Boccioli

Penne del Sol Levante - Mille gru di Yasunari Kawabata

Bentornati nella rubrica Penne del Sol Levante! Oggi parliamo di un classico della letteratura giapponese, Mille gru di Yasunari Kawabata.

Questo romanzo breve è colmo di immagini oniriche e scorci estetici, qui l'autore fa di tutto per invitarci a godere della bellezza di ogni singolo dettaglio della narrazione. Un oggetto d'arredo, una stoffa, il panorama oltre una porta scorrevole, una tazza da tè. Ogni cosa racchiude un piccolo mondo di armonia, leggerezza, contemplazione. Come il fazzoletto dal motivo mille gru, indossato da una delle protagoniste, che non solo dà il titolo al romanzo, ma si erge anche a simbolo di giovinezza e speranza. E' questa la forza e la bravura di Kawabata, far sì che il lettore venga immerso in una miriade di stimoli sensoriali. Ne abbiamo ulteriore prova dall'uso che fa della cerimonia del tè, arte antichissima che in Giappone viene praticata ancora oggi.

Nella storia una delle protagoniste indiscusse è proprio questa cerimonia, luogo non solo della tradizione, ma anche spazio fisico rappresentato dal tempio Engakuji di Kamakura e infine ambiente in cui si dipana tutto il groviglio amoroso della trama.

Il giovane Kikuji vive cercando di crearsi uno spazio libero dall'opprimente figura del padre defunto, a cui tutte le donne che lo circondano erano legate in un modo o in un altro. E sono queste stesse figure femminili a invadere la quieta vita solitaria del ragazzo, tentando di trovargli una moglie.

Alle sue vicende sentimentali e disincantate si sovrappone la storia della sua famiglia, del padre e delle sue amanti, della figura fuggevole della madre.

Consiglio questo breve romanzo a chi ha voglia di conoscere, o riscoprire, un Giappone antico, nostalgico, puro. Le bellissime descrizioni, i colori e la grande capacità  narrativa di Kawabata ci restituiscono una visione incantevole di questi personaggi e dei loro turbamenti.

Sperando che questa breve presentazione vi abbia incuriosito, vi rimando a Penne d'Oriente dove troverete la recensione completa e i dati tecnici del libro.

Buona lettura!


Wabi nella poesia di Fujiwara Ietaka

Foto di Antonello Anappo

 

A coloro che aspettano

solo le fioriture dei ciliegi

vorrei mostrare l’erba di primavera

che spunta attraverso la neve

in un villaggio montano.

Il maestro del tè Sen Rikyû (1522-1591), riteneva che questa poesia di Fujiwara Ietaka (1158-1237) riuscisse a esprimere molto bene lo spirito wabi. Rikyû, attraverso la citazione di questa poesia, voleva invitare coloro che desiderano con grande intensità ammirare le fioriture dei ciliegi a rivolgere lo sguardo dentro se stessi, così da realizzare che l’essenza autentica della bellezza dei fiori è già presente nei nostri cuori.

Il villaggio montano ricoperto dalla neve per lui simboleggiava il luogo ideale dove il nostro spirito poteva essere in grado di raggiungere una condizione di libertà dalle passioni.

Rikyû riconosceva l’esistenza di numerose persone che ricercano solo la contemplazione estetica di bellezze appariscenti: le fioriture, i colori delle foglie autunnali, la luna piena; ma nello stesso tempo attraverso la poesia di Ietaka desiderava presentare una sensibilità estetica molto più profonda. Anche nella stanza del tè ci sono persone che sono in grado di apprezzare solo gli oggetti preziosi e rinomati e non riescono ad andare oltre a un’impersonale adesione a canoni estetici largamente condivisi.

Per Rikyû l’erba di primavera che spunta attraverso la neve rappresenta un’immagine ideale di bellezza modesta e non appariscente che si manifesta in un paesaggio naturale apparentemente immoto. Per il maestro del tè inoltre il senso più profondo della bellezza si trova nel ciclo della natura che, attraverso lo spuntare dei fili d’erba, testimonia la transizione dalla stagione invernale, rappresentata dalla neve, alla rinascita della natura che anticipa la primavera. L’immagine del ciuffo d’erba come simbolo del ciclo naturale ha una valenza estetica profondamente minimalista e suggestiva nella sua modestia, rispetto all’eccessiva eccitazione dei nostri sensi prodotta dalle fioriture dei ciliegi e dal rosso cremisi delle foglie d’acero.

Questa percezione estetica veniva sviluppata da Rikyû anche nella stanza del tè, dove alle preziose e antiche porcellane cinesi dalla bellezza appariscente preferiva oggetti nativi dai colori meno brillanti e dalla forma grezza e irregolare, come le tazze nere in stile Raku. L’ideale estetico del maestro Takeno Jô-ô (1502-1555) trovava compimento nella semi-oscurità della stanza del tè, attraverso l’utilizzo combinato di oggetti cinesi antichi e preziosi con oggetti nativi grezzi e irregolari. Rikyû invece attraverso la poesia di Ietaka ci descrive un diverso ideale estetico che si manifesta attraverso la luce, l’energia, la vitalità e la continuità del ciclo della natura e che trova una perfetta rappresentazione nel fascino non appariscente dei ciuffi d’erba tra la neve.

La sensibilità wabi di Rikyû risulta quindi più viva ed estroversa rispetto a quella di Jô-ô e anche la dimensione di tranquillità creata nella stanza del tè è molto più ascetica e modesta. Nell’architettura della stanza del tè il senso estetico wabi di Jô-ô si realizzava nel costruire un ambiente poco illuminato (solitamente esposto a nord) dove l’ombra smorzasse il fulgore estetico degli oggetti preziosi cinesi, i quali non dovevano in alcun modo risaltare rispetto ai ben più sobri oggetti giapponesi.

La stanza del tè di Rikyû, pur non essendo molto più luminosa rispetto a quella di Jô-ô (era solitamente esposta a sud) riusciva comunque a trasmettere un piacere estetico molto più semplice, tranquillo e non artificiale. Rikyû in alcuni casi decise inoltre di ridurre la dimensione classica della stanza del tè costituita da 4 tatami e mezzo portandola a una dimensione più intima di 1 tatami e mezzo, così da renderla sempre più simile a un piccolissimo rifugio montano.

Il grande maestro Sen Genshitsu, XV erede della scuola Urasenke di cerimonia del tè, in un suo scritto relativo alla Via del tè ha raccontato il seguente aneddoto per evidenziare la concezione estetica wabi sabi che Sen Rikyû riscontrava nella poesia di Ietaka: “Una volta, quando chiesi al mio vecchio maestro Gôto Zuigan il significato di sabi, disse: ‘Guarda lo stagno laggiù’. Pur avendo contemplato a lungo lo stagno – situato al Daijuin, non riuscivo comunque a comprendere il significato di sabi. Dissi al maestro che avevo osservato lo stagno e lui mi chiese  se adesso avessi capito. Quando risposi di no, mi diede istruzioni di continuare a osservare. Tornai sulla riva dello stagno e mi sedetti nella posizione zazen sopra una roccia. Era metà inverno e c’erano i fiori di loto avvizziti sulla superficie dell’acqua. Improvvisamente compresi che i fiori non erano semplicemente avvizziti e che la loro bellezza risiedeva nella capacità rigenerativa della natura. Solo allora realizzai che questo era lo spirito sabi. E capii che la forza che si avverte sul punto di emergere nella poesia di Ietaka era sicuramente una manifestazione dell’estetica sabi.

Alberto Moro


La cerimonia del tè, come esperienza sensoriale

 

La cerimonia del tè giapponese si svolge fondamentalmente in silenzio. Gli unici scambi di parole che avvengono tra il padrone di casa e l'ospite sono strettamente legati alle varie fasi della cerimonia e non dovrebbero turbare in qualunque modo lo stato d'animo delle persone presenti. I momenti di silenzio, oltre a favorire la concentrazione dei partecipanti, riescono ad amplificare, in particolar modo quando si pratica in mezzo alla natura, i suoni esterni ma anche gli interni come il bollire dell'acqua alla giusta temperatura che per i giapponesi ha un suono profondamente evocativo molto simile al vento tra i pini, matsukaze. Si puo inoltre notare che i suoni dell'acqua versata nella tazza da un mestolo chiamato hishaku cambiano in base alla temperatura dell'acqua.

Tutte queste piccole esperienze sensoriali non sarebbero possibili se non ci fosse la concentrazione favorita dal silenzio. Il silenzio come vuoto che riempie lo spazio di suoni che, diversamente, risulterebbero impercettibili dove regnasse il pieno, inteso come insieme di rumori. Oppure si puo affermare che alla riduzione al minimo delle sollecitazioni sensoriali corrisponda un affinamento dell'attività della coscienza. Il minimalismo sensoriale amplifica la percezione della nostra coscienza riguardo a ciò che accade e gli dà profondita di significato.
Nello svuotamento della mente è piu semplice raggiungere quella condizione di unitarietà tra corpo e spirito. In uno stato in cui  la parola è ridotta al minimo, la forma di comunicazione principale è affidata al corpo che, attraverso una corretta respirazione e l'assenza di tensione, trasmette quella serenità cosi importante nell'offrire una tazza di tè.

Questo costante affinamento del nostro spirito praticato in un ambiente propizio ha senso se viene poi condiviso con il nostro prossimo, nella vita di tutti i giorni, dove le costanti sollecitazioni rischiano di sopraffarci. Lo spirito che anima lo studio della cerimonia del tè corrisponde esattamente a quello di chi pratica lo Zen.
I movimenti della cerimonia del tè, codificati in base a un senso e a un'utilità, non risultano mai gratuiti e soprattutto non ricercano mai la bellezza fine a se stessa. Tutti i movimenti del corpo sono definiti in Giappone kata, che significa forme. Quando, dopo una costante ripetizione di queste forme, esse diventano parte di noi e quindi non le sentiamo più estranee,  sono definite katachi. In Giappone l'aver acquisito questa condizione, significa aver raggiunto la massima naturalezza.  Non sono quindi più io che cerco di regolare i miei movimenti secondo un certo modello in quanto quel modello è diventato parte di me.

Durante tutte le fasi della cerimonia, il ritmo dei movimenti deve armonizzarsi con la respirazione. Bisogna imparare a muoversi con velocità ma senza affanno, ciò è molto difficile. La mia maestra di cerimonia del tè, Michiko Nojiri, mi dice sempre che, quando offro una tazza di tè, se non sono in grado di mantenere una respirazione lenta e profonda nel muovermi velocemente, è meglio che rallenti il ritmo dei miei movimenti.

Tra le varie tazze utilizzate nella cerimonia del tè, la tazza raku è sicuramente una di quelle che maggiormente incarnano i principi estetici della via del tè. Queste tazze hanno la particolarita di essere estratte dal forno quando sono incandescenti. Il vuoto, nelle tazze, corrisponde a quelle irregolarita nella forma, quelle piccole rientranze che rendono ogni tazza unica e irripetibile. A ogni tazza viene inoltre attribuita una faccia o fronte, su cui  solitamente si trova un'irregolarità nella forma o una sbavatura di colore. Quello, che agli occhi degli occidentali potrebbe sembrare un difetto, diventa invece motivo di interesse.  Le irregolarità dovrebbero comunque essere provocate da eventi esterni e non essere deliberatamente ricercate dal proprio creatore. In ciò risiede il fascino dell'imprevisto. Se diversamente questi effetti fossero ricercati dal ceramista, risulterebbero solamente prodotti da un manierismo autoreferenziale. Anche nelle fasi di produzione della tazza, il vuoto è importante. Infatti quando la tazza viene presa dal forno, le viene tolta una certa quantita di ossigeno, inserendola in un contenitore ricolmo di foglie e segatura. Questo vuoto d'ossigeno ha un effetto molto evidente sullo smalto della tazza.

Nel 1999 andai in Giappone con la mia maestra e un gruppo di praticanti provenienti da tutta Europa. Un giorno avemmo la fortuna di essere invitati dall'attuale erede della dinastia Raku nella sua stanza del tè, adiacente al museo omonimo di Kyoto. Come segno d'amicizia verso la mia maestra, volle personalmente offrire a tutti noi una tazza di tè utilizzando sia oggetti creati da lui che altri piu antichi realizzati dai suoi avi. La stanza del tè, come tradizione vuole, non era particolarmente illuminata e quindi potei in quel frangente imparare che le tazze non si apprezzano unicamente attraverso la vista ma anche attraverso il tatto. La condizione di semioscurità mi diede quindi la possibilità di sperimentare attraverso le mie mani un'altra forma di percezione, molto piu profonda del solito. Tenere quella tazza nelle mie mani mi ha trasmesso un senso di maggiore vicinanza e intimità con essa come se si fosse trattato di qualcosa di vivente. Questa esperienza mi ha arricchito interiormente ed è rimasta viva fino a oggi nella mia coscienza.

Alberto Moro


Sukiya, Dimora del Vuoto

Tai-an (待庵) Tempio di Miyokyan

Il grande maestro del tè Sen Rikyu (1522-1591), vissuto in Giappone nel XVI secolo, diceva che la stanza del tè doveva essere simile a una capanna di paglia, rappresentare semplicemente un riparo dagli eventi naturali e, nello stesso tempo, conferire un senso di vicinanza alla natura. La stanza del tè doveva essere progettata con il preciso scopo di favorire l’elevazione spirituale di chi la frequentava.
Il termine sukiya era soprattutto usato all’epoca del maestro Rikyu, quindi durante il periodo Momoyama (1573-1603).
Oggi quando si parla di una stanza per la cerimonia del tè, si utilizza la parola chashitsu, termine che iniziò ad essere adottato a partire dal 1600. Il tipo di stanza amata da Sen Rikyu era in stile soan. Questa tipologia si ispirava alle case rustiche in cui gli aristocratici organizzavano incontri di poesia, lontani dalle turbolenze cittadine. Il modello estetico di riferimento era quello dei rifugi montani. La stanza del tè era tradizionalmente in legno e in particolare veniva apprezzato l’utilizzo del cipresso (sugi), del pino giapponese (matsu) e dell’abete giapponese (tsuga).
Per accedere alla stanza del tè bisogna camminare per un sentiero chiamato roji, come fosse un percorso di purificazione. Tutte le pietre sulle quali si cammina sono di forme diverse e distanziate in modo differente e obbligano ad osservare attentamente la direzione dei propri passi. Al termine del breve tragitto, gli ospiti sostano sotto un porticato fino a quando il padrone di casa non li invita ad entrare nella stanza del tè. Prima di entrare nella stanza del tè, tutti gli ospiti devono purificare se stessi con dell’acqua versata da un mestolo. Prima si sciacquano le mani e poi si purificano la bocca.
Dopodiché gli ospiti entrano nella stanza attraverso una porta di legno molto stretta, che misura tradizionalmente 78,8 cm di altezza e 71,5 cm di larghezza chiamata nijiriguchi. L’utilizzo di questo tipo di entrata venne introdotto dal maestro Sen Rikyu che si ispirò alla porta di una casa galleggiante di un pescatore. Per entrare nella stanza bisogna inginocchiarsi e abbassare la propria testa e il proprio corpo. Questo movimento dovrebbe predisporre l’animo dell’ospite a un approccio umile nei confronti di questa esperienza oltre a influenzare la percezione dello spazio interno della stanza, così da farlo sembrare più ampio. I samurai che desideravano entrare nella stanza del tè dovevano abbandonare le lunghe spade all’esterno, in quanto l’ingresso era così angusto da non permettere  loro di portarle con sé.
Una volta entrato nella stanza, l’ospite trova davanti a sé un ambiente spoglio. L’unico elemento architettonico è il tokonoma, una sorta di nicchia, vicino alla quale si siede il primo ospite e al cui interno è appesa un’opera d’arte in forma di rotolo verticale detta kakemono. Questo oggetto può essere una calligrafia realizzata ad inchiostro da un maestro Zen o da un praticante del tè oppure un dipinto, accuratamente scelti dal padrone di casa per esprimere lo spirito che lui desidera infondere all’incontro. La calligrafia deve essere fatta da un maestro Zen o da un praticante del tè in quanto la forza e l’autenticità dell’opera stessa sta nella perfetta coerenza tra forma e contenuto. Il kakemono è senza dubbio l’oggetto più importante presente nella stanza. In passato si costruivano le stanze per adattarle a un’importante calligrafia che si possedeva e non viceversa. Nel tokonoma, si trova inoltre una composizione floreale che, secondo l’estetica della Via del Tè, deve esprimere la semplicità dei fiori di campo. Fiori che solitamente le persone non si soffermano a osservare ma che nel vuoto della stanza del tè possono ritrovare la loro profonda bellezza e dignità.
Il pavimento della stanza è ricoperto da stuoie di paglia di riso, solitamente bordate di tessuto, meglio conosciute con il nome di tatami (il modulo più comune è quello di Kyoto di 1,91 x 95,5). La misura classica della stanza del tè è i 4 tatami e mezzo. Il termine che definisce questo tipo di stanza in Giappone è yojohan. La scelta di queste dimensioni è fatta risalire a Vimalakirti, un buddista laico indiano che viveva in una stanza di circa 9 mq e si dice tradizionalmente che anche in questo piccolo spazio riuscì ad ospitare il santo Manju insieme a 84.000 discepoli del Buddha, segno che per una persona illuminata non esistono limiti dimensionali.
Le pareti sono spoglie. Solitamente i muri sono realizzati con fango misto a fili di paglia come leganti di circa 15-20 cm che non venivano ricoperti così che potessero risplendere nell’oscurità della stanza. Questa tecnica di trattare le pareti si chiama arakabe e conferisce all’ambiente un aspetto rustico.
Colui che organizza una cerimonia del tè dovrebbe ricercare con molta attenzione di mantenere, per tutti i vari momenti che la caratterizzano, dal percorso degli ospiti attraverso il giardino che porta alla stanza, alla loro permanenza fino alla partenza dopo la conclusione dell’incontro, una condizione di quiete in cui lo spirito dei partecipanti non sia turbato da inutili stimolazioni sensoriali, ma sia facilitato nel mantenere una giusta attenzione verso ciò che li circonda. Anche la gradazione luminosa nella stanza, fortemente smorzata, dovrebbe contribuire a favorire uno stato d’animo meditativo.
Takeno Joo (1502-1555), un grande maestro del tè che precedette Sen Rikyu, rivolse il chashitsu, che aveva le pareti ricoperte da una carta bianca spessa e levigata (torinoko) verso nord, in modo che non risultasse troppo luminoso e che riuscisse a evidenziare la bellezza rustica degli oggetti utilizzati durante la cerimonia. Il maestro Rikyu invece era solito posizionare il chashitsu verso sud o est, in quanto ciò gli permetteva di giocare artisticamente con la mutevolezza della luce.
Rikyu riteneva inoltre che le finestre dovessero essere funzionali al dosaggio della luce e non dovessero essere concepite per veicolare lo sguardo verso l’esterno. Non utilizzò quindi nelle sue stanze una sorta di lucernario (tsukiage), amato da altri maestri, che dava la possibilità stando seduti sul tatami di ammirare la luna. Bisognava infatti per Rikyu evitare di eccitare i sensi, così da favorire una condizione meditativa come quella dello zazen, dove si raccomanda ai praticanti di tenere sempre gli occhi semiaperti, così da non focalizzare lo sguardo su alcunché. Le finestre possono essere a listelli di bambù (renjimado) e/o fatte con una sorta di reticolato (shitajimado) e la luce viene filtrata attraverso un’intelaiatura di bambù ricoperta da carta di riso non trasparente. Sia le imposte sulle finestre che gli shoji, pannelli scorrevoli interni alla stanza, potevano scorrere o essere rimossi completamente. Le imposte erano comunque utilizzate come protezione dagli eventi atmosferici.

Alberto Moro


Il tè e il kimono

Dalla prima volta che ho visto una presentazione del Tè, sono stata sicura che il kimono ne facesse parte. Il bel tessuto, l’intricato obi e le maniche fluttuanti hanno contribuito alla mia prima esperienza del Tè. Quando ho iniziato a prendere lezioni di Tè, ho chiesto alla mia insegnante alla prima lezione quando avrei indossato il kimono. Lei mi ha inizialmente vestito con lo yukata e con un semplice obi. Poi mi ha vestito con un kimono più formale per il mio primo Hatsugama e mi sono sentita davvero bella ma avevo paura di muovermi o di respirare.

Un giorno mi disse che era arrivato il momento di vestirmi da sola. Appoggiò tutto sul letto nella camera in cui ci si cambiava. Lottai con esso. Anche appoggiare il rigido tabi ai miei piedi ci fece lottare e sudare. Non ricordavo cosa legare dove e c’erano più strati di biancheria intima, tutti avvolti e legati. Desiderai aver prestato maggiore attenzione quando la mia insegnante mi vestiva. Indossare l’obi fu così difficile. Mi sentivo un tacchino legato. Non potevo respirare perché avevo legato tutto troppo stretto e non riuscivo a vedere né a raggiungere con le mani per far fare all’obi quello che volevo. Mi ci vollero 3 ore e mezza ma alla fine camminai fuori dalla stanza e la mia insegnante non disse nulla. Mi disse soltanto che la lezione stava finendo e di togliermi di nuovo tutto.Leggere di più


Eido Roshi sullo Zen nei kakejiku

Lo scorso mese alla riunione degli Amici nel Tè, Eido Roshi, il responsabile del Daibosatsu, ha tenuto un discorso commentando il significato di alcune famose massime Zen che sono utilizzate spesso sui kakejiku per il tè. Volevo condividere qui qualcuna delle cose che sono state dette. Ho fatto del mio meglio nel prendere appunti nella maniera più accurata possibile ma so che ci sono delle cose che mancano ed è per questo che mi scuso.

Ichigo ichie

“Questa espressione è così  immensa che non c’è bisogno che dica niente… È tradotta spesso con “una volta, un incontro”. Letteralmente questa traduzione è inaccurata ma la mia interpretazione è “senza precedenti e irripetibile”. Non ci siamo mai incontrati qui – senza precedenti. Molto probabilmente, fra sei anni, ci saranno volti nuovi. Quindi, irripetibile.Leggere di più


Dogu - Oggetti per il chanoyu

Dogu è il termine che indica gli utensili per la preparazione del tè. Mio marito ride di me e li chiama giocattoli per il tè. In effetti, tutto quello di cui si ha bisogno per il chanoyu è chawan (tazza del tè), chasen (frustino per il tè), chakin (panno per asciugare), fukusa (panno per la purificazione), chaki (contenitore del tè) e chashaku (cucchiaio per il tè). Con questi sei utensili, si può praticare il chanoyu dappertutto.

Quando iniziai a studiare il chado, non c’erano molti utensili giapponesi disponibili. Anche se potevo permettermeli, non mi erano accessibili. Incominciai a guardare degli oggetti prontamente disponibili che potessero essere utilizzati per il tè. Ho ancora molti di questi utensili improvvisati: una tazza di ceramica per il kensui, un contenitore dei biscotti come contenitore dell’acqua fredda, contenitori di varie dimensioni e forme per i dolci per il tè.Leggere di più


Pulire è purezza

Sono brava a pulire. Non lo ero. Prima di studiare il chado, ero sciatta. La mia stanza era un caos, la mia scrivania al lavoro era un caos, in effetti la mia vita era un caos. Una delle prime cose che ho imparato nel tè è stato come pulire.

Così ho pulito. Spesso ero la prima al keiko ed era mio compito pulire i tatami prima della lezione. Pulivo la stanza del tè, quindi pulivo la stanza della preparazione (mizuya). Rimanevo dopo la lezione e pulivo la stanza del tè, mettevo a posto gli utensili e pulivo la mizuya. Quando studiavo in Giappone, uno dei miei compiti era pulire la stanza di 100 tatami. Ciò significa stare in appoggio sulle mani e le ginocchia e spolverare a mano ciascun tatami (3 piedi per 6 piedi), tutti e 100, ogni sera dopo la lezione.Leggere di più


Il Chado nel mondo reale

Amo entrare nella stanza del tè, vedere il kakemono e i fiori e annusare l’incenso. La stanza del tè è un luogo sicuro in cui le regole dell’etichetta garantisce che tutti sappiano quello che accadrà e come comportarsi. Siamo tra persone che condividono gli ideali del wa, kei, sei e jaku. Questo è il mondo del tè.

E tuttavia, c’è questa dualità. La mia vita nel tè, o la mia vita quando non pratico il tè. Qual è il mondo reale? Talvolta sembra che la stanza del tè sia più reale del resto della mia vita quando mi preoccupo dei conti, dei conflitti sul lavoro, della mia famiglia, dello shopping e di molte altre cose. Nella stanza del tè, mi preoccupo soltanto di preparare un buon tè, mi preoccupo dei miei ospiti e di fare del mio meglio.

Per molti anni, ho dovuto guidare attraverso la città dopo il lavoro per frequentare la classe del tè. Nel bel mezzo del traffico più odioso ero sulla circonvallazione e guidavo verso la casa della mia sensei. Talvolta mi ci volevano più di due ore per arrivarci e io avevo il terrore di fare quel viaggio. Quando arrivavo a lezione, ero in ritardo, frustrata e distratta. Una sera notai, tornando a casa, che tutte le volte che andavo a una lezione sul tè, ero molto felice sulla via del ritorno. Il più delle volte, il traffico era molto leggero, ma talvolta era altrettanto pesante dell’andata. Non importava, ero felice di guidare verso casa.Leggere di più


Il cucù estivo

natsu no yo no

fusu ka to sureba

hototoguisu

naku hitokoe ni

akuru shinonome

In una notte d’estate,

non appena mi ero distesa

ecco che appare la prima luce

pallida dell’alba – annunciata

da un’unica canzone del cucù.

L’hototogisu è un tipo di cucù giapponese (Cuculus poliocephalus). Il canto dell’hototogisu segnala tradizionalmente l’arrivo dell’estate. In alcuni racconti, il grido funereo di un hototogisu in un bosco solitario era associato al desiderio degli spiriti dei morti di ritornare dai propri amati ancora in vita. L’hototogisu è stato a lungo un tema popolare nella letteratura e nella poesia giapponesi, apparendo sia ne Il racconto di Genji che ne Il libro del cuscino, e comprendendo praticamente un intero genere di haiku dedicati all’hototogisu. È una parola comoda che contiene 5 sillabe e quando si aggiunge yama (montagna), ne comprende 7.Leggere di più