Le vacanze dei reali: ville imperiali nella natura giapponese

Lontano dal fragore delle capitali e dal caldo torrido dell’estate, esistono in Giappone luoghi dove il tempo sembra rallentare. Sono le residenze di villeggiatura della famiglia imperiale: ville eleganti, immerse nella natura, sorte tra l’Ottocento e il Novecento. Si tratta di un patrimonio spesso poco conosciuto, ma ancora oggi capace di raccontare una storia unica tra estetica e potere.

Queste residenze estive non nacquero, infatti, come semplici luoghi di svago, ma come spazi pensati anche per la rappresentanza diplomatica, la cura della salute e la contemplazione estetica.

Alcune di queste dimore, come la villa imperiale di Tamozawa a Nikkō, coniugano l’eleganza architettonica giapponese con influssi occidentali, a testimonianza di un periodo di modernizzazione culturale. Altre, come la villa di Hayama, si affacciano sul mare e offrono rifugi silenziosi per l’imperatore e la sua famiglia. Persino il paesaggio naturale – il bosco, il giardino, la risaia – diventa parte integrante dell’esperienza residenziale, secondo una concezione estetica radicata nel pensiero aristocratico giapponese.

Ancora oggi, alcune di queste ville continuano ad accogliere la famiglia imperiale, mentre altre sono diventate musei o parchi aperti al pubblico. Visitandole, si entra in contatto con un’idea dell’estate fatta di distacco simbolico dal mondo quotidiano, di equilibrio tra potere e contemplazione. Una forma di villeggiatura che, al di là del privilegio, racconta un modo profondamente giapponese di abitare la natura e il tempo.

Residenze immerse nella natura 

Tra i verdi monti di Nikkō, avvolta dal silenzio dei cedri e dalla fresca brezza delle alture, si cela una delle più affascinanti testimonianze della villeggiatura imperiale giapponese: la Villa Imperiale di Tamozawa. Costruita nel 1899 per offrire un rifugio estivo al Principe Ereditario Yoshihito, futuro imperatore Taishō (1912 - 1926), questa residenza rappresentò anche una delle prime espressioni materiali del nuovo stile di vita imperiale, capace di coniugare rappresentanza, benessere e contemplazione.

La villa sorse su fondamenta storiche: alcune sue sezioni risalivano al periodo Edo e furono trasferite da precedenti palazzi imperiali, creando così un complesso che univa armoniosamente stili architettonici di epoche diverse. Il risultato fu una dimora in legno di oltre cento stanze, tra le più grandi dell’intero Giappone, in cui si alternavano lunghi corridoi, fusuma (pareti scorrevoli tradizionali giapponesi) decorate con motivi naturalistici e sale da ricevimento dedicate ad accogliere anche funzionari occidentali, arricchite da elementi moderni come tavoli da biliardo e impianti di illuminazione elettrica.

Ma la funzione di Tamozawa non fu solo stagionale. L’imperatore Hirohito (Shōwa, 1926 - 1989) vi si rifugiò durante i bombardamenti della Seconda guerra mondiale: ancora oggi, è possibile individuare nel giardino i rifugi antiaerei scavati nel terreno. Dopo un periodo di abbandono, la villa è stata restaurata e riaperta nel 2000 come museo, permettendo a chi la visita di immergersi nei ritmi e nei rituali dell’aristocrazia imperiale.

Altra località prediletta fu Hakone, celebre per i suoi panorami montani e le sue sorgenti termali. Qui, sulle sponde del Lago Ashinoko, fu costruita nel 1886 la Villa Imperiale di Hakone (Hakone Rikyū), destinata a ospitare l’imperatore Meiji e la sua corte durante i mesi più caldi. A differenza di Tamozawa, Hakone aveva una funzione ancora più sanitaria: l’altitudine, l’aria fresca e le celebri acque termali della zona offrivano condizioni ideali per una villeggiatura salubre e rigenerante. 

Ancor più di altre residenze, inoltre, Hakone fu un importante teatro della diplomazia imperiale: il promontorio naturale su cui si ergeva offriva una vista spettacolare sul lago e, nelle giornate più terse, sull’inconfondibile profilo del Monte Fuji, cornice ideale per ricevere ospiti stranieri. Tra le sue sale vennero accolti regnanti europei e ministri provenienti da tutto il mondo, dall’Austria al Siam. L’edificio originale fondeva sapientemente architettura giapponese e suggestioni occidentali, offrendo agli ospiti un ambiente che fosse al contempo tradizionale e aperto al moderno.

Purtroppo, il complesso fu quasi completamente distrutto dal Grande Terremoto del Kantō del 1923 e successivamente danneggiato dal sisma del Kita-Izu nel 1930. Tuttavia, lo spirito del luogo non andò perduto: nel 1946 l’area fu donata alla prefettura di Kanagawa, che trasformò il sito in uno spazio pubblico. Così nacque il Parco Onshi-Hakone, un giardino paesaggistico che oggi conserva l’essenza della residenza originaria: tra i vialetti curati e le terrazze panoramiche, il visitatore può ancora intuire il gusto estetico dell’aristocrazia Meiji.

Geografia politica

Nel Giappone moderno, la villeggiatura imperiale non fu mai un atto neutro o semplicemente privato. La scelta di ritirarsi stagionalmente in luoghi come Nikkō, Hakone o Nasu rispondeva a una precisa logica politica, simbolica e territoriale per cui il sovrano, incarnazione vivente dello Stato secondo la Costituzione Meiji, non si limitava a “fuggire” dall’afa estiva della capitale, ma tracciava con i suoi spostamenti una vera e propria geografia del potere. Ogni residenza stagionale diveniva un polo di influenza, un’estensione del centro imperiale verso le periferie, spesso scelte per la loro bellezza naturale, la salubrità dell’aria e il legame col pensiero shintō.

Allontanarsi da Tōkyō per stabilirsi temporaneamente in aree più remote significava, da un lato, riaffermare la continuità tra corte imperiale e territorio nazionale, in una visione capillare del potere; dall’altro, offriva occasioni strategiche per esercitare soft power attraverso l’ospitalità internazionale, il sostegno alla scienza e la promozione turistica. Molte delle ville estive, infatti, erano progettate per accogliere dignitari stranieri, artisti e scienziati, come nel caso della Hakone Rikyū, dove lo stile giapponese si incrociava con elementi occidentali, o della villa di Nikkō, visitata da membri della nobiltà europea. Questi spazi ibridi non solo esprimevano il dialogo tra tradizione e modernizzazione, ma si facevano palcoscenico del prestigio imperiale.

Nel contempo, la presenza della famiglia imperiale in queste località comportava benefici tangibili per le comunità circostanti: le infrastrutture e i servizi venivano migliorati, seppur nel rispetto della conservazione del paesaggio naturale. 

La villeggiatura imperiale, quindi, non era solo un momento di riposo, ma anche un gesto di legittimazione territoriale, un atto di rappresentanza internazionale, uno strumento di influenza culturale e un veicolo della visione ecologica del potere. Persino in vacanza, l’imperatore non smetteva mai di esercitare il proprio potere e, soprattutto, di adempiere ai propri doveri.

Continuità e uso nel tempo

La tradizione della villeggiatura imperiale giapponese ha saputo attraversare le epoche adattandosi al mutare della società e della sensibilità dei sovrani. La Villa Imperiale di Nasu, edificata nel 1926 su un terreno appartenente alla famiglia imperiale fin dal 1890, incarna perfettamente questa continuità. Fu l’allora principe ereditario Hirohito (futuro imperatore Shōwa) a scegliere personalmente il luogo, colpito dalla vista sui monti durante una visita nel 1923. Qui, pochi anni dopo, iniziò la sua consuetudine estiva, culminata simbolicamente nella sua prima ascesa al monte Chausu, vetta più alta della prefettura.

Fino ai giorni nostri, Nasu è rimasta una residenza estiva privata per gli imperatori, ma il suo ruolo non è stato solo simbolico o ricreativo. La villa ha contribuito infatti a plasmare l’identità del luogo, trasformandolo in una delle mete estive più apprezzate del paese, con milioni di visitatori ogni anno. Nel 2008, grazie a una decisione dell’imperatore Akihito, circa metà della vasta tenuta fu aperta al pubblico e integrata nel Parco Nazionale di Nikkō, con un gesto che ha unito il rispetto della tradizione alla valorizzazione del bene collettivo.

Particolarmente interessante è la vocazione scientifica e naturalistica che ha accompagnato la frequentazione della villa: lo stesso Hirohito si dedicò per decenni allo studio dei protisti e delle piante locali, pubblicando quattro volumi sulla flora di Nasu e lasciando in eredità una collezione di oltre 60.000 esemplari ora conservata presso il Museo Nazionale di Scienze Naturali di Tōkyō. Suo figlio Akihito ha proseguito questa linea di ricerca con studi sulla classificazione dei pesci della famiglia dei gobidi, mentre l’attuale imperatore Naruhito, appassionato di escursionismo, è oggi impegnato attivamente nelle politiche di conservazione delle acque.

Così, quella che era nata come una fuga estiva dal caldo cittadino si è trasformata nel tempo in un crocevia di cultura, scienza e paesaggio, testimoniando il profondo legame tra la famiglia imperiale e la natura giapponese.

Sofia Dagradi, studentessa


Il Giappone che non ti aspetti: alla scoperta delle sue spiagge 

Se si chiedesse a un campione eterogeneo di persone cosa venga loro istintivamente in mente pensando al Giappone, le risposte più comuni sarebbero probabilmente “i ciliegi in fiore”, “i giardini zen”, “il Monte Fuji” o “i grattacieli e le luci al neon di Tōkyō”.

Eppure, il Giappone è un arcipelago bagnato dall'Oceano Pacifico, e le isole della prefettura di Okinawa offrono spiagge di sabbia bianca che possono tranquillamente competere con quelle di Honolulu. 

Scopriamo dunque insieme uno degli aspetti meno conosciuti - ma non per questo meno affascinanti - di questo Paese: il suo meraviglioso mare.

Umi biraki

Pur trattandosi di un paese dalle dimensioni relativamente contenute, il Giappone sorprende per un’incredibile varietà regionale. Esteso in lunghezza per circa 3000 chilometri e composto da ben 430 isole abitate, offre paesaggi naturali estremamente diversi. 

La stagione balneare riflette questa varietà: l’apertura ufficiale delle spiagge, chiamata Umi biraki (letteralmente “apertura del mare”), varia radicalmente a seconda delle località. A inaugurare la stagione sono le isole dell’arcipelago di Ogasawara, nel mezzo del Pacifico: qui, sulle isole Chichijima e Hahajima, è possibile fare il primo tuffo dell’anno già dal 1° gennaio, grazie al clima tropicale e a temperature che si aggirano intorno ai 20° anche in pieno inverno. All'estremo opposto troviamo lo Hokkaidō, prefettura settentrionale poco distante dalla Russia, dal clima rigido, dove le spiagge aprono solo verso la fine di luglio.

Molto più accessibile dall'isola principale dello Honshū - dove si trovano i grandi centri urbani come Tōkyō, Ōsaka e Kyōto - è la prefettura di Okinawa: una vera e propria perla tropicale amata dai turisti locali e internazionali, dove è possibile nuotare in acque cristalline da marzo a novembre.

La giornata dell’Umi biraki non rappresenta però soltanto l’apertura ufficiale degli stabilimenti: soprattutto nel sud del Giappone, infatti, viene celebrata con cerimonie shintō in cui si pregano gli spiriti del mare affinché garantiscano la sicurezza dei bagnanti. In alcune spiagge, in particolare quelle frequentate da famiglie, è ancora oggi possibile assistere alla tradizionale benedizione delle acque: sacerdoti shintō, vestiti di bianco, lanciano ramoscelli di sakaki (albero considerato sacro) tra le onde, accompagnati da canti rituali.

Il mare occupa da sempre un posto centrale nell'immaginario giapponese e le divinità marittime sono numerose nel pantheon shintō. Secondo i miti della creazione, la prima isola del Giappone, Onogoroshima, nacque quando le divinità Izanami e Izanagi – rispettive incarnazioni dell’energia femminile e maschile – agitarono una lancia ornata di gemme nel mare. Le gocce d’acqua salata che ne caddero si solidificarono, dando origine alla terra.

Questa centralità del mare si riflette anche nella storia del Paese: già le antiche popolazioni Jōmon (10.000 – 300 a.C.) costruivano imbarcazioni in legno per la pesca, facendo del mare una fondamentale risorsa alimentare. Nei secoli successivi, le vie marittime furono cruciali per lo scambio culturale, come testimonia l’arrivo in età antica – attraverso la penisola coreana – delle tecniche di risicoltura e delle nozioni sul sofisticato sistema burocratico cinese.

Ma il mare, nel pensiero giapponese, è anche spazio spirituale e simbolico, legato al viaggio e alla purificazione. Non a caso, il kanji 海 (umi, “mare”) compare in moltissimi toponimi, proverbi e componimenti poetici. Persino uno dei più celebri monaci buddhisti, calligrafi e letterati giapponesi, Kūkai, scelse questo carattere come parte del proprio nome: 空海 unisce i kanji di “vuoto/cielo” e “mare”, a simboleggiare l’immensità del mondo naturale e l’ideale di liberazione della mente tipico del buddhismo tantrico. Kūkai è ricordato per aver fondato la scuola Shingon e per aver visitato gli ottantotto templi che oggi costituiscono il celebre pellegrinaggio dello Shikoku.

Spuntini e giochi sulla spiaggia 

Nonostante il mare sia una meta molto amata dai giapponesi, prendere il sole sul bagnasciuga non rientra tra le attività più apprezzate. Contrariamente a quanto accade in Italia, dove l’abbronzatura è spesso ricercata, è molto comune per le donne giapponesi portare un ombrello parasole, e la protezione solare viene applicata anche d’inverno. Proprio per questo motivo, lungo le coste giapponesi sorgono le umi no ie (“case marittime”), strutture temporanee in legno allestite durante l’estate presso gli stabilimenti balneari.

Queste casupole offrono punti di ristoro e terrazze coperte dove rifugiarsi dai raggi ultravioletti, gustare una fetta di anguria fresca, acquistare bevande rinfrescanti o dolci tipici estivi come il kakigōri, dessert simile alla granita a base di scaglie di ghiaccio, sciroppo e latte condensato o evaporato. 

Questo dolce, all'apparenza semplice, affonda le sue radici nella raffinata tradizione culinaria del periodo Heian (794–1185), quando veniva preparato per i membri della corte imperiale, utilizzando blocchi di ghiaccio conservati con cura nelle zone montuose appena fuori Kyōto. Un’elegante testimonianza di questa usanza si trova nel celebre Makura no Sōshi (Note del Guanciale, inizio XI sec.), scritto dalla cortigiana e dama di compagnia Sei Shōnagon. Nella sezione dedicata alle “cose eleganti”, l’autrice menziona precisamente “ghiaccio tritato mescolato con sciroppo di liana, servito in una nuova ciotola d’argento”.

Durante l’epoca Meiji (1868 - 1912), il kakigōri iniziò a diventare più accessibile, seppur riservato inizialmente ai ceti benestanti. Ciò fu reso possibile soprattutto grazie a un intraprendente mercante, Kahei Nakagawa, che ebbe l’idea di produrlo usando ghiaccio proveniente direttamente dallo Hokkaidō.  La diffusione del dolce in questo periodo è testimoniata anche all'interno dell’immaginario artistico. Nel film Sayuri (Memorie di una Geisha, 2005), una celebre scena mostra la protagonista bambina mentre assaggia un kakigōri offertole da un elegante direttore generale. Dopo essersi tinta le labbra con lo sciroppo rosso, incrocia lo sguardo di una geisha adulta che indossa un rossetto del medesimo colore e, in una sorta di epifania, prende la decisione di diventarne una. 

Oggi, il kakigōri è uno degli spuntini prediletti dalla maggior parte dei giapponesi durante il periodo estivo, immancabile nei pressi di qualsiasi spiaggia; talvolta, viene consumato a fine pasto per rinfrescare il palato dopo una corroborante grigliata estiva. 

Nelle umi no ie, infatti, non è raro trovare anche spazi attrezzati per organizzare un barbecue in compagnia, ideale per recuperare le energie dopo una partita di badminton o pallavolo sulla spiaggia, gli sport di squadra più popolari in questa stagione.

Il gioco estivo giapponese per eccellenza è però senza dubbio il suika wari, (“spaccatura dell’anguria”). Si tratta di una sorta di pignatta in cui i partecipanti, bendati e armati di bastone, devono cercare di colpire e spaccare a metà un’anguria sistemata davanti a loro, dopo aver girato su sé stessi per tre volte. Gli amici si sfidano tentando a turno l’impresa, finché il vincitore non riesce ad aprire il frutto così da poterlo finalmente gustare in compagnia.

Il successo di questo passatempo è stato tale che, nel 1991, fu fondata la JSWA (Japan Suika-Wari Association), un’associazione che si occupava di regolamentare ufficialmente il gioco. Istituita dalla Cooperativa Agricola del Giappone (JA) con l’obiettivo di incentivare il consumo di angurie, la JSWA ora non esiste più, ma aveva raggiunto un livello di serietà sorprendente: tra le regole imposte, vi era ad esempio una distanza regolamentare tra i 5 e i 7 metri tra il giocatore e il frutto, l’uso di bastoni di legno specifici, e persino la presenza di giudici ufficiali incaricati di valutare la precisione del colpo e l’equità della divisione dell’anguria.

Le spiagge giapponesi 

Abbiamo dunque compreso che le spiagge giapponesi sono ben diverse da quelle italiane, dove spesso si trovano persone intente a prendere il sole, bambini urlanti che schizzano i passanti e - ahimè - una considerevole quantità di mozziconi di sigaretta gettati nella sabbia.

Ma a cosa assomigliano, allora, le spiagge del Giappone?

In generale, si tratta di ambienti ordinati, puliti e ben organizzati, in linea con l’attenzione al decoro e alla collettività tipica della cultura nipponica. La maggior parte delle spiagge, anche quelle non attrezzate, dispone di servizi come bagni, spogliatoi e docce. In molti casi è possibile noleggiare asciugamani, ciabatte, e altri accessori utili. In presenza di docce chiuse, vengono spesso forniti shampoo, balsamo e bagnoschiuma e vi è persino la possibilità di utilizzare piastre e asciugacapelli

Di garantire la sicurezza dei bagnanti si occupano i bagnini, presenti anche nelle spiagge meno affollate o non attrezzate. Non mancano poi vari stand di street food, souvenir e articoli per la spiaggia come palloni, cappelli (alcuni addirittura dotati di visiere anti-UV), infradito, costumi da bagno e soprattutto protezione solare rigorosamente SPF 50+. 

Una delle particolarità più curiose è la presenza di aree fumatori delimitate, persino sulla sabbia. Spazi recintati in legno o corda - sobri e ben integrati nell'ambiente - segnalano i pochi luoghi in cui è consentito fumare, a dimostrazione dell’attenzione giapponese per il rispetto degli spazi comuni.

Ma le spiagge giapponesi non sono visitate solo dai bagnanti. Anche durante le stagioni più fresche, diventano luoghi di ritrovo per studenti e gruppi di amici, che vi si recano per fare picnic, scattare fotografie o semplicemente rilassarsi. In estate, al calar del sole, è facile imbattersi in piccoli gruppi che si raccolgono per accendere un senkō hanabi, un fuoco d’artificio portatile che, bruciando lentamente come uno stick d’incenso, accompagna i desideri e i sogni di migliaia di ragazzi pieni di speranze. 

Basti pensare al celebre tropo della “giornata al mare”, immancabile nei manga o anime per ragazzi: un episodio nel quale i protagonisti, tra una battaglia e l’altra o dopo una tediosa sessione di esami, si concedono una pausa rigenerante sulla spiaggia.

In queste scene - diventate ormai un classico narrativo - il Mar del Giappone fa da sfondo a giochi acquatici, gare di suika wari, falò serali e fuochi d’artificio. Un rituale di spensieratezza e amicizia che restituisce tutta la dolcezza e l’intimità dell’estate giapponese, facendo leva su ricordi condivisi da lettori e spettatori di ogni età.

Sofia Dagradi, studentessa


Hyakumonogatari Kaidankai: estate giapponese da brividi!

Hyakumonogatari Kaidankai: estate giapponese da brividi!

L’estate in Giappone ha qualcosa di magico. Il dolce canto delle cicale fa da sottofondo alle serene passeggiate notturne, i fuochi d’artificio - chiamati “fiori di fuoco”, hanabi - colorano il cielo e i numerosissimi festival (matsuri) portano allegria e vivacità in tutto l’arcipelago. Eppure, dietro questo incanto, si cela un nemico temuto da tutti: il caldo umido, il famigerato mushi atsui, che stringe il Paese in una morsa soffocante.

Oggi è sufficiente gettare qualche yen in uno dei tantissimi distributori automatici disseminati in tutte le città per trovare un po’ di sollievo in una bibita ghiacciata.

Ma come si affrontava nel periodo Edo (1603 - 1868), quando non c’erano climatizzatori né bottigliette d’acqua fresca a portata di mano, questa calura opprimente? Ebbene, esiste un metodo tanto semplice quanto efficace per far venire i brividi, senza bisogno di alcuna attrezzatura: raccontare storie dell’orrore. 

Lo Hyakumonogatari Kaidankai (letteralmente “Ritrovo dei cento racconti di fantasmi”), infatti, era uno dei passatempi estivi più popolari durante l’epoca Tokugawa. L’attinenza stagionale - tradizionalmente al centro della sensibilità giapponese, come testimoniano le grandi antologie poetiche, suddivise in capitoli dedicati alle quattro stagioni, o l’arte gastronomica kaiseki, che esalta i sapori e l’estetica degli ingredienti stagionali - andava in realtà ben oltre il semplice desiderio di un brivido rinfrescante. In agosto, infatti, si celebra l'Obon, ricorrenza in cui le anime dei defunti fanno ritorno tra i vivi: quale momento migliore, dunque, per evocare storie di fantasmi e spiriti?

L’origine di questa affascinante tradizione rimangono avvolte nel mistero, ma si ritiene che abbia preso forma nel contesto dell’aristocrazia guerriera, come prova di sangue freddo. Una delle prime testimonianze scritte compare infatti nella raccolta di racconti per l’infanzia Otogi Monogatari, curata da Ogita Ansei e pubblicata nel 1660. Tra le sue pagine si narra di un gruppo di giovani samurai raccoltisi per raccontare a turno cento storie dell’orrore.

Lo Hyakumonogatari Kaidankai non tardò però a conquistare anche i contadini e gli abitanti dei villaggi, diventando un vero e proprio fenomeno popolare e mescolandosi con temi di vendetta ultraterrena e concetti buddhisti come la nozione di karma. La fama di queste storie fu ulteriormente alimentata dall'arrivo della stampa, che permise la pubblicazione di antologie quali lo Shokoku Hyakumonogatari (“Cento racconti da vari paesi”, 1677). All'interno di queste raccolte, i racconti venivano presentati come resoconti reali, riportati da testimoni provenienti da ogni angolo del Giappone e persino dalla Cina, accrescendo così la loro carica suggestiva e inquietante. 

Modalità di gioco 

Il gioco prende vita dopo il calar del sole, e può essere svolto secondo due modalità principali: la variante più semplice prevede che i partecipanti siedano in cerchio in una stanza illuminata da cento lanterne andon o candele tremolanti. A turno, uno dopo l’altro, ciascuno narra una storia di fantasmi o eventi soprannaturali, e al termine di ogni racconto si spegne una luce, lasciando il buio invadere lentamente lo spazio intorno ai prodi giocatori, alimentando l’inquietudine e la tensione. 

Per i più coraggiosi, invece, esiste una modalità che intreccia la narrazione con il rituale del kimodameshi, la tradizionale “prova di coraggio” giapponese. In questo caso, si utilizzano tre stanze comunicanti: in una delle stanze laterali, novantanove lanterne si consumano silenziose accanto a uno specchio posato su un tavolo; nella stanza opposta, il gruppo si dispone attorno alla centesima lanterna accesa, mentre la stanza centrale resta avvolta nell'ombra. Idealmente, le stanze sono disposte a forma di L, così che i giocatori riescano a intravedere la luce proveniente dalla stanza delle lanterne ma non la stanza stessa, aumentando così il senso di mistero.

Dopo ogni racconto, chi lo ha narrato prende la lanterna, attraversa da solo la stanza buia e, raggiunta quella più lontana, spegne una delle lanterne, incrocia il proprio riflesso nello specchio per poi ricongiungersi col resto del gruppo nella stanza iniziale. Terminato il turno dell’ultimo giocatore, il gruppo intero si reca nella stanza finale per spegnere insieme l’ultima lanterna davanti allo specchio.

Si dice che, con lo spegnimento dell’ultima luce, le porte tra questo mondo e l’aldilà si aprano, e gli spiriti si manifestino nell'oscurità in cui la stanza è piombata: per questa ragione, i più timorosi scelgono di interrompere il gioco prima del termine, lasciando intatta la centesima lanterna. 

Il gioco, lungo e impegnativo, ha dato vita anche a versioni più brevi, ma soprattutto ha alimentato la raccolta e la diffusione di racconti popolari, storie di fantasmi e incontri con il soprannaturale, tramandati di villaggio in villaggio, noti come kaidan.

Lo Hyakumonogatari Kaidankai nell’arte 

Il maestro ukiyoe Katsushika Hokusai dedica a questa pratica un’intera serie di stampe, intitolata proprio Hyaku monogatari (“Cento racconti”, 1830 ca.). 

Queste xilografie riscuotono all'epoca una grande popolarità e si inseriscono nel genere artistico denominato yūrei-zu (“immagini di fantasmi”), a sua volta un sottogenere del fūzokuga (“dipinti di costumi e usanze”).

Nonostante l’iniziale intenzione di realizzare una serie di cento stampe, rifacendosi all'usanza di raccontare cento racconti soprannaturali, la serie si compone in realtà di sole cinque opere, ognuna legata a un kaidan della tradizione: scopriamo assieme le storie all'origine di queste inquietanti stampe.

Sara yashiki (“il palazzo dei piatti”) 

In questa stampa, Hokusai racconta una leggenda nata nel secolo XVII. Protagonista è la serva Okiku, la quale - accusata di aver rotto un set di piatti preziosi - si suicidò gettandosi in un pozzo. Dopo la morte, ritornò come fantasma (yūrei), contando ossessivamente i piatti mancanti. 

Katsushika Hokusai, Sara yashiki, 1831

Warai Hannya (“Hannya che ride”)

Hokusai unì in quest’opera due figure del folklore: la hannya, una donna trasformata in demone per gelosia, e la yamanba, strega che si nutriva di bambini. La composizione ricorda i tipici paesaggi raffigurati dal maestro, dove l’elemento circolare funge da finestra sull'incubo; basti pensare a La grande onda di Kanagawa, stampa nella quale è possibile intravedere una barca affondare oltre l’increspatura. 

Katsushika Hokusai, Warai Hannya, 1830

Oiwa san (“Oiwa”) 

Questa xilografia racconta la storia del dramma kabuki (forma teatrale giapponese premoderna) Yotsuya Kaidan, scritto nel 1825 da Tsuruya Nanboku IV. Protagonista è Oiwa, sfigurata con l’uso di una crema velenosa dagli amici di una giovane innamorata del marito, il samurai Tamiya Iemon, il quale la abbandonò dopo aver visto lo stato in cui era stata ridotta. Dopo la morte, lo spirito di Oiwa perseguitò Iemon assumendo varie forme, tra cui una lanterna di carta che richiama l’uso rituale delle luci durante l'Obon per accogliere gli spiriti degli antenati.

Katsushika Hokusai, Oiwa san, 1837

Kohada Koheiji

Hokusai raffigurò anche lo spirito vendicativo di Kohada Koheiji, attore kabuki ridotto a interpretare solo ruoli da yūrei. Umiliata, sua moglie Otsuka lo uccise, con l’aiuto dell’amante Sakuro. Koheiji fece ritorno dall'oltretomba sotto forma di scheletro, avvolto dalle fiamme, e si manifestò mentre i due amanti giacevano sotto una zanzariera. La storia, basata su eventi reali, fu narrata nel 1803 da Santō Kyōden nel romanzo Asaka-numa e portata in scena nel 1808. Il fantasma indossa qui grani di juzu, simbolo della pietà buddhista trascurata dai suoi assassini.

Katsushika Hokusai, Kohada Koheji, 1831-32

Shiunen (titolo italiano “La morte implacabile”)

Questa stampa mostra un serpente avvolto attorno a una tavoletta funeraria buddhista (ihai), simbolo dell’ossessione che persiste dopo la morte. Nell'epoca Edo, i serpenti nelle storie kaidan incarnavano spesso donne morte in preda a gelosia o rancore: in questo caso, però, rappresentavano probabilmente lo stesso Hokusai, ossessionato dalla sua arte anche dopo la morte. 

Katsushika Hokusai, Shiunen, 1830

La tematica dello Hyakumonogatari Kaidankai sembrava essere particolarmente cara a Hokusai, artista fortemente spirituale, come era consuetudine nell'epoca Edo. Affiliato alla setta buddhista Nichiren, Hokusai testimoniò la sua fede nel soprannaturale persino in punto di morte, componendo un haiku in cui affermava:
“Anche come fantasma, camminerò leggero tra i campi estivi.”

Alcuni studiosi ipotizzano che il maestro dell'ukiyo-e fosse realmente in grado di vedere i fantasmi, considerata l’accuratezza e la ricchezza di dettagli con cui li raffigurava. Infatti, essi non compaiono solo nella celebre serie delle Cento storie di fantasmi, ma anche in opere che rappresentano direttamente il gioco dello Hyakumonogatari, come la stampa Shinpan uki-e bakemono yashiki hyaku monogatari no zu (“Cento storie di fantasmi in una casa infestata”). In quest’ultima composizione, Hokusai mise in scena la manifestazione di spiriti e apparizioni proprio durante il racconto dei kaidan.

Katsushika Hokusai, Shinpan uki-e bakemono yashiki hyaku monogatari no zu, 1780 ca.

La popolarità del genere yūrei-zu e dei racconti kaidan durante il periodo Edo si deve forse, o almeno in parte, al malcontento diffuso nei confronti del governo Tokugawa. In un’epoca in cui le classi popolari erano private dei diritti e delle tutele, le storie di fantasmi diventavano potenti metafore delle disuguaglianze, repressioni e vendette

Ma i kaidan non sono rimasti confinati al passato. Ancora oggi, le storie di fantasmi nate in quell'epoca continuano ad affascinare sia il Giappone sia l’Occidente, anche grazie al lavoro dello scrittore irlandese Lafcadio Hearn, tra i primi stranieri a ottenere la cittadinanza giapponese. Hearn intraprese un viaggio tra le prefetture nipponiche con l’obiettivo di raccogliere e trascrivere le leggende orali tramandate di generazione in generazione, rendendole accessibili anche a un pubblico internazionale.

Il fascino dei kaidan, infatti, va oltre il semplice racconto di fantasmi: è un ponte tra il mondo terreno e quello invisibile, un invito a confrontarsi con paure profonde e a riflettere sulle tensioni sociali di un’epoca. Queste storie, narrate al calar della notte tra ombre tremolanti e candele spente una dopo l’altra, sono diventate una tradizione che ancora oggi cattura l’immaginazione di chi osa avvicinarsi al confine tra realtà e soprannaturale.

E tu, riusciresti a spegnere l’ultima candela e sfidare l’oscurità, rimanendo in compagnia degli spiriti?

Sofia Dagradi, studentessa


Obon: la commemorazione degli antenati attraverso il Giappone

Differenze regionali nella celebrazione dell’Obon

In Giappone, l’estate è animata da una fitta serie di matsuri, festival tradizionali dalle origini religiose che, pur conservando un significato spirituale, coinvolgono l’intera comunità con un entusiasmo contagioso. Si tratta di momenti di festa e condivisione che riuniscono persone di tutte le età, spesso offrendo l’occasione per trascorrere del tempo assieme alla propria famiglia, tra bancarelle, yukata colorati e fuochi d’artificio.

Tra le celebrazioni estive più sentite spicca l’Obon (お盆), una festività profondamente radicata nella cultura giapponese, che affonda le sue origini nel buddismo e viene celebrata da oltre cinquecento anni. L’Obon è dedicato alla commemorazione degli antenati: si crede infatti che, durante questo periodo, gli spiriti dei defunti si rechino nel mondo dei vivi per far visita ai propri cari. È un momento di raccoglimento e di consolidamento del legame con le proprie radici, caratterizzato da pratiche rituali e danze tradizionali che variano da regione a regione, pur conservando tutti un’intensa carica simbolica.

Date diverse

Nelle regioni del Kantō meridionale (inclusa Tōkyō) e del Tōhoku, l’Obon si celebra dal 13 al 15 luglio (Shichigatsu Bon 七月盆, “Bon di luglio”).
Nella maggior parte del Giappone, comprese le regioni centrali e occidentali (ad esempio nel Kansai), l’Obon viene festeggiato dal 13 al 15 agosto (Hachigatsu Bon 八月盆, "Bon di agosto").
La parte settentrionale del Kantō, il Chūgoku, lo Shikoku e le isole sud-occidentali seguono ancora il calendario lunare tradizionale, celebrando l’Obon il 15 settembre (Kyureki Bon 旧暦盆, “Bon antico/storico”).

Kyōto: Gozan no Okuribi

La manifestazione più iconica e suggestiva del festival dell’Obon è unanimemente ritenuta essere quella di Kyōto, dove il culmine delle celebrazioni è segnato dal maestoso rito del Gozan no Okuribi (五山の送り火), letteralmente “i fuochi di commiato delle cinque montagne”.

Secondo la tradizione, nella notte del 16 agosto, gli spiriti dei defunti, che hanno fatto ritorno al mondo dei vivi per l’Obon, si preparano a ripartire verso l’aldilà. Per salutarli e accompagnarli simbolicamente nel loro viaggio, vengono accesi enormi falò sui fianchi di cinque montagne che circondano la città.

Questi okuribi, o “fuochi di commiato”, assumono forme ben precise: sulla prima montagna compare il kanji 大 (“grande”), sulle seguenti due vette appare la scritta 妙法 (“meraviglioso dharma”), mentre gli ultimi due fuochi disegnano rispettivamente un torii (portale sacro tipico dei santuari shintō) e una barca, destinata a scortare le anime fino all’aldilà.

Affinché siano visibili da tutta la città, le dimensioni di questi fuochi sono impressionanti: il kanji 大, sul monte Daimonji (letteralmente “grande carattere”), è composto da tre tratti di fuoco lunghi 160, 120 e 80 metri. I falò vengono accesi uno dopo l’altro fino a quando, alle 20:30, tutte le montagne sono illuminate:  le persone si radunano lungo il fiume Kamogawa, nelle strade o sui tetti degli edifici più alti per ammirare lo spettacolo.

Non mancano le superstizioni popolari legate all’evento: si racconta, ad esempio, che consumare bevande trasparenti come acqua o sake, facendovi riflettere la luce dei falò, possa proteggere da malattie come la paralisi. Molti fedeli, inoltre, visitano i templi legati alle cinque montagne per scrivere i propri desideri e preghiere (gomagi) su sottili tavolette (ema) di legno di cedro, le quali verranno poi bruciate con i fuochi affinché, salendo con il fumo, possano raggiungere il cielo.

Bon Odori: danze diverse secondo la tradizione locale

Bon Odori (盆踊り, “danza dell’Obon”) è il termine che designa le tipologie di danza rituale eseguite durante l’Obon per accogliere e congedare gli spiriti degli antenati. Ogni regione ne ha sviluppato una propria versione, caratterizzata da passi, musiche e costumi distintivi: scopriamo le principali!

Tōkyō - Tōkyō Ondo 

A Tōkyō, la danza più famosa eseguita in occasione dell’Obon è la Tōkyō Ondo.

Il termine ondo (音頭) si può tradurre letteralmente come “testa del suono”: in questo contesto, il termine “testa” assume un significato più simbolico di “battito” o “schema ritmico di base”: si tratta quindi di una forma musicale, caratterizzata da un ritmo di base riconoscibile, spesso connotata da una struttura ripetitiva e cadenzata.

Tokushima - Awa Odori 

Lo Awa Odori di Tokushima, nello Shikoku, è una tra le danze più celebri e coinvolgenti associate ai festeggiamenti dell’Obon. La sua origine è legata a due storie in particolare, tra leggenda e realtà: alcuni sostengono che la danza Awa sia nata per festeggiare il completamento del Castello di Tokushima, costruito da Hachisuka Iemasa nel 1587. Per celebrare l'evento, Hachisuka avrebbe organizzato una grande festa e offerto sake a tutti gli abitanti della città. Gli invitati avrebbero dunque iniziato a danzare in modo sfrenato, indipendentemente dal rango o dall'età. Secondo un’altra teoria, invece, i balli di gruppo (ren) che contraddistinguono lo Awa Odori trarrebbero origine dalla danza furyu, arte dalla quale si sarebbe a sua volta sviluppato il teatro Nō. 

I movimenti ampi e festosi dello Awa Odori vengono ripetuti da migliaia di ballerini che sfilano ogni anno per le strade di Tokushima in lunghe processioni. 

Gujō Hachiman (prefettura di Gifu) - Gujō Odori

Il Gujō Odori, celebrato nella cittadina di Gujō Hachiman (prefettura di Gifu), è ufficialmente riconosciuto come uno dei tre festival dell’Obon più importanti del Giappone: nel 2022 ha addirittura fatto il suo ingresso nella Lista del Patrimonio Culturale Immateriale dell’UNESCO. Questa tradizione secolare, avviata durante il periodo Edo da Endō Yoshitaka, nacque con l’intento di unire la comunità locale al di là delle classi sociali, secondo lo spirito di inclusione che ancora oggi anima l’evento: infatti, anche nei giorni nostri il Festival di Gujō è noto per essere particolarmente accogliente nei confronti dei visitatori e molto tollerante con i ballerini inesperti. 

Il festival comprende dieci danze, ciascuna accompagnata da una canzone tradizionale. Tra le più celebri vi sono Kawasaki, conosciuta in tutto l’arcipelago, e Haru Koma (Cavallo di Primavera), caratterizzata da movimenti energici che ricordano un cavallo al galoppo.

Palcoscenico di tutte le danze è un carro mobile, sul quale si esibisce anche un piccolo ensemble di cantanti e musicisti. Il nome della canzone in corso di esecuzione è sempre visibile grazie a lanterne illuminate poste sugli angoli del carro, creando un’atmosfera suggestiva. Gli strumenti utilizzati variano a seconda della canzone: tra i più ricorrenti si trovano lo shamisen (strumento musicale a tre corde, appartenente alla famiglia dei liuti), il flauto di bambù e il taiko, il tamburo tradizionale giapponese.

Kyūshū - Tankō Bushi 

Il Tankō Bushi, traducibile come “la canzone della miniera di carbone”, è una canzone popolare che affonda le sue radici nella cultura mineraria della città di Miike, situata nella regione del Kyūshū. Originariamente legato alle fatiche quotidiane dei minatori della zona, il Tankō Bushi si è trasformato nel tempo in uno dei brani più amati e ballati durante le celebrazioni dell’Obon in tutto il Giappone.

La melodia, eseguita con strumenti tradizionali giapponesi, è oggi spesso accompagnata da arrangiamenti moderni. Il testo originale, scritto nel dialetto del Kyūshū, narra la vita e il lavoro dei minatori di Miike, celebrandone la forza e la resistenza: con il tempo, però, molte versioni moderne del brano hanno adattato il testo in un giapponese standard, rendendolo più accessibile a livello nazionale e internazionale.

Oggi il Tankō Bushi è conosciuto soprattutto per la danza tradizionale che lo accompagna. Il ballo, circolare e ripetitivo, imita i gesti del lavoro minerario: scavare, trasportare carbone, spingere carrelli e sollevare lanterne. Questi movimenti simbolici hanno contribuito a trasformare la canzone in un vero e proprio patrimonio culturale immateriale.

Okinawa - Eisa 

Arricchita da tamburi, costumi colorati e movimenti energici, la danza Eisa rappresenta il modo unico con cui l’arcipelago di Okinawa celebra l’Obon.

Accompagnata dal suono ipnotico dei tamburi taiko, da canti in dialetto okinawense (shimakutuba) e da melodie del repertorio min'yō (musica folk giapponese), ha la funzione di onorare e salutare gli spiriti in partenza, guidandoli simbolicamente verso l’aldilà.

Le radici di questa pratica sono profondamente religiose e si legano al nenbutsu, la recitazione del nome del Buddha Amida, introdotta a Okinawa attraverso l’influenza delle scuole buddhiste della Terra Pura. Nei secoli, queste pratiche si sono intrecciate con la cultura locale e con le celebrazioni comunitarie, dando origine a una forma artistica unica e collettiva, oggi praticata da gruppi di giovani chiamati Eisa-dan.

Il ritmo della danza è scandito da diversi tipi di tamburo, chiamati ōdaiko (tamburo grande), shimedaiko (più piccolo) e paranku (tamburo portatile). I danzatori, spesso giovani uomini e donne, sfilano per le strade in formazione indossando costumi colorati e ricchi di ornamenti.

Alcune celebrazioni legate all’Obon sono intime e spirituali, altre invece somigliano maggiormente a grandi feste comunitarie animate da musica, cibo e danze. È proprio questa varietà regionale a testimoniare la ricchezza culturale di questa festività, le cui manifestazioni condividono tutte il medesimo intento: onorare la memoria degli antenati e rinsaldare i legami familiari. 

Sofia Dagradi, studentessa

 


Recensione "Libro delle Ombre. Hiroshima, 80 anni dopo" di Giuseppe Carrieri

Libro delle Ombre
Un documentario di Giuseppe Carrieri per l’ottantesimo anniversario di Hiroshima

A ottant’anni dal 6 agosto 1945, giorno in cui la prima bomba atomica fu sganciata sulla città di Hiroshima, il documentario Libro delle Ombre, diretto da Giuseppe Carrieri, sceglie con coraggio di non concentrarsi sulla guerra, bensì sulla pace. Ed è proprio questa parola - “pace” - a risuonare più frequentemente nel racconto, ancor più della parola “guerra”: una scelta non solo lessicale, ma anche profondamente politica e poetica.

Carrieri, regista e documentarista napoletano da anni attivo nel panorama del cinema del reale, firma un’opera di rara delicatezza visiva e spirituale, capace di trasformare il linguaggio documentaristico in una riflessione poetica sul trauma, la memoria e la possibilità di rinascita.

Come assenza non solo di conflitto, ma anche di discriminazione: così viene definita la pace da alcuni hibakusha (sopravvissuti alla bomba atomica, oggi membri dell’organizzazione Nihon Hidankyō, insignita del Premio Nobel per la Pace 2024), quando viene chiesto loro che significato abbia davvero questa parola. È commovente constatare come i testimoni non si richiudano mai su un dolore nazionale, ma si aprano invece a un respiro universale, non mancando di rivolgere un pensiero anche a chi, ancora oggi, si trova a vivere nel mezzo di una guerra.

Carrieri intreccia un delicatissimo poema in prosa con testimonianze orali, immagini dei giorni immediatamente successivi al disastro, disegni essenziali e intensamente evocativi e scorci della Hiroshima di oggi. Il bianco torna più volte a occupare lo schermo, dapprima come luce accecante e assordante, che richiama l’istante della deflagrazione, poi come velo in sovrimpressione durante le testimonianze, a suggerire come l’onda d’urto della bomba abbia continuato a propagarsi nel tempo, lasciando una traccia profonda ben oltre l’impatto iniziale.

La fotografia di Emanuele Stalla restituisce con delicatezza questo doppio livello temporale: da un lato, i frammenti delle vite conclusesi quel 6 agosto, conservati all’interno del Museo della Pace; dall’altro, i viali alberati, le acque limpide, le aiuole fiorite simbolo di una Hiroshima rinata. 

Fin dalle prime scene, il documentario costruisce un parallelismo simbolico tra la luce degli hanabi, i fuochi d’artificio estivi che sbocciano come peonie nel cielo notturno, e quella del fungo atomico. L’intero film si muove poi sul contrasto tra luce e ombra: paradossalmente, è la luce ad apparire distruttiva, mentre l’ombra - della montagna, dei palazzi, dei luoghi riparati - si rivela salvifica, in grado di proteggere dalla deflagrazione.

Le ombre, nel Libro delle Ombre, non rappresentano il buio, ma il rifugio. Non l’oblio, ma la sopravvivenza. È grazie a esse, ci ricordano gli hibakusha, se qualcuno ha potuto continuare a vedere la luce. E finché possediamo un’ombra, fino a quel momento siamo vivi.

A tessere il filo di questo racconto è la voce narrante di Mayu Seto, dolce e colma di speranza, che guida lo spettatore attraverso un’intima meditazione sull’eternità e sull’impermanenza, due concetti profondamente radicati nella sensibilità giapponese. Fin dall’epoca dello Heike Monogatari, capolavoro dell’epica giapponese, la cultura nipponica contempla il ciclo di splendore e caduta, interrogandosi sulla fugacità dell’esistenza e sulla fragilità della gloria umana. Celebre è il prologo dell’opera, che così recita: “Il suono del campanile del Gion Shōja riecheggia l’impermanenza di tutte le cose. I fiori di ciliegio, tanto amati, rivelano il destino dei potenti: la loro caduta, rapida come un sogno di primavera. Le loro gesta, infine, si disperdono come polvere al vento.”

Eppure, nonostante l’evidenza della caducità della vita umana, gli hibakusha - o forse, più in generale, l’essere umano - continuano a sperare, in qualche forma, di poter sfiorare un’idea di eternità. C’è chi la cerca raccogliendosi davanti al proprio altare di famiglia, piangendo i volti amati che non ci sono più, spesso accompagnato dal silenzioso fardello del senso di colpa dei sopravvissuti; chi la invoca rivolgendosi ai kami del santuario; e chi, infine, la coltiva nel silenzio più profondo, custodendo dentro di sé la memoria dell’atomica come una fiamma che continua a bruciare.

Sofia Dagradi, studentessa


Conosci i nostri soci: Vittorio Porro e la libreria Tanabata

Conosci i nostri soci: Vittorio Porro e la libreria Tanabata 

A pochi passi da Porta Romana, tra gli eleganti palazzi di via Adige, si nasconde un piccolo angolo di Giappone: è solo una vetrina, ma non passa certo inosservata. Ad accogliermi, una piantina di bambù adornata da decine di tanzaku, strisce di carta colorata sulla quale la comunità affezionata alla libreria Tanabata ha scritto i propri desideri, secondo la tradizione dell’omonima festa del 7 luglio (clicca qui per saperne di più).

L’inventario è sorprendentemente ricco: sugli scaffali trovano posto prodotti autentici giapponesi, dalle tazze per la cerimonia del tè - realizzate a mano, ognuna diversa - ai simpatici daruma, piccole statuette raffiguranti il primo patriarca zen, simbolo di perseveranza e impegno al fine di raggiungere i propri obiettivi.

E naturalmente, i veri protagonisti: i libri, dai grandi classici dell’epoca Heian ai più recenti bestseller.

Cullati dal tintinnio dei furin - campanelle a vento mosse dalla piacevole brezza milanese, tanto attesa dopo settimane di caldo afoso - e inebriati dal profumo dei dolci preparati dal signor Vittorio Porro e dai suoi collaboratori in occasione del Tanabata (impossibile non notare i simpatici volti dei due amanti leggendari impressi sui biscotti), ha così inizio la nostra intervista alla scoperta di questa affascinante realtà e di alcuni imperdibili titoli in catalogo.

La vostra libreria ha un nome evocativo e poetico, “Tanabata”, che evoca l’incontro tra mondi distanti: che storia racconta e cosa rappresenta per voi portarla avanti a Milano?

Tanabata è una leggenda di origine cinese, ormai abbastanza nota - citata in molti romanzi famosi - e racconta la storia di due stelle, la Tessitrice e il Mandriano celesti, che vivono divise dalla Via Lattea. Un bel giorno, però, si vedono, si innamorano e cominciano a non lavorare più, trascorrendo tutto il tempo insieme: vengono così condannati a potersi incontrare solo una volta l’anno, la notte del 7 di luglio, data in cui si festeggia in Giappone il Tanabata Matsuri, o “festival delle stelle innamorate”.

La festa del Tanabata in origine era dedicata proprio alle lettere, alla poesia, alla calligrafia: questa è la ragione dietro alla scelta del nome della libreria.

La libreria nasce nel 2000 come agenzia di traduzione e nel tempo è diventata un vero “rifugio per gli amanti del Giappone”. In che modo la vostra iniziale attività di traduttori ha influenzato l'identità attuale?

Il lavoro di traduzione è sempre proseguito in parallelo alla conduzione della libreria: ultimamente, le traduzioni sono un po’ diminuite. Per questa ragione, ci stiamo ora dedicando quasi a tempo pieno a Tanabata, l’unico luogo a Milano dove si trovi un’autentica rappresentanza della letteratura giapponese.

A questo punto concedetemi una domanda sulla traduzione letteraria dal giapponese. Negli ultimi anni, è sempre più frequente incontrare parole lasciate in originale - shōji, senpai, kodomo - accompagnate da note o glosse. È come se certi termini portassero con sé un piccolo mondo che si rifiuta di essere completamente tradotto. Secondo voi, questa scelta di abbandonare un precedente approccio “domesticante” in favore di una traduzione più esotizzante può affascinare e arricchire il lettore, oppure rischia di creare una barriera invisibile per chi si avvicina per la prima volta alla letteratura giapponese?

Secondo me, questo fatto è positivo, a patto di non esagerare. Ad esempio, lei cita kodomo (“bambino”), che è una parola il cui equivalente esiste in italiano: non ritengo necessario lasciarla in giapponese. Diverso è quando si tratta di un tipico prodotto giapponese, come il tofu, o di particolari elementi architettonici o religiosi difficili da rendere in un’altra lingua.

Proponete non solo libri, ma anche ceramiche, fūrin (campanelle a vento), teiere, kimono e altro ancora. Cosa vi guida nella ricerca di manufatti così da creare un “angolo di Giappone” in Italia?

Lo scopo è quello di offrire manufatti artigianali e rappresentativi di diversi aspetti della cultura giapponese, oggetti tipici e tradizionali alla portata di tutti, ma che difficilmente si possono trovare altrove in Italia.

Nelle recensioni i clienti raccontano che entrare in libreria è come “teletrasportarsi in Giappone”, grazie non solo alla vasta scelta di opere e manufatti provenienti direttamente dal Sol Levante, ma anche e soprattutto grazie alla cura ed alla gentilezza del personale. Quanto è importante per voi il rapporto con il pubblico?

Direi che il rapporto con la clientela è molto importante: noi cerchiamo di  mettere a proprio agio il cliente, lasciandolo tranquillamente consultare i testi senza interferire e poi, se richiesto, aiutandolo nella scelta. Questo approccio ci distingue dalle librerie di catena, dove è più difficile rapportarsi individualmente con il lettore.

Tra gli scaffali di "Tanabata" convivono classici e voci contemporanee, ma è proprio una di queste ultime ad averci colpito in particolare. Mi riferisco a Vanishing World (Edizioni e/o, 2025) di Murata Sayaka, un libro che inquieta, affascina e interroga profondamente chi legge. Personalmente, a voi cosa ha lasciato questa lettura?

A me personalmente ha un po’ inquietato: l’ho considerato essenzialmente un libro di fantascienza, che descrive un mondo che potrebbe magari un giorno concretizzarsi, caratterizzato però da aspetti estremamente particolari, come lo stravolgimento dei rapporti familiari ed extraconiugali, o il finale in cui i bambini perdono le caratteristiche genetiche dei genitori biologici e finiscono per assomigliarsi tutti fra loro (similmente ai bambini alieni del classico di fantascienza I figli dell’invasione di John Wyndham, ndr.).

Vanishing World è uscito in Giappone col titolo originale Shōmetsu Sekai nell’aprile 2015, praticamente in parallelo all’indagine pubblicata dal quotidiano di Tōkyō Mainichi Shinbun sul fenomeno ormai noto come sekkusu banare, l’allontanamento dal sesso da parte dei giovani giapponesi. La coincidenza sembra quasi profetica, dato che nel romanzo il desiderio sessuale è rimosso, sterilizzato, trasformato. Secondo voi, è corretto definire Murata Sayaka come una delle più lucide interpreti della società giapponese contemporanea?

Direi di sì, poiché tratteggia un fenomeno molto attuale e presente, pur utilizzando un linguaggio un po’ fantascientifico. Forse il senso di inquietudine provato dal lettore si può addurre, in parte, proprio al fatto che alcuni dei processi narrati da Murata si stiano già in un certo senso producendo: il tono dell’autrice sarebbe dunque non più solo profetico, ma anche descrittivo di tendenze già in atto.

Come librai e mediatori culturali, credete che la letteratura possa avere un ruolo attivo nel decostruire l’immaginario collettivo su famiglia, identità e genere?

Senz’altro, sì. Penso che, nella società odierna come nelle epoche passate, l’intellettuale ricopra un ruolo importante nella costruzione e decostruzione di questi concetti, servendosi della fantasia per esplorare infinite possibilità all’interno di categorie apparentemente così rigide.

C’è un tipo in particolare di lettrice o lettore a cui consigliereste questo libro? A chi, invece, consigliereste magari di partire da un’altra opera dell’autrice? E quale, eventualmente?

Vanishing World è senz’altro un libro problematico da interiorizzare, che mette a dura prova il lettore: per cui lo consiglierei a soggetti interessati all'argomento e che desiderano informarsi sul background sociologico, così da riuscire ad apprezzare maggiormente l’opera. I temi trattati sono il confine tra naturale ed artificiale, la natura dei rapporti umani e le possibili declinazioni del concetto di famiglia. Personalmente, consiglierei di iniziare ad approcciare l’opera di Murata Sayaka a partire da La ragazza del Convenience Store (Edizioni e/o, 2021), una lettura dai toni decisamente più tranquilli e rilassati, ma comunque carica di significato, tratta dall'esperienza personale dell’autrice e sempre legata alla tematica della difficoltà nel sottostare alle norme sociali.

Quali titoli consigliate a chi, come la sottoscritta, è rimasto affascinato da Murata Sayaka e si trova alla ricerca di qualcosa che ne raccolga l’eco?

Consiglierei l’autrice Sakuraba Kazuki, in particolare i titoli Red Girls (Edizioni e/o, 2021) - saga familiare che esplora la tematica dei rapporti generazionali - e Non è un lavoro per ragazze (Edizioni e/o, 2023), che possiede una simile carica dirompente. Il primo romanzo è ambientato nel dopoguerra, in un paese scarsamente popolato del Giappone rurale, e si tratta di una lettura facilmente avvicinabile, come La ragazza del Convenience Store: ulteriori punti di contatto con l’opera di Murata sono la presenza di elementi di realismo magico e di protagoniste femminili non convenzionali. Il secondo libro, invece, si basa su di una premessa più sconcertante: una ragazza tredicenne aiuta l’amica e coetanea a sbarazzarsi del genitore abusante, ma una volta concluso l’omicidio, si fa restituire il favore.

C’è qualche titolo in particolare, tra quelli in catalogo presso la libreria Tanabata, che secondo lei meriterebbe più attenzione, magari perché offuscato da nomi più noti?

Personalmente, ritengo di sì. Ultimamente, romanzi molto decantati come Tokyo Sympathy Tower (L’Ippocampo edizioni, 2025), concepito anche grazie all'utilizzo dell’intelligenza artificiale, e Strani disegni (Einaudi, 2025), il thriller scritto dal misterioso creator mascherato Uketsu, hanno catalizzato l’attenzione degli appassionati di letteratura giapponese; tuttavia, ritengo che vi siano numerose altre opere altrettanto degne di nota, seppur meno recenti. Per quanto riguarda il genere giallo, Yokomizo Seishi è un maestro del settore: io consiglio in particolare Il detective Kindaichi (Sellerio, 2019), che racconta l’esordio del giovane investigatore, La locanda del gatto nero (Sellerio, 2019), caposaldo del genere del “delitto senza volto” e Fragranze di morte (Sellerio, 2022), edizione che raccoglie due romanzi brevi dell’autore.

Per quanto riguarda invece la letteratura femminile contemporanea, ci sono voci a cui secondo lei andrebbe dato maggior risalto?

Un’altra scrittrice contemporanea che esplora l’universo della distopia è Ogawa Yōko, di cui consiglio in particolare L’isola dei senza memoria (ilSaggiatore, 2021), che descrive un’epidemia di oblio collettivo: trovo però molto valida tutta la sua bibliografia. Quasi sua omonima, Ogawa Ito esplora ancora una volta i legami intergenerazionali in Ribon - messaggero d’amore (Neri Pozza, 2020), un dolce racconto sull'amore tra nonna e nipote.

Mentre ringrazio Vittorio Porro per averci aperto uno spiraglio sul suo vivace e curatissimo universo, la libreria già comincia ad animarsi con l’arrivo dei primi clienti, che si attardano tra le file di narrativa, rigorosamente senza fretta, concedendosi il piacere di perdersi nell'affascinante offerta letteraria. Prima di lasciare il negozio, il nostro intervistato mi porge un paio di quei deliziosi biscotti che avevo adocchiato all'inizio della mattinata: un piccolo gesto che, proprio come i desideri affidati al venticello estivo, sa infondere una grande dose di speranza.

Sofia Dagradi, studentessa

LIBRERIA TANABATA
Indirizzo: Via Adige, 7 20135 Milano
E-mail: info@tanabata.it
Telefono: 02 546 3980
Sito web: tanabata.it

 


HIROSHIMA, 80 anni fa: un manga e due romanzi per non dimenticare

Il 6 agosto 1945, alle ore 8:15 del mattino, mentre la gente si apprestava ad andare al lavoro, il bombardiere americano Enola Gay sganciò sulla città giapponese di Hiroshima una bomba chiamata Little Boy, provocando la prima esplosione nucleare della storia su un’area abitata, e causando duecentomila vittime, quasi esclusivamente civili. Il secondo bombardamento nucleare avvenne appena tre giorni dopo, il 9 agosto, sempre a opera dell’esercito americano, sulla città giapponese di Nagasaki.

Come ogni anno, Kappalab si unisce alla commemorazione della tragica ricorrenza perché la memoria storica non venga mai cancellata, e gli errori del passato non vengano ripetuti.

Storie di persone comuni, di operosi civili, di giovani con speranza nel futuro e di bambini innocenti, che si intrecciano prima, durante e dopo gli eventi del 6 e del 9 agosto 1956, in tre libri di pregio internazionale, nelle loro nuove edizioni librarie.

Per non dimenticare mai, e per non permettere a chi governa i nostri Paesi di commettere di nuovo gli stessi assurdi crimini contro l'umanità.

Hiroshima: nel paese dei fiori di ciliegio di Fumiyo Kono 

Hiroshima, dieci anni dopo l’esplosione della bomba atomica che ha spazzato via troppe vite umane e distrutto il futuro dei sopravvissuti. È il 1955, e Minami vive nella consapevolezza che nonostante tutti gli sforzi, probabilmente non riuscirà mai più a essere felice. Eppure il mondo continua a esistere nonostante le più grandi tragedie, e Minami sta per scoprire che i fiori di ciliegio, così delicati e fragili, possono tornare a fiorire, intorno e dentro di lei.

Fumiyo Kono, nata a Hiroshima il 28 settembre 1968, inizia a disegnare fumetti durante il liceo. Dopo aver studiato scienze all'università di Hiroshima, si trasferisce a Tokyo e diventa assistente di alcuni fumettisti, fino al debutto come autrice nel 1995 con Machikado Hanadayori. Seguono manga come Pippina Note, Kokko-san, Nagai Michi e Kappa no Neneko, ma è con Yunagi no Machi, Sakura no Kuni (ovvero Hiroshima: nel paese dei fiori di ciliegio) che raggiunge la notorietà internazionale, ricevendo due prestigiosi premi: il Grand Prize del Japan Media Arts Festival nel 2004 (che vincerà anche nel 2009), e il Creative Award del Tezuka Osamu Cultural Prize nel 2005.

In questo angolo di mondo di Fumiyo Kono

Durante la Seconda Guerra Mondiale, la giovane Suzu affronta con candore e tenacia il difficile periodo presso la città portuale di Kure, ad appena un’ora di distanza da Hiroshima, dove trascorre i suoi giorni da sposa novella di un ufficiale della marina giapponese, in un ambiente familiare e sociale a lei sconosciuto fino a poco tempo prima. Nonostante i razionamenti imposti dall’esercito nipponico, e nonostante i bombardamenti dell’aviazione americana, Suzu si impegna per la propria famiglia e per il prossimo nei giorni antecedenti e successivi al lancio della bomba atomica, portando avanti il suo messaggio di pace e speranza.

La storia da cui Sunao Katabuchi (regista di Mai Mai Miracle, Princess Arete e assistente alla regia di Hayao Miyazaki in Kiki: consegne a domicilio) ha realizzato l’omonimo e premiatissimo film d’animazione campione d'incassi in Giappone nel 2016.

La tomba delle lucciole di Akiyuki Nosaka 

Giugno 1945, Seconda Guerra Mondiale: le forze armate americane attaccano il Giappone con bombe incendiarie, riducendo a immensi roghi interi villaggi fatti di case di legno. Seita è ancora un bambino, e non capisce quello che gli sta accadendo intorno, e durante la fuga per la sopravvivenza con la sorellina Setsuko, perde di vista la madre. Questa è la drammatica epopea di due bambini, costretti a vagare soli tra le macerie di Kobe, un paese ridotto in cenere, ed è una denuncia contro gli orrori di qualsiasi guerra, che come al solito colpisce soprattutto gli innocenti.

Basato sulle personali esperienze dell’autore durante la Seconda Guerra Mondiale, questo romanzo ha ricevuto il prestigioso Premio Naoki Sanjugo nel 1967, è stato trasposto nel 1988 nell’omonimo film d’animazione diretto da Isao Takahata (celebre per Heidi, Anna dai Capelli Rossi, Ponpoko) e, di nuovo, in uno struggente film dal vivo nel 2005 prodotto dalla NTV.


Recensione "Gli ultimi soldati dell’imperatore. I giapponesi che non si arresero dopo il 1945" di Antonio Besana

La guerra è senza dubbio una delle dinamiche, nella storia dell’uomo, che sfuggono a qualsiasi tipo di logica: resta un mistero irrisolvibile come l’essere umano, capace di progettare strumenti quali l’intelligenza artificiale, di costruire infrastrutture che connettano i due emisferi e di sviluppare cure per contrastare pandemie, non sia ancora in grado di coesistere pacificamente sullo stesso pianeta.
È proprio all'interno di questo fenomeno, di per sé quasi inspiegabile, che emergono dinamiche altrettanto bizzarre, capaci di affascinare e allo stesso tempo turbare il senso comune: è il caso, ad esempio, dei militari comunemente conosciuti come “soldati fantasma giapponesi” (zanryu nippon hei, letteralmente “soldati giapponesi lasciati indietro”). 

Antonio Besana (Milano, 1955), professore al MIMM (Master di International Marketing Management) presso l’Università Cattolica di Milano, ha negli ultimi anni affiancato alla carriera accademica quella di scrittore, coltivando la propria passione per la storia militare. Le sue pubblicazioni si distinguono per il focus su episodi meno noti all'interno delle più ampie dinamiche di guerra: in Vite incrociate. La pietà per il nemico nella Seconda Guerra Mondiale (Edizioni Ares, 2022), ad esempio, esplora tredici casi in cui i soldati hanno saputo riconoscere e rispettare la sofferenza degli avversari; ancora, ne Il bambino di El Alamein (Edizioni Ares, 2023) racconta la triste storia del più giovane soldato italiano arruolato durante il secondo conflitto mondiale. 

Nel suo nuovo libro, l’autore si concentra sulle storie dei soldati giapponesi i quali, non avendo ricevuto la notizia della resa o rifiutandosi di credervi, continuarono a combattere nelle giungle del Sud-Est asiatico, talvolta persino per decenni. Un’impresa di ricerca ardua, come l’autore stesso ammette, soprattutto per la difficoltà nel reperire fonti tradotte in inglese.

Come sottolinea lo stesso Besana, è naturale interrogarsi sul motivo di questa profonda incapacità di accettare la realtà della sconfitta. A tal proposito, Ōoka Shōhei, prigioniero di guerra sull’isola di Leyte e autore di Nobi (titolo italiano La guerra del soldato Tamura, 1951), scrive: “Sembra [...] che l'uomo non sia capace di accettare il caso. Il nostro spirito non ha la forza di sopportare una serie continua di casi, cioè l'eternità.” Pur non essendo uno dei “soldati fantasma”, in quanto è stato rimpatriato al termine del conflitto, Ōoka è una delle voci più autorevoli della letteratura di guerra giapponese, e con questa citazione coglie perfettamente come per quei soldati la resa rappresentasse una casualità insopportabile, un evento in grado di vanificare la loro missione e di negare il senso stesso della fedeltà all’imperatore il cui culto, nel frattempo, era stato smantellato dalla Costituzione “imposta” dalle Forze Alleate nel 1947.

Trovo che Besana, alternando resoconti puntuali, tratti da testimonianze dirette dei reduci, a riflessioni più ampie di natura etica e culturale, riesca con efficacia a restituire la complessità di queste vicende. Particolarmente significativo è il passo tratto dalla cronaca No Surrender: My Thirty-Year War di Onoda Hiroo, ufficiale dell'intelligence giapponese, nascostosi nella giungla dell’isola di Lubang per poi arrendersi ai rappresentanti dell’esercito statunitense e filippino ventinove anni dopo la resa formale del Giappone:

Non ne avevamo mai parlato, ma tutti noi avevamo sperato che un giorno saremmo tornati in Giappone. E ora io solo tornavo, lasciando gli spiriti dei miei insostituibili camerati sull’isola. Tornavo in un Giappone che aveva perso la guerra trent’anni prima. Tornavo nella terra dei miei avi, per la quale avevo combattuto fino al giorno prima. Se non ci fosse stata gente intorno a me, avrei battuto il capo per terra, gemendo. [...] Per la prima volta osservavo dall’alto il mio campo di battaglia. Perché mai avevo combattuto laggiù per trent’anni? Per chi avevo combattuto? In nome di quale causa?

Proprio come i protagonisti del genere isekai (sottogenere fantasy in cui un individuo ordinario viene reincarnato in un universo parallelo), particolarmente amato dal pubblico giapponese, ma con un’esperienza ben più concreta e drammatica, questi “eroi tragici” si ritrovano catapultati in un mondo al quale non sentono più di appartenere. Lo stesso Onoda, incapace di adattarsi alla realtà del Giappone del dopoguerra, scelse infatti di trasferirsi in una colonia agricola giapponese in Brasile.  

Besana accompagna simili resoconti a citazioni dal codice etico del Bushidō (“la via del guerriero”), ispirato a testi fondanti della tradizione samuraica come lo Hagakure:

Hagakure, il testo classico del Bushidō scritto all’inizio del XVIII secolo, inizia con le parole: Bushidō è un modo di morire’. Solo un samurai preparato e disposto a morire in ogni momento può dedicarsi completamente al suo signore.”

Attraverso questa duplice lente - da una parte la cruda realtà raccontata in prima persona, dall'altra la millenaria eredità storico-culturale - l’autore riesce a raccontare quanto, per i protagonisti di queste vicende, fosse più accettabile rifugiarsi nell'autoinganno che tutte le loro sofferenze non fossero state vane, piuttosto che accettare la “banalità” della resa. Continuare a credere nella propria missione, e nutrire la speranza di un ritorno a un Giappone immutato, era forse l’unico modo per sopravvivere alle loro terribili condizioni autoinflitte per anni. In questo senso, ricollegandoci anche al pensiero di Ōoka, potremmo parlare di “assurdo” nel senso sartriano del termine: la contraddizione intrinseca tra il bisogno umano di attribuire un significato all'esistenza e l’assenza, nella realtà, di un fine ultimo oggettivo. 

Besana sottolinea infatti come, contrariamente a quanto dettato dall'immaginario collettivo, che tende a schernire questi soldati o a etichettarli come fanatici, la loro resistenza nascesse da sentimenti profondamente umani. Lo dimostra anche il passaggio dedicato ai kamikaze, in cui viene riportata la commovente lettera scritta da Ichizō Hayashi, membro di una forza d’attacco speciale, alla madre prima di partire per una missione suicida: “Sono felice di avere l’onore di essere stato scelto come membro di una forza d’attacco speciale che sta andando in battaglia, ma non posso fare a meno di piangere quando penso a te, mamma.”). 

Eppure, laddove sarebbe facile cadere nella cieca glorificazione di una lealtà assoluta, o nel fascino esotizzante di una cultura così distante dalla nostra, lo scrittore è estremamente abile nel non oltrepassare mai questa soglia. Il racconto è difatti bilanciato da riferimenti lucidi e puntuali alle atrocità commesse dai reparti giapponesi a danno dei vicini asiatici durante la Seconda Guerra Mondiale, e l’autore non manca nemmeno di citare un toccante episodio - perfettamente in linea con il precedente Vite incrociate - di riconciliazione tra due reduci giapponesi e due americani sull'isola di Peleliu, avvenuta nel 2013 e raccontata nel documentario Once were enemies (2017) della regista Eva Wunderman.

Al netto di tutto ciò, Gli ultimi soldati dell’Imperatore è un libro che mi sento di consigliare caldamente, non solo a chiunque sia appassionato di storia e cultura giapponese, ma anche a chi, magari, non ha mai amato particolarmente l’insegnamento scolastico della storia. Le riflessioni che ne emergono toccano, infatti, corde universali e possono parlare a tutti, soprattutto in un presente che, purtroppo, è ancora profondamente dilaniato dalla guerra.

Sofia Dagradi, studentessa


In libreria dal 1° agosto 2025 "Fiabe e Leggende. Studio Ghibli" di Ippei Otsuka

Dietro l’incanto dei film dello Studio Ghibli si nasconde un universo letterario ricco e variegato. Hayao Miyazaki, maestro dell’animazione giapponese, ha sempre attinto alla narrativa internazionale per dare forma ai suoi film, ambientati in mondi sospesi tra sogno e realtà. Fin da bambino, ha coltivato un amore profondo per le storie, lasciandosi ispirare da romanzi, racconti e leggende che ancora oggi risuonano nelle sue opere più iconiche.

È proprio da questa passione che nasce un nuovo libro imperdibile per fan, studiosi e amanti dell’animazione giapponese: Fiabe e Leggende. Studio Ghibli, una raccolta che finalmente riunisce in un unico volume le storie originali alla base dei capolavori Ghibli.

Dall'avventura fantastica de Il castello errante di Howl all'intensità ecologica di Nausicaä della Valle del Vento, dalla poesia delicata di Kiki - Consegne a domicilio alla commovente magia de Il mio vicino Totoro, passando per la dolcezza di Ponyo sulla scogliera e il coraggio delle eroine di Principessa Mononoke e Laputa. Il castello nel cielo, il libro accompagna il lettore attraverso le fonti letterarie che hanno ispirato Miyazaki nella realizzazione di opere entrate ormai nel cuore del cinema mondiale.

Sorprendentemente, anche le opere più "politiche" di Miyazaki - Porco Rosso, Si alza il vento, Il ragazzo e l'airone - sono ispirate da testi riscoperti in questa raccolta.

All'interno dello Studio Ghibli, però, Miyazaki non è il solo ad essersi lasciato ispirare dalla narrativa autoctona e internazionale: grazie all'opera di Ippei Otsuka, sarà possibile conoscere anche i racconti all'origine di Pom Poko, celebre lungometraggio di Isao Takahata, Il gatto con gli stivali, adattamento di Kimio Yabuki, e Arrietty. Il mondo segreto sotto il pavimento, diretto da Hiromasa Yonebayashi.

Infine, tra i racconti presenti nel volume si trovano anche perle meno note al grande pubblico, come Il viaggio di Shuna, Il fiuto di Sherlock Holmes, La grande avventura del piccolo Principe ValiantConan il ragazzo del futuro, e perfino un racconto firmato da Roald Dahl, autore amatissimo anche in Giappone.

Le storie provengono da Giappone, Europa e Stati Uniti, mescolando generi e sensibilità in una visione davvero globale della narrativa per immagini. Una lettura che permette di scoprire, o riscoprire, l’universo di riferimento da cui i registi dello Studio Ghibli hanno tratto linfa creativa, dando vita a personaggi iconici e a mondi sospesi tra sogno e realtà.

A curare l’antologia è Ippei Otsuka, autore già noto in Italia per aver raccolto in altri volumi editi da Kappalab le più celebri leggende e fiabe del folclore nipponico, tra cui Fiabe e leggende giapponesi, Fiabe e leggende giapponesi 2. Creature fantastiche e La storia della Principessa Splendente (alla base del capolavoro di Isao Takahata).

Fiabe e Leggende. Studio Ghibli sarà disponibile dal 1° agosto in tutte le librerie, fumetterie e nelle migliori cartolibrerie italiane. 

Per maggiori informazioni, consultare il sito web di Kappalab.


Tanabata: le diverse interpretazioni del Festival delle Stelle

Ogni anno, in estate, il Giappone si trasforma in un tripudio di colori, luci e desideri: si tratta della festa del Tanabata, letteralmente “la notte del settimo giorno”, conosciuta anche come Festival delle Stelle.

Celebrata tradizionalmente il 7 luglio, Tanabata si svolge in alcune regioni anche il 7 agosto, secondo il calendario lunare. Nella tradizione giapponese, infatti, molte festività ricorrono in date in cui il numero del giorno coincide con quello del mese: ad esempio, il 3 marzo si celebra lo Hina Matsuri (Festa delle Bambole), il 5 maggio il Kodomo no Hi (Giornata dei Bambini), il 7 luglio il Tanabata e così via.

Qualunque sia la data, la magia resta la stessa: città grandi e piccole si riempiono di installazioni artistiche in carta, lanterne fluttuanti, bancarelle di prelibatezze tipiche e desideri scritti su tanzaku, strisce colorate appese a canne di bambù e affidate al vento. Questi piccoli fogli di carta colorata si ricoprono di sogni di fortuna, salute, successo negli studi o nel lavoro, ma soprattutto d'amore, tema centrale di questa celebrazione. 

A rendere davvero unica questa celebrazione, però, è la sua adattabilità alle tradizioni locali, dando vita a festival (matsuri) tanto diversi quanto straordinari. Scopriamo quindi tre degli eventi Tanabata più iconici e originali del Paese!

Sendai Tanabata Matsuri

Tra i festival più celebri spicca senza dubbio quello di Sendai, vivace centro urbano nella prefettura di Miyagi. Qui, Tanabata si celebra dal 6 all’8 agosto con un evento che attira ogni anno oltre due milioni di visitatori, grazie alla raffinatezza e alla cura artigianale che lo contraddistinguono.

Le origini di questo festival risalgono al periodo Edo (1603–1868), quando fu introdotto nella regione dal signore feudale (daimyō) Date Masamune. Da allora, le vie commerciali della città si trasformano ogni anno in una galleria a cielo aperto, riempiendosi di migliaia di decorazioni realizzate in washi (letteralmente “carta giapponese”), lunghe anche diversi metri e apprezzate per il loro valore artistico.

Le strisce colorate vengono fabbricate a mano da famiglie, scuole o aziende, e sono contraddistinte da motivi tradizionali o simbolici che sfruttano la natura traslucida del materiale. Ogni decorazione è diversa, ma tutte contribuiscono a creare un’atmosfera visiva di rara bellezza.

Le celebrazioni iniziano ufficialmente la sera del 5 agosto con un suggestivo spettacolo pirotecnico, durante il quale si può ammirare la poesia dei fuochi d’artificio giapponesi (hanabi, letteralmente “fiori di fuoco”). La serata è arricchita da eventi culturali, laboratori creativi e musica dal vivo, mentre gli spettatori possono assaggiare diverse specialità regionali, passeggiando tra le bancarelle.

Tra le vie addobbate e l’allegro vociare delle folle, Tanabata a Sendai non è solo un evento a cui assistere, ma una vera e propria esperienza nella quale immergersi: una celebrazione sentita da tutta la comunità, che partecipa attivamente all’allestimento dei quartieri.

Shonan Hiratsuka Tanabata Matsuri

Ogni estate, nella città costiera di Hiratsuka, non lontano da Tokyo, si celebra uno degli eventi più spettacolari e partecipati della regione del Kantō, capace di attirare quasi due milioni di visitatori in soli tre giorni.
Celebrato tra il 4 e il 6 luglio, lo Shonan Hiratsuka Tanabata Festival trasforma il centro cittadino in un grande palcoscenico a cielo aperto, dove la tradizione incontra la vivacità della festa popolare.

A caratterizzare l’evento sono principalmente le maestose decorazioni sospese lungo le gallerie commerciali e le strade della città: enormi stelle filanti colorate (fukinagashi), realizzate in carta, pendono da sfere ornamentali chiamate kusudama (letteralmente “palla medicinale”), composte da unità geometriche ispirate alla dalia e introdotte come ornamento tipico nei festival Tanabata nel 1946.

Durante i tre giorni del festival, la città ospita inoltre cerimonie tradizionali, spettacoli dal vivo, una parata con carri allegorici e decine di bancarelle che offrono street food e prodotti locali. Tra le attrazioni più attese figura la grande processione di mille danzatori in yukata, che percorrono le vie della città al ritmo di musiche tradizionali. Intorno alla stazione di Hiratsuka, inoltre, si snodano palchi con performance per tutti i gusti: dal teatro giapponese alle esibizioni pop, passando per dimostrazioni di arti marziali e musica folk.

Negli ultimi anni, grazie alla crescente popolarità dell’evento, si è persino diffusa l’usanza di celebrarvi matrimoni in stile Tanabata, ispirati alla romantica leggenda alla base della festività. I protagonisti del mito sono infatti due amanti, la principessa tessitrice Orihime e il pastore celeste Hikoboshi, i quali, separati dalla Via Lattea, possono riunirsi soltanto in occasione della settima notte del settimo mese: chi desiderasse conoscere meglio questa affascinante storia, può trovare maggiori informazioni all'interno di un precedente approfondimento sul nostro blog. 

Asagaya Tanabata Matsuri

Nel cuore pulsante di Tokyo, il quartiere bohémien di Asagaya si trasforma durante i primi giorni di luglio in un universo colorato e fiabesco per accogliere uno dei festival Tanabata più originali dell’arcipelago. Questa consuetudine nacque nel 1954, su iniziativa dei commercianti locali, con l’obiettivo di rivitalizzare il quartiere commerciale durante i mesi estivi, solitamente caratterizzati da un calo delle vendite a causa del caldo.

Oggi, lo Asagaya Pearl Center, la lunga galleria coperta che si estende dall’uscita sud della stazione, diventa un punto di riferimento immancabile per chi visita Tokyo in estate. In occasione del Tanabata, infatti, vengono appese al soffitto numerosissime haribote, enormi sculture in cartapesta. Queste creazioni rappresentano una vera e propria esplosione di creatività: personaggi dei cartoni animati, figure della cultura pop, creature fantastiche e persino satira sociale si mescolano in una parata sospesa che affascina adulti e bambini.

Ogni haribote è unica, spesso realizzata a mano da commercianti, scuole elementari, asili, gruppi locali e artisti che partecipano a concorsi pubblici. I temi cambiano ogni anno e seguono le tendenze del momento, rendendo il festival un’originale testimonianza della società giapponese contemporanea. Una delle particolarità più affascinanti di questo festival è inoltre la possibilità di assistere alla creazione delle decorazioni: circa dieci giorni prima dell’inizio dell’evento, al termine dell’orario di apertura dei negozi, è possibile vedere gli abitanti del quartiere intenti a costruire le loro opere davanti alle botteghe.

Durante il festival, infine, le strade di Asagaya si animano con bancarelle di street food, pesca yo-yo e una grande varietà di giochi per bambini, contribuendo a creare un’atmosfera familiare, coinvolgente e giocosa.


Il fascino del Tanabata risiede nella sua capacità di unire poesia e partecipazione popolare, folklore e innovazione, raccogliendo intorno a sé intere comunità. Che ci si trovi sotto alle raffinate decorazioni di Sendai, tra le coreografie festose di Hiratsuka o in mezzo alle sculture pop di Asagaya, l’obiettivo del festival resta lo stesso: celebrare l’amore, la speranza e il sogno.