Takarazuka - una compagnia di sole donne
Il Takarazuka 宝塚 rappresenta uno dei fenomeni più affascinanti quanto misteriosi del panorama teatrale giapponese, definito spesso come un luogo eccentrico, perverso e ben distante dal mondo reale. La compagnia, composta esclusivamente da ragazze, venne fondata nel 1913 da Kobayashi Ichizō 小林一三 e, in un primo momento, nacque come un’organizzazione amatoriale con lo scopo di intrattenere i turisti nell’omonima località termale Takarazuka, una piccola cittadina del Kansai. Con il passare degli anni la compagnia si espanse in modo notevole diventando per molte giovani un ottimo escamotage per sfuggire, almeno temporaneamente, alla rigida etichetta di ryōsai kenbo 良妻賢母 (“essere una buona moglie e una saggia madre”), promossa dal governo nei primi anni del XX secolo. In verità il Takarazuka si colloca in una via di mezzo tra due estremi: da una parte offriva la possibilità a molte ragazze di intraprendere una carriera a sé stante e di uscire così dalla semplice routine, dall’altra, però, incarnò il rigore e la ferrea disciplina imposta dalla società giapponese.
Le takarasienne (così vengono definite le “attrici” della compagnia) si specializzano in ruoli maschili (otokoyaku 男役) o in ruoli femminili (musumeyaku 娘役), la cui rappresentazione è volutamente lontana dal potersi definire reale. Il Takarazuka, del resto, si pone come obiettivo quello di “vendere dei sogni” e di far trasportare lo spettatore verso un mondo onirico, grazie anche a una scenografia particolarmente sfarzosa, a costumi molto elaborati e a un ingegnoso gioco di luci.
La compagnia è suddivisa al suo interno in cinque troupe:
* la hana gumi 花組 (troupe dei fiori);
* la tsuki gumi 月組 (troupe della luna);
* la yuki gumi 雪組 (troupe della neve);
* la hoshi gumi 星組(troupe delle stelle);
* la sora gumi 宙組 (troupe del cielo).
e ognuna di esse, oltre a essere rappresentata da una coppia di cosiddette Top Star, ovvero le due takarasienne più rinomate e talentuose del momento, è caratterizzata da un proprio stile interpretativo. La yuki gumi, ad esempio, è solita mettere in scena drammi appartenenti alla letteratura giapponese, al contrario della tsuki gumi, che si è specializzata nella rappresentazione di musical occidentali.
Il Takarazuka propone ogni anno un vasto assortimento di spettacoli, che spazia dai grandi melodrammi a rappresentazioni giapponesi reinventate in stile occidentale, dai musical della golden age broadwayana a quelli tratti dalla letteratura o basati su eventi storici, ognuno dei quali si conclude con un’imponente parata, durante la quale tutte le attrici si esibiscono per l’ultima volta indossando costumi molto appariscenti.
Nonostante la compagnia sia stata definita per molti versi “eccentrica” e piena di riferimenti riguardanti la presunta ambiguità sessuale delle ragazze, in particolare nei confronti di quelle che ricoprono ruoli maschili, l’intento del Takarazuka non è mai stato quello di scandalizzare o di promuovere un comportamento amorale; al contrario il messaggio che si cerca di tramandare è quello di un puro intrattenimento teatrale che fa da cardine ai tre principi promossi da Kobayashi:
kiyoku, tadashiku, utsukushiku 清く、正しく、美しく, ovvero “Sii pura, sii onesta, sii bella!”.
Giulia Bianco
Una bellezza pura ed effimera: simbologia della neve sulla scena
Spesso, nella poesia giapponese classica, la neve e i fiori di ciliegio si ritrovano associati: come se i fiocchi che volteggiano nell’aria invernale e i fiori spazzati dal vento fossero un’unica immagine di suprema bellezza. Questa associazione ha, nella storia della poesia giapponese, una tradizione antica. Infatti se ne registra la presenza già nel Kokin waka shū[1] in cui la tecnica del mitate, utilizzata magistralmente, favorisce l’incontro di due immagini antitetiche (perché proprie di due diverse stagioni), come i fiocchi di neve e i fiori di sakura. La tecnica del mitate è la sovrapposizione di due immagini visive, una reale e l’altra immaginaria e trova largo spazio nelle arti giapponesi, non solo in campo letterario ma anche in campo artistico.
L’associazione sakura-neve trascina con sé il riferimento a una terza immagine, quella del guerriero eroico. Se infatti il fiore di ciliegio è simbolo della bellezza effimera e della caducità delle cose del mondo,[2] la neve è portatrice di un segno di purezza, della purezza di intenti propria delle imprese eroiche, della sincerità, ovvero del makoto, che le contraddistingue. Un riferimento che rintraccia anche Ivan Morris parlando della vicenda di Saigō Takamori (1827-1877):
Il 17 febbraio lasciò con i suoi uomini Kagoshima sotto una violenta tempesta di neve. In Giappone la neve è simbolicamente associata alle imprese pure ed eroiche (i “quarantasette rōnin” attuarono la loro vendetta decisiva in una tempesta di neve e, in tempi più recenti, l’ammutinamento dei giovani ufficiali nel febbraio 1936 fu preceduto da una forte nevicata), e il fatto che l’esercito di Satsuma partisse sotto un cielo nevoso fu probabilmente interpretato come una sorta di conferma celeste sulla giustezza della loro causa.[3]
Il cerchio si chiude. I fiori di ciliegio e la neve conducono al bushi, ne esaltano, sulla scena come in altre manifestazioni artistiche, le azioni pure e “belle”, di una bellezza effimera. I fiori di ciliegio e la neve volteggiano e cadono a terra, gli uni disperdendosi, l’altra sciogliendosi, ed entrambe le immagini rimandano alla morte del guerriero.
La simbologia del bianco e della neve sembra avere una doppia valenza: significare purezza e significare la morte.
Nella cultura giapponese, infatti, il colore bianco, haku, associato al rosso o al nero assume significati contrapposti. Insieme al rosso nella combinazione kōhaku, il significato veicolato nell’immaginario di un individuo giapponese sarà quello della gioia e della celebrazione, mentre associato al nero suggerirà il lutto e occasioni dolorose. Da solo, però, il bianco è stato a lungo considerato il colore dei kami. Evoca la purezza, l’innocenza, come il biancore puro e incontaminato del washi, la preziosa carta con cui sono fatti i gohei, le striscioline bianche appese alle corde (shimenawa) che delimitano le aree sacre dello Shintō.
Anche in ambito buddhista il colore bianco assume una densità di significati di notevole portata. Massimo Raveri osserva che il bianco è il colore dell’ascesi e della morte: il monaco che sta per intraprendere un’esperienza mistica estrema come quella del sennichi kaihōgyō della scuola Tendai, lascia l’usuale tonaca nera e si riveste di bianco.[4] Bianco è anche l’abito dei pellegrini e degli asceti, di chi abbandona, anche temporaneamente, la vita quotidiana, per seguire un percorso mistico che lo spoglia della “sporcizia” del mondo e lo purifica.
Il bianco della neve, associato al manto uniforme che tutto copre, esalta maggiormente questo concetto di pulizia, di cancellazione del male.
Analogamente, nel testo del celeberrimo Kanadehon Chūshingura, dramma del 1748 scritto originariamente per il teatro delle marionette e poi adattato per il kabuki, e che riprende e sublima poeticamente per il palcoscenico la vicenda della vendetta dei quaratasette rōnin, al candore delle vesti e al biancore della neve si associano l’idea della morte e quella della purezza e della trasformazione.
Cito qualche scena a titolo esemplificativo. Nel IV atto, il riferimento al kosode bianco che è l’abito dei morti, il costume utilizzato per il seppuku, indica la preparazione di Hangan (ossia del personaggio in cui è adombrata la figura storica del daimyō Asano Naganori Takumi no kami, 1667-1701) nell’ora suprema. Inoltre, nell’ambientazione del IX e dell’XI atto la neve allude a un insieme di significati importanti nell’economia del dramma: la costanza e la pazienza nella preparazione della vendetta, la morte incombente, la purezza degli intenti e la sincerità del cuore ed infine, la purificazione che si realizza con la vendetta.
All’inizio del IX atto, ambientato nella residenza di Ōboshi Yuranosuke (ossia del capovassallo Ōishi Kuranosuke, 1659-1703, ideatore della vendetta) a Yamashina, la moglie di questi, avendolo visto rotolare una palla neve in giardino rientrando a casa, la indica al figlio Rikiya riflettendo sul significato di quel gesto che la donna interpreta in questo modo:
Otto wo hajime minna no shū wa, ima rōnin no hikage no mi, hikage ni sae okeba tokenu yuki, isogu koto wa nai to iu okokoro de arō wai no.” 夫を始め皆の衆は、今浪人の日陰の身、日陰にさえ置けば解けぬ雪、急く事はないというお心であろうわいの。[5] (Mio marito e tutti gli altri ora sono rōnin, gente che sta nell’ombra. La neve, se la si tiene all’ombra, non si fonde: per questo non occorre aver fretta, non bisogna essere precipitosi.)
In questo caso la neve sarebbe una metafora della pazienza, nelle parole della moglie di Yuranosuke.
Verso la fine di quello stesso atto, Yuranosuke rivela il suo piano di vendetta a un altro personaggio e lo fa per prima cosa mostrandogli due mucchi di neve in giardino:
Shōji sararito hikiakureba, yuki wo tsuganute sekitō, gorin no katachi wo futatsu made, tsukuri tateshi wa Ōboshi ga, nariiku hate wo arawaseri. 障子さらりと引き明くれば、雪を束ねて石塔の、五輪の形を二つまで、造り立てしは大星が、成り行く果てを顕わせり。[6] (Spalanca agevolmente gli shōji, e appaiono due monumenti funebri che Ōboshi ha modellato con neve pressata in forma di gorin, esprimendo in essi la fine imminente.)
I due gorintō di neve alluderebbero qui, viene detto in una battuta, al desiderio di Yuranosuke e del figlio di “scomparire come neve”[7] una volta vendicato il loro signore con l’uccisione del suo nemico: ancora una volta la neve è associata alla morte incombente.
E se nei manufatti del periodo Edo, come tessuti e stampe, i fiocchi di neve sono utilizzati come simbolo di purezza e di trasformazione, ciò accade anche sulla scena del Chūshingura, in cui nel IX e nell’XI atto è previsto che il palcoscenico sia ricoperto da una stoffa bianca che rievochi il candido manto. Ciò è vero soprattutto nell’atto finale del dramma in cui sotto una copiosa nevicata si realizza la vendetta, e la neve sembrerebbe avere il ruolo di purificare dal sangue contaminante del sacrificio.
La neve che tutto ricopre è anche simbolo di rinascita, di trasformazione, che annuncia la vita che si rinnova sotto il candido mantello che ricopre ogni cosa. Presente copiosamente nella produzione artistica giapponese come un imprescindibile segno stagionale, la neve ha una parte rilevante anche sulle scene, quindi. L’effetto “neve” nel kabuki, infatti, è volutamente reso in ogni sua sfumatura: dal segno grafico (i fiocchi di carta che piovono sul palcoscenico) a quello sonoro, ricco di una insospettabile suggestione, come ci ricorda lo studioso Kawatake Toshio: “Il suono della neve è interessante. In natura la neve cade senza rumore, ma la sua caduta diretta è espressa dall’ōdaiko. Il suono di questo tamburo è prodotto usando “bastoni da neve” piuttosto spessi e corti, che sono ricoperti alle estremità con palle di cotone per dare, insieme a un tocco gentile, un suono basso, morbido. Nel frattempo, da un lungo cesto aperto e sospeso sul palcoscenico, scendono volteggiando fiocchi di neve di carta. Ora sono prodotti in tanti quadrati da una macchina, ma i migliori sono i “triangoli di neve”. Mi sembra che, anche cineticamente, la forma triangola si adatti meglio a fluttuare e a danzare come neve.”[8]
È evidente che, nel caso dell’XI atto del Chūshingura, la neve non è interpretabile solo come un imprescindibile elemento stagionale. Ad essa è attribuibile una molteplicità di significati a cui non paia azzardato aggiungerne uno di particolare rilevanza, nel caso del dramma in questione. Se ritorniamo al Kokin waka shū originato però, occorre ricordarlo, in un clima culturale del tutto diverso, troveremo un waka particolarmente significativo:
Yuki furite
toshi no kurenuru
toki ni koso
tsuini momijinu
matsu mo miekere.
雪ふりて年の暮れぬる時にこそつゐにもみぢぬ松も見けれ。
Solo alla fine dell’anno/quando la neve stende/la bianca coltre/risalta agli occhi/ il verde perenne del pino.[9]
In questo componimento poetico, nato molti secoli prima del Kanadehon Chūshingura, in un contesto storico-culturale assai differente, la presenza della neve, elemento effimero, esalta per contrasto la perennità di ciò che nasconde: quelle virtù umane come la costanza e la fedeltà cui il pino sembra alludere. Virtù apprezzate ancora a distanza di tempo e coltivate ancora con tanta cura negli anni del Chūshingura.
Rossella Marangoni
www.rossellamarangoni.it
www.asiateatro.it
[1] E in particolare nei seguenti componimenti poetici: I-6, 7, 9, 60, II-75, VI-323, 324, 330, 331, VII-363. Cfr. Kokin waka shū. Raccolta di poesie giapponesi antiche e moderne, a cura di Sagiyama Ikuko, Milano, Ariele, 2000.
[2] Ben esemplificato dal seguente componimento poetico: “Utsusemino yo ni mo nitaru ka hanazakura saku to mishi ma ni katsu chirinikeri. A questo mondo umano/effimero somiglia/il fiore di ciliegio:/lo vedo sbocciare e intanto/ecco, sta già sfiorendo.”, SAGIYAMA Ikuko (a cura di), Kokin waka shū, cit., p. 102.
[3] I. MORRIS, “L’apoteosi di Saigō il grande” in La nobiltà della sconfitta, Milano, Guanda, 1983, pp. 255-256.
[4] Massimo RAVERI, Il corpo e il paradiso, Venezia, Marsilio, 1992, p. 41.
[5] Kanadehon Chūshingura 仮名手本忠臣蔵, edizione critica a cura di Hattori Yukio, Tōkyō, Hakusuisha, 1994, p. 233 (la traduzione è mia).
[6] Kanadehon Chūshingura 仮名手本忠臣蔵, edizione critica a cura di Hattori Yukio, cit., p. 258 (la traduzione è mia).
[7] “Jikun ni tsukaezu keyuru to iu okokoro no ano yuki. 二君に仕えず消ゆると言うお心のあの雪。(Non servirete un secondo signore, ma intendete sparire come quella neve.), Kanadehon Chūshingura 仮名手本忠臣蔵, edizione critica a cura di Hattori Yukio, cit., p. 259 (la traduzione è mia).
[8] KAWATAKE Toshio, Japan on stage,Tōkyō, 3A Corporation, 1990, p. 114.
[9] SAGIYAMA Ikuko (a cura di), Kokin waka shū, cit., p. 241.
Una tradizione vivificante: per una introduzione al teatro giapponese
Foto di Flavio Gallozzi
Il panorama teatrale giapponese si muove su un percorso caratterizzato da una duplice direttrice: il primato della rappresentazione sulla scrittura drammatica e la coesistenza di una grande tradizione classica in cui sono conservate forme antiche (il nō, il kyōgen, il kabuki e il jōruri) e di una ricerca tutta contemporanea di nuove forme della rappresentazione: dallo shinpa e dallo shingeki o “nuovo teatro” sviluppatesi fra la fine del XIX secolo e la prima metà del secolo successivo, alle avanguardie della seconda metà del XX secolo, sino agli esperimenti della scena contemporanea, la commistione dei generi, l’interesse per forme nuove della rappresentazione che devono molto alla televisione e alla cultura pop.
Il teatro giapponese è un teatro di performance, un teatro in cui il gesto, la forma codificata dalla tradizione (il kata), la corporeità dell’attore, il suo gioco sulla scena hanno la meglio sulla parola, sul testo. Questo è vero almeno sino alla fine del XIX secolo, quando le opere teatrali iniziarono ad essere apprezzate anche per il valore intrinseco del testo e scritte per la lettura e non solo per la rappresentazione. Tuttavia i costumi sfarzosi del teatro classico, le scene rutilanti del teatro popolare, tutto concorre ad esaltare la figura dell’attore, la sua fisicità, il suo fascino.Leggere di più
Breve storia del teatro Rakugo
Il termine Rakugo (“parole lasciate cadere”) è attestato per la prima volta nel 1787, ma si è diffuso soltanto durante l’epoca Meiji (1867-1912) ed è divenuto di uso comune nel XX secolo in epoca Shôwa (1926-1989).
Non si sa esattamente quando il teatro Rakugo sia nato, mentre è accertato che ha avuto origine pressoi daimyo (feudatari) che ospitavano alla loro corte attori che li intrattenessero raccontando storie divertenti.
Il teatro Rakugo si è sviluppato in vari stili: shibaibanashi (“storie teatrali”), ongyokubanashi (“storie musicali”), kaidanbanashi (“storie di fantasmi”) e ninjôbanashi (“storie sentimentali”). In alcune di queste forme manca la battuta finale ochi, caratteristica del Rakugo originale.
Nell’epoca di Edo (1603-1867) i commercianti più ricchi (chonin) hanno iniziato ad apprezzare questa forma di teatro che così si è diffusa anche fra i non nobili ed è diventata sempre più popolare. Nel XVII secolo gli attori erano chiamati hanashika (“narratore di storie”), termine che corrisponde all’odierno rakugoka ( “persona che lascia cadere le parole”). L’usanza di concludere il monologo con una battuta forse deriva dai kobanashi, brevi racconti comici con battuta finale (ochi) molto amati fra XVII e XIX secolo, con personaggi del popolo come protagonisti.Leggere di più
Espedienti scenografici del kabuki: lo hanamichi
Lo hanamichi 花道 (letteralmente “cammino dei fiori”) è una piattaforma sopraelevata fatta di assi di legno, larga circa un metro e mezzo, che attraversa la platea per tutta la sua lunghezza sul lato sinistro del teatro, dal fondo al palcoscenico. La platea era suddivisa in box quadrati delimitati da barre di legno, con il fondo a tatami, in cui trovavano posto da quattro a sei spettatori. Un tempo i biglietti venivano venduti ad unità quadrata (masu tan’i 桝単位). Da questi posti gli spettatori si muovevano per andare a comprare al negozio del teatro sake, bentō 弁当, dolci, persino carbone per il braciere. Lo hanamichi passa in mezzo al pubblico, dividendo irregolarmente la platea ed è su questa passatoia che tradizionalmente venivano deposti regali per gli attori dagli ammiratori adoranti che stavano nei posti a tatami della platea (più economici dei palchi laterali) chiamati masuseki 桝席: i regali per gli attori venivano metaforicamente e poeticamente chiamati hana 花 (fiore) e da questi avrebbe preso il nome la piattaforma.Leggere di più
Il Kabuki nel periodo Edo: le giornate di teatro
Nel periodo Edo, durante i programmi stagionali del kabuki, rappresentazioni di drammi diversi si susseguivano nel corso dell’intera giornata, alternando generi e registri in modo eterogeneo: il gioco della varietà era molto apprezzato dal pubblico. Presentare un programma giornaliero composito non faceva altro che assecondare il gusto per l’alternanza di registri e di generi, per la varietà anche stilistica raccomandata nella messiscena del kabuki: un certo grado di disarmonia avrebbe garantito allo spettacolo profondità e respiro, e rispondeva al canone estetico fondamentale dell’asimmetria che da sempre permea ogni espressione artistica giapponese. Secondo lo studioso Georges Banu, in questi programmi era d’obbligo l’alternanza dei registri: “Ciò che è separato dai generi si trova riunito nella costellazione di una giornata : il tragico e il comico, la danza e il canto. Si individua il percorso di una giornata non secondo le norme di una coerenza, ma, al contrario, secondo quelle di una eterogeneità apparente che deve articolarsi secondo un movimento in cui l’accellerazione è legge. Si riuniscono forme e approcci distinti che si succedono mantenendo la loro autonomia : non si fondono l’un l’altro. Alla fusione preferiscono la contiguità, che è l’ipotesi antica della coesistenza dei contrari.”Leggere di più
Le stagioni nel Kabuki. Il cartellone annuale a Edo.
Tradizionalmente, l’anno del kabuki seguiva la scansione stagionale perchè “solo tale periodizzazione ha il carattere cerimoniale dei riti annuali”, secondo quanto afferma lo studioso di teatro Kawatake Toshio.
Essendo prassi comune che l’ingaggio degli attori e delle compagnie presso i vari teatri avesse la durata di un anno, il primo appuntamento della stagione era dato da un programma di presentazione delle compagnie al pubblico, il cosiddetto kaomise, in cui appunto gli attori “mostravano il volto” al pubblico e ne chiedevano la cortese benevolenza. Il programma del kaomise si teneva agli inizi dell’undicesimo mese del calendario lunare (mese che andava dal 20 novembre al 20 dicembre secondo il calendario gregoriano) e costituiva l’inizio della stagione , oltre che un vero e proprio evento cittadino caratterizzato da un clima di fervida attesa in tutti gli appassionati. Leggere di più
Kabuki, spazio di trasgressione e teatro totale: un’introduzione
Della peculiare cultura urbana del Giappone del periodo Edo, il kabuki è uno degli elementi più rappresentativi: uno spazio di libertà e trasgressione al pari dei quartieri del piacere e, analogamente a quelli, un luogo di annullamento delle differenze sociali. Proprio per questo, il kabuki ha un pubblico variegato ed esigente, costituito in massima parte dai chōnin ma può contare anche sulle visite frequenti di bushi (en travesti, camuffati con ampi copricapi per sfuggire alla proibizione di frequentare i teatri) e persino sulla protezione di qualche daimyō.
Così il kabuki diventa luogo privilegiato di incontro di gusti e mentalità diverse, che sta alla bravura di autori, attori e produttori cercare di conciliare e soddisfare.Leggere di più
Marionette che prendono vita: la magia del jōruri
Il ningyō jōruri 人形浄瑠璃 (o jōruri delle marionette) è forse il più raffinato e suggestivo genere teatrale fra quelli sviluppatisi nel periodo Edo.
Popolare quanto il kabuki, ma profondamente diverso, fu concepito e sviluppato come sofisticato intrattenimento per adulti. Le sue radici possono essere fatte risalire agli inizi del XVI° sec. quando menestrelli ciechi (biwa hōshi), che cantavano l’epopea delle grandi battaglie accompagnandosi con una sorta di liuto chiamato biwa, unirono le proprie forze con quelle di burattinai ambulanti che vendevano nelle fiere dei villaggi anche rimedi della medicina popolare. La biwa venne presto sostituita con lo shamisen, ancor oggi lo strumento che crea la tessitura musicale di uno spettacolo di jōruri.Leggere di più
Il teatro Bunraku
Il teatro Bunraku (文楽)è il teatro dei burattini giapponese. Sviluppatosi nel corso del XVII e XVIII secolo è, assieme al Kabuki, al No e al Kyogen, una delle quattro forme di teatro tradizionale. Il Bunraku è chiamato anche Ningyo Joruri (人形浄瑠璃 ningyo: bambola, joruri: forma di narrazione drammatica), poiché quando nel XVI secolo i burattinai itineranti si stabilirono a Kyoto, allora capitale del paese, quest’arte si fuse con quella del Joruri, i cui precursori erano degli attori itineranti ciechi che cantavano le gesta dello Heike Monogatari, un poema epico militare, accompagnando il canto al suono di uno strumento musicale chiamato biwa. Successivamente, quando il biwa fu sostituito dallo shamisen, una chitarra a tre corde la cui cassa è costruita con pelle di gatto, iniziò a svilupparsi lo stile Joruri, che deve il suo nome a una delle opere più conosciute: la leggenda dell’amore tra Minamoto no Yoshitsune e Lady Joruri.Leggere di più