“L’ultimo samurai”, diretto da Edward Zwick e uscito nelle sale nel 2003, ha affascinato il pubblico con la sua epica, il suo dramma e le sua atmosfera suggestiva. Ispirato ad una storia vera, la pellicola ripercorre le gesta di un militare straniero che prima viene convocato nella terra del Sol Levante per combattere dei ribelli ma che poi passa dalla parte del presunto nemico, tutto questo durante un periodo di cambiamenti sociali decisivi per la storia del Giappone. Ma quanto c’è di vero nel lungometraggio? E in cosa differisce dai fatti realmente accaduti? Scopriamolo insieme!

Il quadro storico della vicenda

photo credits: wikipedia.org

Partiamo esaminando la storia vera che c’è dietro l’opera di Zwick, e iniziamo dal contesto storico in cui versava il Giappone all’epoca.

Siamo a metà del XIX secolo, e il Paese è una nazione isolata e fortemente ancorata alle tradizioni. La volontà dell’Imperatore vede il Giappone proiettato in un’era di prosperità e supremazia militare e politica assoluta, ma la sua è una visione difficile da realizzare e minata da diverse problematiche.

Tuttavia le cose cambiano quando nel 1853 l’ammiraglio statunitense Matthew Perry giunge sulle coste nipponiche con le sue navi, in un momento dove i giapponesi si stavano pian piano aprendo, ancora timidamente, all’estero, almeno sul piano commerciale. Quello che porta Perry, però, fa gola all’Imperatore, che trova una risposta ai suoi dilemmi e ai suoi piani: l’americano era infatti arrivato con navi moderne, e con la conoscenza di tecnologie e strumenti avanzati che potevano sopperire all’arretratezza giapponese. A seguito di queste novità, e dei successivi scambi con l’occidente, dal 1866 al 1869 iniziò il periodo della Restaurazione Meiji: era intenzione dell’Imperatore Mutsuhito modernizzare e industrializzare il Giappone, ponendolo in una posizione di rilevanza nello scacchiere economico mondiale come potenza capitalista.

Per portare a compimento tutto questo, si attuarono una serie di riforme e trasformazioni, tra cui quelle che vedevano una nuova casta sociale emergere a scapito di quella vecchia: un sistema di prefetture e amministrazioni locali date in mano a funzionari statali avrebbe preso il posto dello shogunato e dei samurai, privando de facto questi ultimi di tutto il loro potere e della loro autorità. Ma lo shogun Tokugawa e i suoi guerrieri erano tutt’altro che d’accordo nel venire oscurati, e da qui cominciò una ribellione e una serie di battaglie che prendono il nome di Guerra Boshin.

Jules Brunet e il suo ruolo nella Guerra Boshin

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Per contrastare i rivoltosi, l’Imperatore chiese aiuto all’Occidente, per cui al suo servizio si presentò l’ufficiale francese Jules Brunet. Questi aveva combattuto in Messico a supporto della Francia dal ’62 al ’64, ricevendo i più alti riconoscimenti militari. Esperto di artiglieria e di tattiche di ingaggio europee, fu selezionato come candidato perfetto per aiutare gli imperialisti giapponesi.

Tuttavia, col passare del tempo, Brunet si ritrovò a lottare a fianco dei Tokugawa, allenando a sua volta i samurai nell’uso delle armi occidentali e delle strategie di guerra moderne. Tutt’oggi si sa poco circa la figura del soldato francese e delle motivazioni che lo spinsero a cambiare bandiera, ma molti ipotizzano si trattasse di un idealista che, affascinato dallo spirito e dalla mentalità dei clan appartenenti allo shogun, avesse ritenuto giusto schierarsi a loro favore, contrastando quella che di fatto era una tirannia.

Jules Brunet prese parte a molte battaglie spalleggiando i Tokugawa, durante la Guerra Boshin, ma l’Impero era troppo forte. A seguito dell’editto del 1868 che scioglieva in maniera definitiva tutti i poteri e l’autorità legata allo shogun e che perseguiva ogni samurai rimasto, i ribelli continuarono a subire diverse sconfitte, sia sul campo che sul piano morale: numerosi signori feudali decisero infatti di arrendersi e passare dalla parte dell’Imperatore, ritenendo che fosse la cosa più saggia da fare non solo per la loro sopravvivenza ma anche per l’unità e il futuro prospero del Giappone.

Non potendo contare su un appoggio completo da parte della madre patria, giacché avrebbe significato una guerra tra nazioni, Brunet lasciò la terra del Sol Levante e tornò in Europa, dove avrebbe continuato la sua carriera militare coinvolto in altre campagne. Nel frattempo, l’epoca dei samurai e dello shogunato vedevano il loro tramonto.

Differenze con “L’ultimo Samurai”

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Il film del 2003 condivide alcune analogie con i fatti realmente accaduti, mentre differisce in altre cose. Questo ha portato ad aspre critiche, sia verso Hollywood sia verso l’idea stereotipata e miticizzata che gli occidentali hanno degli orientali.

Ma andiamo con ordine. Nella pellicola, il personaggio ispirato al francese Jules Brunet è qui un ex capitano del Settimo Cavalleria statunitense, chiamato Nathan Algren. Convocato dall’Imperatore per sedare la ribellione, sia allea con i samurai e sposa i loro ideali solo dopo esser stato fatto prigioniero da loro, superando l’iniziale avversione nei confronti di Matsumoto (il leader portavoce della rivolta) e della sua gente. Il periodo in cui si colloca il racconto per il grande schermo, inoltre, si svolge nei tardi anni ’70 del 1800, quindi un decennio dopo la vera Guerra Boshin (1868 – 1869). Per finire, altri due elementi: viene omesso che parte dei samurai passarono dalla parte dell’Impero, asserendo invece che tutti andarono contro il nemico e perirono di conseguenza; non viene nemmeno indicato che anche i rivoltosi dello shogun utilizzavano armi occidentali, dato che ne L’ultimo Samurai questi ultimi combattono ancora con metodi e armi tradizionali e all’antica.

Come abbiamo visto, ci sono certe similitudini con le vicende di Jules Brunet, ma Edward Zwick ha tralasciato (volontariamente o meno, questo non possiamo saperlo) certi dettagli e si è preso delle libertà narrative. Se da una parte è normale che ciò accada per adattare al meglio una storia, anche secondo un personale gusto e una volontà di mandare un certo messaggio, dall’altra quando si tocca la storia con la ‘s’ maiuscola è bene fare attenzione a certe cose.

Come accennato prima, alcuni critici si sono lamentati proprio di questo, redarguendo la pochezza degli americani, i quali avrebbero dipinto la casta samurai come retrograda e talmente testarda da non scendere a compromessi. Questo, sempre secondo le accuse, perché il film doveva veicolare quei valori tipici e cari allo spettatore medio: onore, liberismo e sfida al progresso. A questo si aggiungerebbe anche una visione troppo pura e romantica dei samurai stessi, che in realtà, già a partire dal XVII secolo, con la conclusione delle guerre intestine al Paese, si erano disabituati alla lotta e avevano ceduto all’ozio e alla corruzione dei costumi.

Per quanto legittime e fondate possano esser state le criticità all’opera di Zwick, è sempre bene ricordare che nell’industria dell’intrattenimento bisogna arrivare a patti. Il pubblico vuole la sua parte, così come i produttori e gli azionisti. Condannare in toto L’ultimo samurai sarebbe quindi ingiusto, poiché, veridicità o meno, si andrebbe a toccare una grandiosa gemma appartenente alla settima arte, a partire dalle ottime prove attoriali, passando per una messa in scena poetica e idilliaca, per poi finire con le maestose musiche di Hans Zimmer.

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