinesi antichi e preziosi con oggetti nativi grezzi e irregolari. Rikyû invece attraverso la poesia di Ietaka ci descrive un diverso ideale estetico che si manifesta attraverso la luce, l’energia, la vitalità e la continuità del ciclo della natura e che trova una perfetta rappresentazione nel fascino non appariscente dei ciuffi d’erba tra la neve.

La sensibilità wabi di Rikyû risulta quindi più viva ed estroversa rispetto a quella di Jô-ô e anche la dimensione di tranquillità creata nella stanza del tè è molto più ascetica e modesta. Nell’architettura della stanza del tè il senso estetico wabi di Jô-ô si realizzava nel costruire un ambiente poco illuminato (solitamente esposto a nord) dove l’ombra smorzasse il fulgore estetico degli oggetti preziosi cinesi, i quali non dovevano in alcun modo risaltare rispetto ai ben più sobri oggetti giapponesi.

La stanza del tè di Rikyû, pur non essendo molto più luminosa rispetto a quella di Jô-ô (era solitamente esposta a sud) riusciva comunque a trasmettere un piacere estetico molto più semplice, tranquillo e non artificiale. Rikyû in alcuni casi decise inoltre di ridurre la dimensione classica della stanza del tè costituita da 4 tatami e mezzo portandola a una dimensione più intima di 1 tatami e mezzo, così da renderla sempre più simile a un piccolissimo rifugio montano.

Il grande maestro Sen Genshitsu, XV erede della scuola Urasenke di cerimonia del tè, in un suo scritto relativo alla Via del tè ha raccontato il seguente aneddoto per evidenziare la concezione estetica wabi sabi che Sen Rikyû riscontrava nella poesia di Ietaka: “Una volta, quando chiesi al mio vecchio maestro Gôto Zuigan il significato di sabi, disse: ‘Guarda lo stagno laggiù’. Pur avendo contemplato a lungo lo stagno – situato al Daijuin, non riuscivo comunque a comprendere il significato di sabi. Dissi al maestro che avevo osservato lo stagno e lui mi chiese  se adesso avessi capito. Quando risposi di no, mi diede istruzioni di continuare a osservare. Tornai sulla riva dello stagno e mi sedetti nella posizione zazen sopra una roccia. Era metà inverno e c’erano i fiori di loto avvizziti sulla superficie dell’acqua. Improvvisamente compresi che i fiori non erano semplicemente avvizziti e che la loro bellezza risiedeva nella capacità rigenerativa della natura. Solo allora realizzai che questo era lo spirito sabi. E capii che la forza che si avverte sul punto di emergere nella poesia di Ietaka era sicuramente una manifestazione dell’estetica sabi.

Alberto Moro


Il senso della bellezza giapponese e l'architettura sukiya (5)

Numeri dispari e Sukiya

Come dichiarato in precedenza, i giapponesi hanno dimostrato un’affinità per i numeri dispari sin dai tempi antichi. Collegando le riserve di potere implicite nelle rimanenze dei numeri dispari alla religione, arrivano a connettersi con il potere supernaturale dell’assistenza divina. Questo concetto di potere è stato ulteriormente collegato all’estetica giapponese, dando origine all’affinità emotiva per la bellezza della rimanenza espressa nello spazio vuoto e nella risonanza.

Potrebbe essere che, grazie al pensiero ironico degli entusiasti del chanoyu e dei sensualisti di oggi,  questo significato dei numeri dispari abbia cambiato significato, risultando in un’architettura chiamata sukiya. Invertendo i kanji della parola kisu, che significa “numeri dispari”, si producono i kanji di suki (lo “ya” in sukiya significa “casa”), implicando un’origine che deriva dai numeri dispari. La parola “suki” è stata scritta originariamente utilizzando il kanji altrimenti pronunciato ko, che indica il voler bene o l’attaccamento. In seguito, quando l’abitudine del tè importata dalla Cina dai monaci Zen raggiunse una popolarità tale durante il periodo Muromachi (1336-1573) che bisognava avere padronanza nel chanoyu per essere considerati “qualcuno”, “suki” incominciò a riferirsi all’avere una profonda affinità per il sentiero verso la raffinatezza, la “sensualità” e il chanoyu. Questo utilizzo della parola incominciò a diventare scritto usando i caratteri inversi per “numero dispari”. Lo Yamanoue Sōji Ki {Scritti di Yamanoue Sōji (1544-90)] elenca tre proprietà richieste a una “persona suki”; un portamento dignitoso anche in assenza di importanti utensili del tè (ciò in un’epoca in cui la regola era possedere gli utensili cinesi più raffinati), l’originalità e una resa decente del servizio. Suki significa così indifferenza nei confronti degli standard della maggioranza della società, fede nel valore degli oggetti come è dettato dalla propria sensibilità e la creazione di nuove forme di bellezza. Non è un mondo oggettivo di bellezza ma, piuttosto, è una questione di sensibilità soggettiva della persona che apprezza la bellezza nei propri termini.Leggere di più


Il senso della bellezza giapponese e l'architettura sukiya (4)

“Il godimento risiede nel non fatto”

Zeami, (1363?-1443?), nell’opera Kakyō che egli scrisse per trasmettere i segreti del teatro noh, parla del fatto che “il godimento risiede nel non fatto.” “Il non fatto” si riferisce alla cessazione di tutte le espressioni, musicali o vocali, durante brevi e silenziosi intervalli che si realizzano quando un passaggio di danza o di canto si muove verso quello successivo. Non è né un vuoto arresto né una pausa silenziosa, ma l’utilizzo di un breve intervallo in cui trasuda la tensione interiore dell’artista ed è trasformata in qualcosa dal forte impatto come un’espressione senza espressione. L’arte di un maestro deve includere l’espressione dell’inespresso e “il godimento risiede nel non fatto” è la spiegazione di Zeami di questa estetica dell’intervallo nel teatro noh.

La parola “omoshiro(ki)” che Zeami utilizza per esprimere il godibile è scritta oggi con i kanji di “faccia” e “bianco” ed è utilizzata di solito per esprimere una sensazione piuttosto superficiale di divertimento o piacere. L’antica raccolta di poesie Manyō Shū, comunque, scrive “omoshiro” utilizzando due kanji che denotano l’emozione, il cui significato combinato si traduce con qualcosa come “pietoso”. “Omoshiro” esprime così un movimento emotivo del cuore che coinvolge l’amore della bellezza e una tenera sensazione di pathos. “Il non fatto” di Zeami connota un filtrare verso la tensione interiore, così questo “godimento” denota chiaramente il significato più antico e più profondo di omoshiro utilizzato nel Manyō Shū.

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Il senso della bellezza giapponese e l'architettura sukiya (3)

L’estetica del negativo

La sensibilità del poeta di haiku Bashō può essere descritta come quella del silenzio e del negativo. Notate questo esempio:

kono michi ya

yuku hito nashi ni

aki no yūgure

Questa strada

Ah, senza una persona che viaggia

Nel crepuscolo autunnale.

Mentre “senza una persona che viaggia” (meno) e l’autunno, che indica l’avvicinarsi dell’inverno (meno), esprimono un cuore solitario attraverso negativi multipli, esprimono anche la forza spirituale di continuare a forgiare indipendentemente (meno x meno = più). Ciò dimostra perfettamente l’essenza dell’estetica del negativo, costituendo non una semplice debolezza negativa ma una forza interiore nascosta.Leggere di più


Il senso della bellezza giapponese e l'architettura sukiya (2)

Definire la cultura

I giapponesi esprimono costantemente il desiderio che la propria nazione e le città non siano meramente civilizzate ma acculturate, tuttavia le città che costruiscono in realtà sono una manifestazione del primo aspetto e non del secondo. La ragione di ciò risiede nell’incapacità di distinguere con chiarezza fra civiltà e cultura.

Watsuji Tetsurō spiega allegoricamente che: “quando condiamo una verdura appena colta con l’olio e la mangiamo, questa è civiltà. Quando mettiamo della verdura appena colta in un contenitore e la lasciamo in salamoia per giorni, facendo emergere il corpo del suo sapore nascosto, e poi la mangiamo, allora quella è cultura.” (Leggermente modificato ai fini del presente articolo.)

Il sapore della civiltà espressa dall’insalata di Watsuji è superficiale e monodimensionale. Ma nel caso nella cultura, prendersi il tempo di mettere in salamoia la verdura fa emergere il suo intero “corpo”, o sapore nascosto. Nella tesi di Watsuji, è questo “sapore nascosto” che costituisce la cultura.Leggere di più


Il senso della bellezza giapponese e l'architettura sukiya (1)

Nella sua opera Fūdō, il filosofo Watsuji Tetsurō (1889-1960) scrive che “la cultura e il senso estetico di un paese sono radicati nelle sue caratteristiche naturali e nel clima”. Va avanti affermando che il Giappone, situato all’interno della cintura dei monsoni, è un paese umido, caratterizzato da mutamenti stagionali definiti con chiarezza. Di volta in volta, la generosità naturale di umidità rovina sulle persone nella forma di piogge torrenziali, tempeste di vento, inondazioni e addirittura siccità. A fronte della furia della natura, le persone hanno poca scelta se non abbandonare tutte le resistenze e sottomettersi.Leggere di più


Antiquariato giapponese

alt491-monju-bosatsu-13Monju Bosatsu

Nara, periodo Nambokuchô (1336 - 1392), XIV secolo.

Legno intagliato con applicazioni in metallo e pietre dure. Tracce di doratura.

Altezza: 37 cm

Questa straordinaria scultura si presenta in ottimo stato di conservazione. Le fattezze del Buddha sono eleganti e la figura, imperturbabile, comunica serenità e pace.

Monju Bosatsu è il Buddha della saggezza. Discepolo di Siddharta, è considerato il più Saggio dei Bodhisattva ed è quindi indicato come voce della Legge buddista. L’iconografia tradizionale raffigura Monju con il Sutra della Saggezza nella mano sinistra e una spada nella destra, per tagliare le illusioni e disperdere le nuvole dell’ignoranza.Leggere di più


L'iki e la sensibilità estetica giapponese

L’Iki è un modus vivendi tipico dei giapponesi che si esplicita nella figura della geisha. Rappresenta la quintessenza della seduzione finalizzata a se stessa. Si differenzia dagli approcci tradizionali perché rinuncia alla conquista grazie alla forza spirituale. La caratteristica principale è la rottura dell’equilibrio ordinario, che si palesa in tutte le “manifestazioni corporee” dell’Iki. Componendosi di vistosità e modestia, distinzione e volgarità, dolcezza e asprezza, Iki rappresenta il “termine medio”, non sbilanciandosi mai verso l’uno o l’altro estremo.

Per i giapponesi la seduzione si limita ad un cenno allusivo. Mostrare pezzi di vestiti più intimi di sfuggita, mentre si cammina, oppure piccoli lembi di pelle, esprime la dualità della seduzione iki: rompendo l’uniformità del kimono che avvolge completamente la figura femminile, si suggerisce un’apertura all’altro sesso. La bellezza si coglie in piccoli accenni, viene sussurrata dalla peculiarità dell’abbigliamento e dalle posture.Leggere di più