Conosci i nostri soci: Chiara Lorenzetti e il restauro kintsugi
Chiara Lorenzetti e il restauro kintsugi
Un’intervista in vista della prossima diretta Instagram di Giappone in Italia

Nella cornice di una nuova rubrica dedicata a conoscere meglio i soci convenzionati dell'Associazione Giappone in Italia, incontriamo Chiara Lorenzetti, restauratrice da oltre trent'anni e riconosciuta dal 2007 Eccellenza Artigiana dalla Regione Piemonte. Nel suo laboratorio Chiaraarte, fondato a Biella nel 1991, si occupa di restauro conservativo ed estetico di ceramiche e oggetti lignei policromi e dorati, con una particolare attenzione al restauro tradizionale giapponese kintsugi.
Cos'è il kintsugi? Nelle parole di Chiara:
Kintsugi 金継ぎ - kin 金: oro, tsugi 継ぎ: riparare - è una tecnica artistica ideata alla fine del 1400 da ceramisti giapponesi per riparare tazze tenmoku in ceramica per la cerimonia del tè, Cha no yu. Le linee di rottura, unite con lacca urushi, sono lasciate visibili, evidenziate con polvere d’oro. Gli oggetti in ceramica riparati con l’arte Kintsugi diventano vere opere d'arte: l'impreziosire con la polvere d'oro ne accentua la loro bellezza, rendendo la fragilità un punto di forza e perfezione.
L’arte Kintsugi vede la sua origine in Giappone nel periodo Muromachi, sotto lo shogunato di Ashikaga Yoshimasa (1435-1490). Yoshimasa ruppe una delle sue chawan per la cerimonia del tè, e i maestri ceramisti giapponesi cercarono di mettervi riparo usando l'estetica del wabi sabi e i materiali a loro disposizione: lacca urushi per incollare e oro per coprire le rotture. Il risultato ottenuto fu apprezzato da Yoshimasa; la sua tazza non solo era stata riparata ma aveva preso una vita nuova, carica delle sue imperfezioni e proprio per questo ricca di bellezza: era diventata unica.
La tecnica è complessa: abbisogna di elevata manualità e precisione, nonché di calma e pazienza. I materiali usati sono lacca urushi, estratta dalla pianta Rhus Verniciflua, farina, argilla e polvere d'oro puro. Il processo di polimerizzazione della lacca avviene nel muro, un ambiente caldo (20°) con umidità relativa intorno al 70 - 90%.
L'arte kintsugi non è solo un concetto artistico ma ha profonde radici nella filosofia Zen; partendo dal wabi sabi, tre sono i concetti in essa racchiusi: mushin, mujō e mono no aware. Mushin, "senza mente", è un concetto che esprime la capacità di lasciar correre, dimenticando le preoccupazioni e liberando la mente dalla ricerca della perfezione. Mujō si traduce con "impermanenza"; l'esistenza, senza eccezioni, è transitoria, evanescente, incostante e tutte le cose sono destinate alla fine. Accettare tale condizione è avere un approccio sereno e consapevole della vita. Mono no aware, "empatia verso gli oggetti", è una malinconia triste e profonda per le cose; apprezzandone la loro decadenza si arriva ad ammirarne la bellezza.

In previsione di una diretta Instagram sul canale ufficiale dell’Associazione, in data giovedì 3 luglio alle ore 12:00, dedicata ad approfondire le diverse tecniche del kintsugi - non solo oro, ma anche argento, lacche urushi, yobitsugi, raden e maki - Chiara si racconta ai nostri lettori in questa intervista, condividendo il suo percorso professionale e umano e offrendo uno sguardo lucido e appassionato su un'arte che in Italia è ancora poco conosciuta o compresa.
Al telefono, Chiara è estremamente gentile e disponibile, e dalla sua voce traspare non solo una grande passione per la propria attività e per la cultura a tutto tondo, ma anche il desiderio di fare chiarezza sul significato autentico del kintsugi, una tecnica di restauro artigianale, creativa e complessa. Proprio di questo ci parlerà più nel dettaglio in occasione della diretta, durante la quale ci sarà spazio anche per una sessione Q&A: invitiamo quindi lettrici e lettori a preparare eventuali domande, riflessioni e curiosità da rivolgere a Chiara durante l’incontro.
Chi è Chiaraarte e di cosa si occupa oggi?
Chiaraarte è il mio laboratorio d'arte e restauro, nato nel 1991 a Biella con l'intento di essere un punto di riferimento per il restauro di bambole antiche.
Ora, a distanza di più di trent'anni, mi occupo di restauro ceramiche, sia con restauri estetici, conservativi che kintsugi; eseguo restauro di oggetti in legno policromi e dorati, con dorature a guazzo.
Mi occupo di restauro kintsugi dal 2015: dai miei studi è nato il libro "Kintsugi, l'arte di riparare con l'oro" che, oltre ad essere un manuale tecnico, esplora la cultura e la storia giapponese del periodo Higashiyama bunka.
Nel corso dell'anno conduco corsi di kintsugi tradizionale e contemporaneo, team building aziendali, conferenze; ultimamente ho creato nuovi corsi di restauro ceramiche.
È questo un modo nuovo di intendere il restauro che mi appaga e mi spinge ad approfondire le mie conoscenze.
Nel suo sito racconta di essere cresciuta circondata dall’arte, all'interno del negozio d’antiquariato del padre, e di aver poi frequentato l’Istituto per l’Arte e il Restauro “Palazzo Spinelli” a Firenze. Come è nata, da questo percorso, la sua passione per la cultura Higashiyama ed in particolare per il kintsugi?
L'inizio è stato abbastanza casuale: nel 2015 un'amica pubblicò sulla mia pagina Facebook l'immagine di una tazza restaurata con l'oro. Approfondii, nonostante la difficoltà nel reperire informazioni all'epoca, e decisi - vista la mia natura di restauratrice - di approcciarmi alla tradizione, con materiali e strumenti giapponesi. Curiosamente, però, attratta principalmente dalla bellezza della tecnica, tralasciai la cultura e l'arte giapponese, concentrandomi più sui passaggi (all'epoca davvero difficili e sperimentali) che sul contesto culturale.
Solo nel 2018, dopo essere stata ospite in Giappone di TvTokyo, aver conosciuto e lavorato con il mio maestro Hiroki Kiyokawa e aver potuto raccogliere personalmente la lacca urushi a Daigo, nella prefettura di Ibaraki, mi sono sentita parte di un tutto più grande e armonioso, che non era più solo tecnica, ma Arte.
L'incontro con il Giappone è stata la svolta nel mio modo di lavorare al restauro, con un approccio più poetico, profondo, quasi meditativo: la ceramica non è un numero ma ogni volta una storia a sé, personale, intima e creativa.
In che modo l’arte del kintsugi si declina oggi nel contesto italiano, e in particolare nella sua produzione artistica?
Se parliamo strettamente di restauro, l'arte kintsugi è vista con diffidenza: in Italia noi professionisti del settore seguiamo le linee guida della Teoria del Restauro di Brandi, che presuppone che il restauro non danneggi in alcun modo l'opera, sia reversibile e poco invasivo sulla leggibilità dell'opera stessa, tutte caratteristiche che non si trovano nel restauro kintsugi. In Italia il kintsugi è visto più come la realizzazione di una nuova opera d'arte che per quello che realmente è: una tecnica, creativa, di restauro. Ecco, la parola creativa e la parola restauro in Italia non vanno assolutamente d'accordo!
Come detto prima, oltre al restauro mi occupo quindi anche di formazione e divulgazione nella speranza che i due mondi possano incontrarsi nel rispetto reciproco.
Il mio approccio all'arte kintsugi è un approccio legato, ove possibile, alla tradizione, con l'utilizzo di materiali e strumenti tradizionali giapponesi. Non nego di aver fatto fatica anch'io, all'inizio, ad accettare questa visione creativa, ma ultimamente mi sto aprendo a tecniche sempre tradizionali, che però offrono una visione più ampia rispetto al solo utilizzo dell'oro: argento, lacche urushi colorate, yobitsugi, raden, maki.
Insomma, anche le restauratrici hanno un'anima estrosa!

In occasione delle Olimpiadi di Tokyo 2020 ha collaborato con atleti come Gabriele Detti, Bebe Vio e Vanessa Ferrari. Ritiene che questa esperienza possa rappresentare un esempio di come un’arte apparentemente “alta” e radicata nella cultura giapponese riesca invece a veicolare messaggi universali e contemporanei?
Certamente. In questi anni ho collaborato con psicologi, psichiatri, counselor, coach; ho partecipato a team building aziendali, a eventi presso ospedali nei reparti oncologici, presso strutture di accoglienza per disabili, per donne vittime di abusi, giovani con disturbi della personalità; sono stata ospite di programmi televisivi su Report, Rai2, RSI1 Svizzera.
L'oro nelle crepe non è solo oro che impreziosisce una ceramica e la rende adatta a usi alimentari ma assume un altissimo valore simbolico di valorizzazione della fragilità, della capacità di superare le difficoltà, del condividere e mostrare la fatica, il dolore e la rinascita. Io, mentre restauro, sento spesso questa forza così potente e cerco, nei miei gesti lenti, di interpretarne la cura.
Se potesse sfatare un luogo comune particolarmente diffuso sul kintsugi, così come viene percepito in Italia, quale sceglierebbe e perché?
In Italia, come nel resto del mondo (e sì, anche in Giappone!) si è diffusa, a fronte della difficoltà nell'apprendere l'arte kintsugi tradizionale, dei suoi tempi lunghi e del costo dei materiali, una versione moderna, contemporanea, immediata, semplificata, e con utilizzo di materiali non naturali. Questa versione non è univoca, ma molteplice per materiali e modalità di esecuzione.
È da intendersi kintsugi o no? La mia opinione è che lo sia, che sia un'evoluzione, e che sia così per ogni forma d'arte: senza innovazione saremmo fermi ai tempi della pietra.
E quindi a cosa dobbiamo fare attenzione? A capire se è stata usata la tecnica tradizionale o no. Spetta a chi pratica quest'arte essere onesto nella descrizione dei materiali usati e dei passaggi effettuati.
Ma soprattutto dobbiamo essere attenti a cogliere la bellezza della perfezione dell'oro, la semplicità delle linee, la preziosità delle mani sapienti degli artigiani.
Perché kintsugi insegna il rispetto e la forza, potente e sommessa, del silenzio. E non è, ahimè, una linea d'oro buttata in malo modo su una ceramica solo per marketing.
Ringraziamo ancora Chiara Lorenzetti per aver condiviso con noi il suo percorso.
Vi aspettiamo numerosi giovedì 3 luglio alla diretta Instagram e vi invitiamo a scoprire di più sul suo lavoro attraverso i suoi contatti ufficiali:
CHIARAARTE DI CHIARA LORENZETTI
RESTAURI D’ARTE DAL 1991
Indirizzo: Via Novellino 16, 13900 Biella
E-mail: info@chiaraarte.it
Sito web: www.chiaraarte.it ┃ kintsugi.chiaraarte.it

"La luna vista dai maestri della stampa giapponese" in libreria
È disponibile da qualche giorno in libreria il cofanetto "La luna vista dai maestri della stampa giapponese", un volume che offre una selezione di opere dei grandi maestri di arte Ukiyo-e con la luna come figura di rilievo.
All'interno della cultura nipponica, la luna ha sempre avuto un ruolo centrale nell'immaginario collettivo, venendo celebrata da feste e rituali a lei dedicati, e rappresentando un’importante fonte di ispirazione per artisti e poeti. La sua presenza nel cielo notturno scandisce il passaggio dei mesi, e trasforma al tempo stesso l'aspetto dei paesaggi che illumina con luce candida. Tale rilevanza culturale e visiva si riflette potentemente in molti lavori letterari e artistici realizzati in Giappone nel corso dei secoli.
La raccolta include un gran numero di artisti, tra cui Utagawa Hiroshige, Katsushika Hokusai e Utagawa Kunisada.
Il nuovo progetto editoriale de L’Ippocampo si compone di oltre cento pagine rilegate in un libretto "a fisarmonica", ideale per presentare in modo elegante e accessibile tutte le immagini del volume. L’opera è poi introdotta da un’accurata prefazione, che delinea un profilo della storia della luna nella cultura giapponese, dal X secolo alla prima metà del Novecento.
Le riproduzioni raccolte nel cofanetto offrono così una testimonianza preziosa in merito all'abilità unica dei grandi maestri dell’arte della stampa ukiyo-e: la loro capacità di raffigurare un simbolo poliedrico come la luna all’interno di composizioni visive sempre equilibrate e suggestive.

Cinema: “L'innocenza” di Kore-eda disponibile in streaming su NOW
Il film "L'innocenza" del regista giapponese Kore-eda Hirokazu, premiato con la Queer Palm e il premio per la migliore sceneggiatura durante la 76esima edizione del Festival di Cannes è ora disponibile in streaming su NOW per coloro che hanno perso la prima TV su Sky Cinema Due.
Il film racconta la storia di Minato, un bambino di undici anni che comincia a comportarsi in un modo bizzarro agli occhi della madre, una donna vedova costretta a confrontarsi con la dura realtà. Saoir è da sola nella crescita di suo figlio e, dopo aver scoperto che dietro il comportamento bizzarro del bambino si nasconde in realtà il suo insegnante e l’amico Yori, la donna piomba a scuola e pretende di capire dai diretti interessati cosa sta succedendo e perché suo figlio è così strano. La storia si racconta attraverso i punti di vista della madre, del bambino e dell’insegnante e man mano che i dettagli vengono a galla, anche la verità emerge in tutta la sua forza. Come spesso accade nei film del regista, la verità si rivelerà essere ben diversa da quella che Saori credeva.

Letteratura: “Made in Japan. Arte, storie e segreti di una civiltà millenaria”
La recente pubblicazione di Francesco Morena per Giunti Editore “Made in Japan. Arte, storie e segreti di una civiltà millenaria” porta i lettori in un affascinante viaggio nel tempo, nel cuore della cultura giapponese.
L'autore, studioso esperto di arte orientale, guida il lettore attraverso venti capitoli riccamente illustrati, offrendo una prospettiva accessibile sia agli studiosi che ai neofiti desiderosi di esplorare il complesso e affascinante universo giapponese.
L'opera si configura come una preziosa antologia di “pillole” che svelano le vicende, i protagonisti e le eredità che hanno plasmato l’identità culturale del paese, intrecciando la sua storia e l'arte.
“Made in Japan” si rivela così un invito coinvolgente a scoprire la profonda connessione tra passato e presente che anima la millenaria civiltà del Sol Levante.
Informazioni:
Francesco Morena
Giunti Editore, Firenze 2025
pp. 240, € 29
FEFF 27: La celebrity giapponese Megumi tra i giudici

Quando due culture lontane si uniscono attraverso il vetro, progetto “DieXe” a Venezia
Sviluppato dall’architetto giapponese Kengo Kuma in collaborazione con Salviati&Co, il progetto “DieXe” propone un intreccio tra la tradizione vetraia veneziana e l’innovativa estetica giapponese.
Un’opera d’arte in vetro creata dall’architetto segna infatti un nuovo capitolo nel dialogo culturale tra Venezia e il Giappone, unendo le rispettive competenze artigianali in un’iniziativa che celebra sia il passato che il futuro dell’artigianato artistico. Infatti, le due culture, lontane fisicamente, sono in realtà molto vicine nei loro pensieri: entrambe, infatti, valorizzano profondamente la tradizione, pur senza rinunciare all’innovazione. Questo connubio di valori si manifesta attraverso la cura del dettaglio e l’attenzione all'ambiente circostante, elementi che caratterizzano il lavoro sia degli artigiani veneziani che degli artisti giapponesi.
Al centro di “DieXe” vi è l’impiego delle iconiche Briccole veneziane, elementi infrastrutturali capostipiti della laguna, le cui caratteristiche uniche hanno ispirato la creazione di stampi innovativi per il vetro. Questi stampi, a loro volta, hanno arricchito il vetro di Murano di texture raffinate, integrando l’esperienza artigianale con nuove idee e prospettive.

In libreria il romanzo inedito di Fumiko Enchi, Saimu
Un inedito romanzo della scrittrice Fumiko Enchi intitolato Saimu, I colori della nebbia è stato tradotto in italiano da Maria Teresa Orsi e con postfazione di Daniela Moro ed è ora disponibile nelle librerie!

Questo suo nuovo romanzo, mai tradotto finora, è un libro importante: continua e si fa sempre più complessa l'esplorazione del tema della sensualità e spiritualità delle donne. Questa volta la protagonista è Tsutsumi Sano, una scrittrice sessantanovenne, che riceve in dono una speciale pergamena illustrata: Fumiko Enchi riesce attraverso la sua lingua e ai suoi personaggi a raccontare le infinite stratificazioni del desiderio e del potere femminile.
Fumiko Enchi è stata un’acclamata sceneggiatrice e scrittrice, tra le più importanti voci femminili giapponesi del periodo Shōwa. Celebre per la sua profonda indagine sulla condizione delle donne nella società giapponese, nonché sulla sessualità, il desiderio e la psicologia femminile, è stata la prima donna a vincere il prestigioso premio Noma.

Due film per ricordare Masahiro Shinoda: Under The Blossoming Cherry Trees (1975) e Demon Pond (1979)
di Marcella Leonardi
Lo scorso 25 Marzo ci ha lasciati il regista e sceneggiatore giapponese Masahiro Shinoda, tra i più grandi autori - insieme a Nagisa Ōshima, Seijun Suzuki e Shōhei Imamura, tra gli altri - della Nūberu bāgu (Nouvelle Vague) giapponese. Lo ricordiamo con due tra i suoi titoli più affascinanti.
Le recensioni sono tratte dal blog di cinema giapponese classico e contemporaneo NUBI FLUTTUANTI
UNDER THE BLOSSOMING CHERRY TREES (Sakura no mori no mankai no shita, 1975)

Un rozzo montanaro uccide le sue sei mogli per assecondare una donna affascinante che ha catturato. Man mano che il tempo passa, l’uomo si spinge a compiere crimini sempre più efferati per compiacere la sua nuova moglie, creatura sadica e necrofila.
Scritto nel 1947, all’indomani della Seconda guerra mondiale, in un paese prostrato e ridotto a sentimenti primordiali e violenti (scrisse Ozu nel 1951: “Mi dispiace, non riesco più a sentire lo stesso affetto (…). In passato quelle persone non erano senza cuore così come sono oggi”), il racconto di Sakaguchi Ango mette in scena una vicenda agghiacciante, in cui i confini tra sogno e incubo, bellezza e orrore sono labili e sfuggenti come il vento gelido che spira tra i fiori di ciliegio. Petali di sovrumana bellezza si moltiplicano sugli alberi e creano un sovraccarico sensoriale – di colori, profumi, di un delicato stormire tra i rami – che diviene per l’essere umano qualcosa di minaccioso e inspiegabile. Sakaguchi animava le sue foreste di uno spirito malvagio quanto magnifico e vago, simile a una presenza femminile di inusitata crudeltà e leggiadria, capace di liberare un desiderio pulsionale in chiunque la ammirasse. Nel racconto, il rude montanaro protagonista resta schiavo di un incanto che lo trascina nel più profondo abominio: la donna da lui catturata e presa in moglie è seducente come ciliegi in fiore, ma dominata dalla follia. Per lei, il montanaro ucciderà le sue mogli, taglierà teste, si piegherà alla vanità della donna e alle sue voglie perverse.
Masahiro Shinoda, studioso e appassionato di letteratura, profondamente interessato a trasporre forme e strutture letterarie in immagini – alla ricerca di un nuovo emerso dalle ceneri dei linguaggi tradizionali – si avvicina al racconto di Sakaguchi con rispetto, riproducendone la sequenza di eventi così come i dialoghi e le perturbanti atmosfere, frutto della psiche alterata dei protagonisti. Ma là dove Sakaguchi si prodigava in descrizioni minuziose, facendo della parola uno strumento affilato e innocente, usato nella sua nuda evidenza per mettere in scena l’orrore e la malattia insiti nell’esistenza umana, Shinoda consegna all’immagine il carico di significanza delle dense pagine dello scrittore.
Per questo motivo le sue inquadrature sono profonde e stratificate: all’interno dell’immagine lo spettatore può “muoversi” tra molteplici informazioni, soffermarsi su oggetti e indizi in avampiano, lasciar scorrere lo sguardo ai margini (spazio prediletto da Shinoda per collocarvi la presenza umana), fino a cogliere le microstorie sullo sfondo (un gatto, un personaggio, una finestra/palcoscenico sul mondo).
La bellezza della visione di Shinoda risiede in questo atto di trasformazione della pagina in una immagine/microcosmo di qualità tridimensionale. Emerge la sua ammirazione per Orson Welles, che ne influenza la scomposizione dell’inquadratura in una pluriformità esplorata da una regia osservatrice e testimone della degenerazione dell’essere umano.
Occhio voyeuristico, analitico, non di rado morboso, la macchina da presa “emotiva e pensante” di Shinoda si sofferma sul corpo della donna (la musa Shima Iwashita), ne ammira con voluttà la pelle diafana e le labbra carnose. In una scena ne spia i giochi erotici perversi con una passione feticista che è la medesima del protagonista: Shinoda indugia sui seni, sulla bocca, sui piedi pallidi e delicati capaci di scatenare l’irrazionale bramosia del marito. La densa atmosfera erotica che satura le scene è indissolubilmente legata a un sentimento di repulsione e disprezzo e l’inquietudine è accentuata dalle note dissonanti del grande compositore Tōru Takemitsu, che sollecita un continuo ritorno del rimosso sovvertendo canoni tradizionali e melodie, a favore di composizioni disarmoniche e sperimentali.
“Mondo di sofferenza, eppure i ciliegi sono in fiore”: dalle immagini di Shinoda spira la stessa triste e crudele poesia dei versi di Kobayashi Issa (小林一茶, 1763–1828), l’orrore nei confronti di una bellezza corrotta dal male e dagli istinti. Si avverte una riflessione altra, un pensiero per un Paese che fonda la sua cultura su un’estetica squisita, di impalpabile grazia, ma cova un destino di violenza antropologica. La foresta di ciliegi in fiore osserva il male dell’uomo e lo investe del suo potere e del suo monito: la dissoluzione, con i corpi dei due amanti fagocitati in un nulla che diviene petalo soffiato dal vento.
Così come Shinoda, anche Kiyoshi Kurosawa in Charisma o Ryūsuke Hamaguchi in Il male non esiste ci raccontano di una natura aliena e gelida, dotata di un proprio “istinto” e sprezzante delle macabre miserie umane.
DEMON POND (Yasha-ga-ike, 1979)

L’insegnante Yamasawa si reca in un villaggio colpito dalla siccità alla ricerca dell’amico scomparso Hagiwara. Scopre che questi si nasconde lì e ha sposato Yuri, un’affascinante donna locale il cui destino è intrecciato con la campana del villaggio. La leggenda vuole che la campana debba essere suonata tre volte al giorno, altrimenti il Demone Drago si libererà.
Regista di punta della Nūberu bāgu, la “nuova onda” rivoluzionaria degli anni ’60, Masahiro Shinoda è ancora molto attivo negli anni ’70, un periodo fertile per la sua ispirazione fuori dal comune. Studioso di teatro classico, attratto dagli stilemi del teatro Kabuki (che così spesso ha incrociato le proprie forme con quelle cinematografiche), il regista porta a compimento, con Demon Pond, una sintesi tra la sua naturale e irriducibile propensione a un cinema “futuro” e la fascinazione nei confronti di miti e leggende tradizionali.
Tratto dall’omonima piéce di Kyōka Izumi (1913), Demon Pond allo stesso tempo esalta e nega la sua origine teatrale: Shinoda ricostruisce boschi, fiori e paesaggi in studio, mentre i cromatismi e l’uso della luce, profondamente anti-naturalistici, concorrono alla creazione di un contesto stilizzato in cui gli attori lavorano sulla gestualità rituale del corpo. Rispettando i severi dettami del Kabuki, Shinoda affida a Bandō Tamasaburō V, tra i più celebri e venerati onnagata (attore kabuki specializzato in personaggi femminili) il ruolo di Yuri/Principessa Sharayuki; e aderisce con serietà allo spirito dell’opera originale, dando vita a un dramma magico e suggestivo, al contempo raffinatissimo e popolare. Scenografie variopinte fanno da sfondo a conflitti di personaggi dal segno emotivo opposto, abbigliati in costumi tradizionali e fantastici; su tutti, trionfa la carismatica presenza di Bandō, nei cui gesti si realizza l’enigma di un femminile idealizzato e spirituale. Demone/donna di grazia irraggiungibile, l’attore materializza carnalmente i volti dipinti dall’arte Ukiyo-e; la macchina da presa lo accarezza delicatamente in primissimi piani soffusi di luce, quasi si accostasse a un mistero divino.
Ma se la messa in scena di Demon Pond è una resa alla bellezza dell’archetipo teatrale, ai suoi fondali dipinti, a uno spazio astratto di intensa sensorialità (ricco di colori, materiali, profumi, elementi primari), la regia cinematografica di Shinoda interviene a scomporne la classicità, all’insegna di una nuova esperienza percettiva.
Con una lucida operazione di distanziamento dai codici, Shinoda spezza la struttura tradizionale e interferisce con soggettive, campi lunghissimi alternati a primi piani, e soprattutto un montaggio irregolare e anti-armonico. I personaggi maschili appaiono sghembi, irrisolti, animati da una modernità che li confonde e li spinge ai margini del “fantastico”, quel regno dell’estraneo e del fiabesco in cui la figura umana è un corpo estraneo. Il bosco, animista e carico di presenze sfuggenti, è folcloristico e “falso” alla maniera di Kinoshita (evidenti i richiami alla messa in scena de La Ballata di Narayama, 1958, con i suoi paesaggi saturi); ma Shinoda esercita uno sperimentalismo profondamente diverso dalla passione di Kinoshita per le possibilità del mezzo-cinema, rivelando un occhio più severo, politico nel rielaborare il passato.
La brutalità dei suoi zoom, la consapevole contrapposizione tra l’immagine e il suo doppio (il riflesso nell’acqua), l’uso espressivo delle dissolvenze incrociate sembrano separare in modo netto il Giappone contemporaneo dalle sue proiezioni fantastiche e immaginarie. Quando il volto della Principessa Shirayuki sparisce “assorbito” dal tronco dell’albero, o ancor di più nella strabiliante sequenza dell’ascensione, in cui Shinoda mette in atto la più sfrenata visionarietà, lo spettatore diviene partecipe di una riflessione estetica non dissimile da quelle espresse da Toshio Matsumoto o Shūji Terayama (originariamente collaboratore di Shinoda). Il regista sollecita, con le sue immagini multisensoriali e stratificate, una sorta di “risveglio surrealista”: Demon Pond è cinema che taglia, scruta, sfiora la materia viva della leggenda, giungendo a interrogarsi su un presente privato del conforto dell’epica.
[Marcella Leonardi è critica cinematografica e docente. Da sempre appassionata di cinema, ha collaborato con varie testate tra cui Sonatine, Cinefilia Ritrovata, Nocturno e Otto e mezzo. Da alcuni anni si dedica prevalentemente al cinema giapponese.]
Muovere i primi passi nel mondo della lingua giapponese
Bene, ora che vi ho convinto a iniziare a studiare il giapponese illustrandovi gli aspetti più facili della lingua nel precedente articolo (che potete trovare qui), andiamo a vedere assieme come muovere i primi passi in questo mondo magico. In altre parole, da dove si parte?
Ecco cinque step da seguire per iniziare a studiare il giapponese con metodo:
- Hiragana & Katakana
Il sistema di scrittura giapponese è fondamentalmente composto da tre parti: due alfabeti sillabici e i famigerati caratteri derivanti dal cinese. Andiamo a vedere più in dettaglio con la frase d’esempio qui sotto:
私は ローマへ行きます。
Watashi wa Roma he ikimasu.
Le parti scritte in blu sono scritte in kanji, quelle scritte in verde in hiragana e quelle scritte in rosso in katakana. Hiragana e katakana sono quelli che abbiamo precedentemente definito come alfabeti sillabici. Ma cos’è un alfabeto sillabico innanzitutto? E’ un alfabeto composto da lettere che, al posto di rappresentare un singolo suono, rappresentano quello di una sillaba, solitamente composta da una consonante e una vocale. L’hiragana (in verde) è quello che tra i due viene utilizzato più frequentemente, in particolare per scrivere le desinenze dei verbi e le particelle. Il katakana (in rosso), invece, viene utilizzato principalmente per le parole di derivazione straniera.
Il primo e indispensabile passo per apprendere il giapponese seguendo un percorso ben strutturato, è quello di partire dallo studio dei due sistemi di scrittura dei kana: hiragana e katakana. Partire da qui è fondamentale per rendersi conto della presenza di quei lati della lingua che divergono dalla pronuncia italiana, come per esempio gli allungamenti delle vocali, per poi acquisirli.
- Saluti ed espressioni comuni
Una volta appresa la parte alla base del sistema di scrittura si può passare a imparare saluti ed espressioni comuni frequentemente utilizzate, come per esempio: “Buongiorno”, “Grazie”, “Arrivederci”, “Buon appetito”, ecc.
Vi stupirete di quanto queste espressioni non siano scontate! Infatti, spesso, anche se esiste un corrispettivo della stessa espressione in italiano, magari quella giapponese viene utilizzata in un contesto simile, ma leggermente diverso. Oppure, presumendo semplicemente che quella parola sia la diretta traduzione di quella in italiano, si vanno a perdere rilevanti sfumature di significato.
Prendiamo per esempio l’espressione いただきます (itadakimasu). Questa parola potrebbe essere superficialmente tradotta come “Buon appetito”. Tuttavia, se ci si ferma qui, si rischia di incappare nell’errore di rivolgere questa parola ad altri commensali, come faremmo in italiano. La chiave per comprendere perché sia sbagliato utilizzarla in questo modo risiede nel significato letterale della parola. いただきます infatti non ha un significato nemmeno lontanamente simile a “buon appetito”, si tratta della forma più cortese del verbo “ricevere”, perciò possiamo dire che equivalga all’italiano: “ricevo umilmente”. Questa espressione nello specifico viene, quindi, utilizzata per dimostrare la gratitudine nei confronti del cibo che si sta per consumare e anche alle persone che hanno contribuito alla creazione di tale pietanza.
- Grammatica di base
Una volta studiati i saluti e le altre varie espressioni, si può iniziare a imparare le strutture grammaticali di base della lingua. Da questo punto si può procedere in due modi diversi in base al fatto che ci si voglia affidare alla guida di un insegnante oppure no.
Farsi affiancare da un insegnante è sicuramente molto comodo e permette di concentrarsi esclusivamente sullo studio della lingua anziché preoccuparsi di come procedere. Inoltre, un insegnante potrebbe anche andare a colmare le eventuali lacune del libro di testo o adattare la spiegazione a ciascun alunno in modo tale che il concetto da apprendere risulti il più comprensibile possibile.
Il secondo metodo è quello da autodidatta, quindi quello di dedicarsi, in modo indipendente, allo studio della lingua. Ovviamente non è impossibile, anche se è normale dover affrontare qualche difficoltà in più rispetto a un percorso con un insegnante. Detto questo, ho qualche consiglio anche per te che hai deciso di affrontare questo viaggio da autodidatta. La prima cosa che mi sento di consigliarti, innanzitutto, è quella di dedicarti a un singolo libro di testo. Può sembrare un consiglio scontato, ma spesso potremmo essere attratti dall'acquisto di nuove risorse - come libri, app e iscrizioni a siti vari - perché magari le vediamo utilizzate e consigliate da qualcuno che è più avanti nel percorso di studi rispetto a noi. Tuttavia avere una moltitudine di risorse a mio avviso non fa altro che farci deviare dal percorso che già avevamo intrapreso, facendoci sentire sopraffatti dalla quantità di conoscenza che dobbiamo acquisire e dallo studio che ne consegue. In sintesi, quando ci si approccia per la prima volta alla lingua penso che sia ideale scegliere un singolo libro e concentrarsi a completarlo.
Rimane, dunque, un’ultima domanda a cui rispondere: che tipo di libro usare? I libri di testo principalmente utilizzati e consigliati per qualcuno che inizia da zero sono i seguenti:
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- Minna no Nihongo (a sx)
- Genki (in centro)
- Tobira Beginning (a dx)
Il Minna no Nihongo, essendo un libro completamente in giapponese, potrebbe essere un po’ difficile da approcciare da un principiante autodidatta, tuttavia dispone di un ulteriore volume (acquistabile a parte) con le spiegazioni grammaticali approfondite e le traduzioni. Alcuni punti a favore di questo libro sono che il volume con le spiegazioni è disponibile in diverse lingue tra cui anche l’italiano e che dispone di numerosi esercizi per far pratica di ciò che si è appreso.
Il Genki è considerato come un libro facilmente approcciabile dai principianti. La difficoltà delle lezioni aumenta progressivamente, nel libro principale sono contenute già le spiegazioni grammaticali, seppur concise e in inglese, e dispone di un workbook con esercizi basati su ciò che viene studiato nel libro. Quest’ultimo, come anche il precedente, seppur un po’ più completo è comunque stato pensato per essere utilizzato affiancato alle spiegazioni di un insegnante quindi spesso non è consigliato agli autodidatti. Su questo punto, tuttavia, mi sento di dissentire dal momento che online esistono moltissimi materiali gratuiti che possono andare a colmare questa lacuna.
L’ultimo libro, Tobira, a mio parere è quello più versato allo studio da autodidatta in quanto dispone di spiegazioni molto dettagliate sia per quanto riguarda il sistema di scrittura, sia per quanto riguarda la grammatica. Inoltre, include anche la presentazione e lo studio dei kanji alla fine di ogni capitolo. Il libro dispone anche di due workbook, uno dedicato alla grammatica e ai vocaboli e l’altro ai kanji e alla composizione scritta. L’unico punto negativo di questo libro, per uno studente autodidatta, è la difficoltà nel ricevere un feedback su esercizi come la stesura di un breve paragrafo di testo.
- Vocaboli & Kanji
Conoscere la grammatica senza conoscere un determinato numero di vocaboli è come avere una macchina, ma non la benzina per farla muovere! Perciò il prossimo step è proprio quello di iniziare a creare e ampliare il proprio vocabolario.
Per fare ciò, basta studiare i vocaboli che compaiono nelle conversazioni dei vari capitoli del libro di testo con i rispettivi kanji. Per quanto riguarda il metodo di studio, quello che consiglio di fare è di studiare attraverso l’uso di flashcards. Ma come utilizzarle?
Il primo step, se già non avete un mazzo pronto, è ovviamente quello di crearlo. Da un lato della carta andremo a scrivere la parola in italiano, mentre dall’altro la parola in giapponese in kanji, con la relativa lettura in hiragana. Una volta ultimata la creazione del mazzo di carte possiamo iniziare a studiare. Lasciando il lato con la traduzione in italiano girato verso di noi, cerchiamo di ricordare l’equivalente giapponese e lo scriviamo su un foglio (in hiragana o in kanji se stiamo studiando anche quelli). Infine girando la carta verifichiamo la correttezza della risposta che abbiamo scritto.
Prima di iniziare a studiare i kanji, consiglio di imparare a comprendere la loro origine, oltre a come funzionano e la ragione per cui hanno più di una lettura ciascuno. Questa fase preliminare sicuramente vi aiuterà a procedere più fluidamente nell’apprendimento di questi caratteri. Senza dubbio all’inizio risulterà impegnativo ricordarsi come si scrivono o come si leggono, ma più li si ripete più rimarranno impressi nella memoria.
- Fare tanti esercizi di output
Infine, per fare in modo che la conoscenza della lingua appresa attraverso le attività descritte nei punti precedenti non resti latente, è importantissimo fare tanti esercizi di output, ovvero esercizi che ci spingono a usare attivamente la lingua. Creare frasi con un determinato punto grammaticale, scrivere un paragrafo di testo riguardo a un particolare tema, cercare di utilizzare la lingua che si studia quando si parla da soli e tenere un diario, sono solo alcuni esempi di esercizi di output.
Ovviamente anche fare esercizi di input, ovvero esercizi in cui semplicemente dobbiamo coniugare il verbo o inserire una parola, è importante a suo modo, ma non aiuta effettivamente a essere in grado di produrre frasi da zero e quindi a utilizzare la lingua.
Bene, detto questo, spero che abbiate un’idea più chiara da dove iniziare ad apprendere questa magica e meravigliosa lingua!
Testo originale scritto da @redhead.sensei

Nuova apertura: Café Kitsuné, il popolare brand franco-giapponese apre a Milano
Nato 12 anni fa come naturale estensione dell’universo Maison Kitsuné - marchio di mods, etichetta discografica e galleria d'arte fondata a Parigi nel 2002 da Gildas Loaëc e Masaya Kuroki - Café Kitsuné è oggi una catena di caffetterie e ristoranti che opera in tutto il mondo. Il progetto unisce l’arte della torrefazione alla cultura dell’ospitalità, proponendo un’esperienza che fonde il minimalismo giapponese con l’energia dei caffè parigini. L’idea alla base è infatti creare un’esperienza che mescola lifestyle, design e gastronomia, che celebri il piacere di sorseggiare un caffè di qualità in ambienti che uniscono modernità e atmosfera cosmopolita.
Con una selezione di specialty coffee, dolci, torte e pasticcini ispirati alla tradizione francese e giapponese e un’estetica curata nei minimi dettagli, il brand ha rapidamente guadagnato popolarità e conquistato un ampio e fidelizzato pubblico. C’è da dire che Café Kitsuné non è solo un brand legato al caffè, ma anche una torrefazione. Nei suoi laboratori dedicati, che loro chiamano 'atelier di torrefazione', come quello di Vertbois a Parigi e di Okayama in Giappone, i chicchi vengono selezionati con cura e lavorati per esaltare ogni sfumatura aromatica, creando le miscele che poi vengono servite nelle caffetterie della maison. Oltre al caffè preparato al momento, il brand offre anche confezioni di chicchi tostati disponibili per l’acquisto.
Il celebre café si espande con il suo primo negozio in Italia, situato all'interno del Palazzo Cordusio. L'apertura è prevista per i primi giorni di Aprile.





