Letteratura: “Made in Japan. Arte, storie e segreti di una civiltà millenaria”
La recente pubblicazione di Francesco Morena per Giunti Editore “Made in Japan. Arte, storie e segreti di una civiltà millenaria” porta i lettori in un affascinante viaggio nel tempo, nel cuore della cultura giapponese.
L'autore, studioso esperto di arte orientale, guida il lettore attraverso venti capitoli riccamente illustrati, offrendo una prospettiva accessibile sia agli studiosi che ai neofiti desiderosi di esplorare il complesso e affascinante universo giapponese.
L'opera si configura come una preziosa antologia di “pillole” che svelano le vicende, i protagonisti e le eredità che hanno plasmato l’identità culturale del paese, intrecciando la sua storia e l'arte.
“Made in Japan” si rivela così un invito coinvolgente a scoprire la profonda connessione tra passato e presente che anima la millenaria civiltà del Sol Levante.
Informazioni:
Francesco Morena
Giunti Editore, Firenze 2025
pp. 240, € 29
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Due film per ricordare Masahiro Shinoda: Under The Blossoming Cherry Trees (1975) e Demon Pond (1979)
di Marcella Leonardi
Lo scorso 25 Marzo ci ha lasciati il regista e sceneggiatore giapponese Masahiro Shinoda, tra i più grandi autori - insieme a Nagisa Ōshima, Seijun Suzuki e Shōhei Imamura, tra gli altri - della Nūberu bāgu (Nouvelle Vague) giapponese. Lo ricordiamo con due tra i suoi titoli più affascinanti.
Le recensioni sono tratte dal blog di cinema giapponese classico e contemporaneo NUBI FLUTTUANTI
UNDER THE BLOSSOMING CHERRY TREES (Sakura no mori no mankai no shita, 1975)
Un rozzo montanaro uccide le sue sei mogli per assecondare una donna affascinante che ha catturato. Man mano che il tempo passa, l’uomo si spinge a compiere crimini sempre più efferati per compiacere la sua nuova moglie, creatura sadica e necrofila.
Scritto nel 1947, all’indomani della Seconda guerra mondiale, in un paese prostrato e ridotto a sentimenti primordiali e violenti (scrisse Ozu nel 1951: “Mi dispiace, non riesco più a sentire lo stesso affetto (…). In passato quelle persone non erano senza cuore così come sono oggi”), il racconto di Sakaguchi Ango mette in scena una vicenda agghiacciante, in cui i confini tra sogno e incubo, bellezza e orrore sono labili e sfuggenti come il vento gelido che spira tra i fiori di ciliegio. Petali di sovrumana bellezza si moltiplicano sugli alberi e creano un sovraccarico sensoriale – di colori, profumi, di un delicato stormire tra i rami – che diviene per l’essere umano qualcosa di minaccioso e inspiegabile. Sakaguchi animava le sue foreste di uno spirito malvagio quanto magnifico e vago, simile a una presenza femminile di inusitata crudeltà e leggiadria, capace di liberare un desiderio pulsionale in chiunque la ammirasse. Nel racconto, il rude montanaro protagonista resta schiavo di un incanto che lo trascina nel più profondo abominio: la donna da lui catturata e presa in moglie è seducente come ciliegi in fiore, ma dominata dalla follia. Per lei, il montanaro ucciderà le sue mogli, taglierà teste, si piegherà alla vanità della donna e alle sue voglie perverse.
Masahiro Shinoda, studioso e appassionato di letteratura, profondamente interessato a trasporre forme e strutture letterarie in immagini – alla ricerca di un nuovo emerso dalle ceneri dei linguaggi tradizionali – si avvicina al racconto di Sakaguchi con rispetto, riproducendone la sequenza di eventi così come i dialoghi e le perturbanti atmosfere, frutto della psiche alterata dei protagonisti. Ma là dove Sakaguchi si prodigava in descrizioni minuziose, facendo della parola uno strumento affilato e innocente, usato nella sua nuda evidenza per mettere in scena l’orrore e la malattia insiti nell’esistenza umana, Shinoda consegna all’immagine il carico di significanza delle dense pagine dello scrittore.
Per questo motivo le sue inquadrature sono profonde e stratificate: all’interno dell’immagine lo spettatore può “muoversi” tra molteplici informazioni, soffermarsi su oggetti e indizi in avampiano, lasciar scorrere lo sguardo ai margini (spazio prediletto da Shinoda per collocarvi la presenza umana), fino a cogliere le microstorie sullo sfondo (un gatto, un personaggio, una finestra/palcoscenico sul mondo).
La bellezza della visione di Shinoda risiede in questo atto di trasformazione della pagina in una immagine/microcosmo di qualità tridimensionale. Emerge la sua ammirazione per Orson Welles, che ne influenza la scomposizione dell’inquadratura in una pluriformità esplorata da una regia osservatrice e testimone della degenerazione dell’essere umano.
Occhio voyeuristico, analitico, non di rado morboso, la macchina da presa “emotiva e pensante” di Shinoda si sofferma sul corpo della donna (la musa Shima Iwashita), ne ammira con voluttà la pelle diafana e le labbra carnose. In una scena ne spia i giochi erotici perversi con una passione feticista che è la medesima del protagonista: Shinoda indugia sui seni, sulla bocca, sui piedi pallidi e delicati capaci di scatenare l’irrazionale bramosia del marito. La densa atmosfera erotica che satura le scene è indissolubilmente legata a un sentimento di repulsione e disprezzo e l’inquietudine è accentuata dalle note dissonanti del grande compositore Tōru Takemitsu, che sollecita un continuo ritorno del rimosso sovvertendo canoni tradizionali e melodie, a favore di composizioni disarmoniche e sperimentali.
“Mondo di sofferenza, eppure i ciliegi sono in fiore”: dalle immagini di Shinoda spira la stessa triste e crudele poesia dei versi di Kobayashi Issa (小林一茶, 1763–1828), l’orrore nei confronti di una bellezza corrotta dal male e dagli istinti. Si avverte una riflessione altra, un pensiero per un Paese che fonda la sua cultura su un’estetica squisita, di impalpabile grazia, ma cova un destino di violenza antropologica. La foresta di ciliegi in fiore osserva il male dell’uomo e lo investe del suo potere e del suo monito: la dissoluzione, con i corpi dei due amanti fagocitati in un nulla che diviene petalo soffiato dal vento.
Così come Shinoda, anche Kiyoshi Kurosawa in Charisma o Ryūsuke Hamaguchi in Il male non esiste ci raccontano di una natura aliena e gelida, dotata di un proprio “istinto” e sprezzante delle macabre miserie umane.
DEMON POND (Yasha-ga-ike, 1979)
L’insegnante Yamasawa si reca in un villaggio colpito dalla siccità alla ricerca dell’amico scomparso Hagiwara. Scopre che questi si nasconde lì e ha sposato Yuri, un’affascinante donna locale il cui destino è intrecciato con la campana del villaggio. La leggenda vuole che la campana debba essere suonata tre volte al giorno, altrimenti il Demone Drago si libererà.
Regista di punta della Nūberu bāgu, la “nuova onda” rivoluzionaria degli anni ’60, Masahiro Shinoda è ancora molto attivo negli anni ’70, un periodo fertile per la sua ispirazione fuori dal comune. Studioso di teatro classico, attratto dagli stilemi del teatro Kabuki (che così spesso ha incrociato le proprie forme con quelle cinematografiche), il regista porta a compimento, con Demon Pond, una sintesi tra la sua naturale e irriducibile propensione a un cinema “futuro” e la fascinazione nei confronti di miti e leggende tradizionali.
Tratto dall’omonima piéce di Kyōka Izumi (1913), Demon Pond allo stesso tempo esalta e nega la sua origine teatrale: Shinoda ricostruisce boschi, fiori e paesaggi in studio, mentre i cromatismi e l’uso della luce, profondamente anti-naturalistici, concorrono alla creazione di un contesto stilizzato in cui gli attori lavorano sulla gestualità rituale del corpo. Rispettando i severi dettami del Kabuki, Shinoda affida a Bandō Tamasaburō V, tra i più celebri e venerati onnagata (attore kabuki specializzato in personaggi femminili) il ruolo di Yuri/Principessa Sharayuki; e aderisce con serietà allo spirito dell’opera originale, dando vita a un dramma magico e suggestivo, al contempo raffinatissimo e popolare. Scenografie variopinte fanno da sfondo a conflitti di personaggi dal segno emotivo opposto, abbigliati in costumi tradizionali e fantastici; su tutti, trionfa la carismatica presenza di Bandō, nei cui gesti si realizza l’enigma di un femminile idealizzato e spirituale. Demone/donna di grazia irraggiungibile, l’attore materializza carnalmente i volti dipinti dall’arte Ukiyo-e; la macchina da presa lo accarezza delicatamente in primissimi piani soffusi di luce, quasi si accostasse a un mistero divino.
Ma se la messa in scena di Demon Pond è una resa alla bellezza dell’archetipo teatrale, ai suoi fondali dipinti, a uno spazio astratto di intensa sensorialità (ricco di colori, materiali, profumi, elementi primari), la regia cinematografica di Shinoda interviene a scomporne la classicità, all’insegna di una nuova esperienza percettiva.
Con una lucida operazione di distanziamento dai codici, Shinoda spezza la struttura tradizionale e interferisce con soggettive, campi lunghissimi alternati a primi piani, e soprattutto un montaggio irregolare e anti-armonico. I personaggi maschili appaiono sghembi, irrisolti, animati da una modernità che li confonde e li spinge ai margini del “fantastico”, quel regno dell’estraneo e del fiabesco in cui la figura umana è un corpo estraneo. Il bosco, animista e carico di presenze sfuggenti, è folcloristico e “falso” alla maniera di Kinoshita (evidenti i richiami alla messa in scena de La Ballata di Narayama, 1958, con i suoi paesaggi saturi); ma Shinoda esercita uno sperimentalismo profondamente diverso dalla passione di Kinoshita per le possibilità del mezzo-cinema, rivelando un occhio più severo, politico nel rielaborare il passato.
La brutalità dei suoi zoom, la consapevole contrapposizione tra l’immagine e il suo doppio (il riflesso nell’acqua), l’uso espressivo delle dissolvenze incrociate sembrano separare in modo netto il Giappone contemporaneo dalle sue proiezioni fantastiche e immaginarie. Quando il volto della Principessa Shirayuki sparisce “assorbito” dal tronco dell’albero, o ancor di più nella strabiliante sequenza dell’ascensione, in cui Shinoda mette in atto la più sfrenata visionarietà, lo spettatore diviene partecipe di una riflessione estetica non dissimile da quelle espresse da Toshio Matsumoto o Shūji Terayama (originariamente collaboratore di Shinoda). Il regista sollecita, con le sue immagini multisensoriali e stratificate, una sorta di “risveglio surrealista”: Demon Pond è cinema che taglia, scruta, sfiora la materia viva della leggenda, giungendo a interrogarsi su un presente privato del conforto dell’epica.
[Marcella Leonardi è critica cinematografica e docente. Da sempre appassionata di cinema, ha collaborato con varie testate tra cui Sonatine, Cinefilia Ritrovata, Nocturno e Otto e mezzo. Da alcuni anni si dedica prevalentemente al cinema giapponese.]
Anime Cult Speciale sulle Locandine degli Anime
L'articolo è tratto dal sito corriereNERD
Nel mondo dell’animazione giapponese, l’arte delle locandine ha sempre avuto un ruolo fondamentale nel catturare l’essenza di un film e nel renderlo indimenticabile per i fan. A febbraio 2025, Sprea Edizioni celebra questa tradizione con l’uscita del quinto volume della collana Anime Cult Special, un’edizione che promette di entusiasmare i collezionisti e gli appassionati di anime. Il nuovo volume è interamente dedicato alle “Locandine degli Anime”, raccogliendo quasi 50 locandine originali a grandezza naturale, pronte per essere staccate, incorniciate e conservate.
Questo volume si distingue non solo per la qualità della proposta, ma anche per la varietà e l’importanza delle opere che raccoglie. Tra le locandine, infatti, non mancano i capolavori di Hayao Miyazaki, come Il mio vicino Totoro e La città incantata, che sono diventati veri e propri simboli della cultura popolare giapponese. Accanto a questi, ci sono anche i grandi classici di Leiji Matsumoto, come Capitan Harlock e Galaxy Express 999, che hanno segnato un’epoca e influenzato generazioni di appassionati.
Ma cosa rende questo volume così speciale? Innanzitutto, le locandine presenti non sono semplici riproduzioni, ma veri e propri chirashi a grandezza naturale. I chirashi sono dei piccoli poster distribuiti gratuitamente durante le campagne promozionali dei film o agli eventi, e rappresentano una forma unica di arte pubblicitaria. Questi piccoli gioielli, che spesso riproducono l’immagine del poster del film sul lato anteriore e contengono informazioni varie sul retro, sono una parte fondamentale della cultura giapponese. La loro dimensione ridotta e il loro carattere effimero li hanno resi oggetti da collezione molto ricercati, e il volume di Sprea Edizioni offre ai lettori l’opportunità di ammirarli nella loro forma originale, a grandezza naturale.
La scelta di celebrare le locandine di anime non è casuale: queste opere d’arte hanno avuto un impatto significativo nel definire l’immaginario collettivo legato agli anime. Ogni locandina racconta una storia visiva che, pur nella sua immediatezza, racchiude tutta la magia, l’emozione e la potenza visiva che caratterizzano i film d’animazione giapponesi. Non è solo un oggetto da appendere alla parete, ma una finestra su un mondo ricco di emozioni e di estetica senza tempo.
Questa edizione speciale è disponibile sia in formato cartaceo che digitale, offrendo così a tutti gli appassionati, ovunque si trovino, la possibilità di collezionare e apprezzare queste straordinarie locandine. Con il volume che arriva a febbraio 2025, Anime Cult Speciale: Locandine degli Anime si prepara a diventare un must per ogni amante dell’animazione giapponese e per chiunque voglia approfondire la propria passione per l’arte che ha fatto la storia di tanti titoli leggendari.
In definitiva, il quinto volume di Anime Cult Speciale non solo celebra l’arte delle locandine giapponesi, ma porta con sé un pezzo di storia che ogni vero fan non vorrà lasciarsi sfuggire. Con la possibilità di staccare, incorniciare e conservare queste magnifiche opere, questo volume si propone come un tributo all’iconicità che ha reso immortali i titoli anime che amiamo. Non resta che aspettare l’uscita e prepararsi a rivivere la magia delle locandine degli anime!
IL GIOCO DEL DESTINO E DELLA FANTASIA (Gūzen to sōzō, 2021), Ryūsuke Hamaguchi
di Marcella Leonardi
L'articolo è tratto dal blog di cinema giapponese classico e contemporaneo NUBI FLUTTUANTI
Da tre racconti di Ryūsuke Hamaguchi: Magia (o qualcosa di meno rassicurante) - Porta spalancata - Ancora una volta. Il film è in streaming su Raiplay.
Per chi scrive, Il gioco del destino e della fantasia è forse il più bel film di Hamaguchi. Un’opera che instaura un contatto intimo e intenso con lo spettatore, una “specie di magia”, come vuole il titolo del primo episodio; o una “porta spalancata” sull’animo dei personaggi, le cui vicende ed emozioni si ripercuotono sulla nostra esperienza.
Il primo episodio è focalizzato sulla giovane Meiko e sui sentimenti contrastanti nel confronti dell’ ex Kazu, che ora frequenta la sua migliore amica Tsugumi. Durante una corsa in taxi l’ignara Tsugumi racconta a Meiko dell’incontro; ed è meraviglioso come Hamaguchi trasformi un semplice spostamento in automobile in una discesa nel segreto, quasi un’immersione nella psiche. Mentre le due amiche parlano, la strada scorre illuminata nella notte, si addentra in sottopassi, si attorciglia in infiniti percorsi lungo la città. Le luci si riflettono sui volti delle donne e la conversazione diviene rivelazione profonda. Hamaguchi gioca su un’alternanza di “dentro e fuori”: dentro l’auto, fuori nella città-mappa dell’inconscio, ma anche dentro e fuori l’ufficio dove Meiko confronterà Kazu e infine dentro-fuori il bar. Le dimensioni sono separate da vetrate e finestre, in un indefinito di iridescenze e illusioni; il vetro è anche uno schermo dove la vita proietta l’imprevisto.
C’è un misto di irrazionalità ed entomologia che solo il brano di Schumann, che introduce ed intervalla i tre episodi, riesce a sintetizzare con la sua melodia matematica. Sensuale ma nitida, intima e autunnale ma anche chiara e ben scandita, la partitura di Schumann è la controparte musicale dei dialoghi, delle confessioni a due voci, delle pause e degli “andanti” animosi che si scatenano nella mente.
Il secondo episodio è più malinconico: un destino di solitudine per Nao, che accetta di aiutare il suo giovane amante Sasaki tendendo una trappola al professore universitario che lo ha bocciato. “I nostri corpi sono perfettamente compatibili” dice Sasaki per convincerla. Le inquadrature sembrano dargli ragione: i corpi degli amanti si muovono all’unisono, o si allungano in orizzontale in composizioni armoniche, l’uno lo specchio dell’altro, in una mise-en-abyme del desiderio. Ma se con Sasaki l’intesa è fisica, con il professor Segawa sarà la parola a schiudere un’affinità elettiva, una messa a nudo del cuore. Hamaguchi filma la conversazione tra Nao e Segawa modulando in modo incantevole la luce solare che entra dalla finestra. I raggi aumentano o diminuiscono d’intensità, mentre le emozioni vengono inondate di sole, o si nascondono ritrose nell’ombra. È un
momento magnifico e delicato, che contrasta con la pornografia del romanzo del professore, letto da Nao ad alta voce; eppure, sono proprio quelle volgarità “lette con una voce bellissima” ad avere effetto inebriante. La regia del dialogo attinge esplicitamente alla filosofia di Ozu secondo cui “esiste la sensibilità, non la grammatica (del cinema)”: la codifica relativa al raccordo di sguardo viene completamente disattesa. Nao e Segawa dialogano “guardando in macchina” e lo spettatore incrocia in prima persona i loro occhi. La sensazione è di profonda emozione. È raro e bellissimo che un regista si prodighi per condividere con il suo pubblico un momento cruciale: il cinema di Hamaguchi è un privilegio.
L’ultimo episodio è il più magico e tremulo: un gioco che cambia la realtà e la vita stessa. Ciò che accade tra Natsuko e Aya ha del meraviglioso: da un fraintendimento nasce la possibilità di mettere in scena la vita, mutarla, stabilire un nuovo (lieto) fine. In un certo senso i due gentili, timidi personaggi femminili si appropriano del mestiere del regista e inventano per sé un destino, confondendo realtà e finzione. Le attrici Fusako Urabe e Aoba Kawai sono così brave da farci percepire ogni sfumatura, ogni minimo movimento nell’anima delle due donne; si piange e si ride con loro, mentre Hamaguchi le avvicina sempre più. Con stacchi a 180° intreccia le due esistenze, le mette di fronte a uno specchio in cui finalmente è possibile un riconoscimento.
“A volte mi chiedo perché sono qui. Potevo diventare qualsiasi cosa, ma il tempo è volato via prima che me ne accorgessi.”
L’episodio conquista qualcosa di bello e vero – raggiunge un nucleo di verità, lo sfiora appena lasciandolo intatto in tutta la sua bellezza. Ogni essere umano è fragile. Nulla sembra accadere mentre le parole scorrono come un fiume; ma ogni parola, libera e misteriosa, diventa la sostanza impalpabile in cui il mondo interiore si rivela. Le domande dell’esistenza – i “se”, i “forse” – sembrano approdare a una quiete, forse una temporanea soluzione. E la vita, nonostante tutto, è ancora una volta meravigliosa e degna di essere vissuta.
[Marcella Leonardi è critica cinematografica e docente. Da sempre appassionata di cinema, ha collaborato con varie testate tra cui Sonatine, Cinefilia Ritrovata, Nocturno e Otto e mezzo. Da alcuni anni si dedica prevalentemente al cinema giapponese.]
Kagurazaka Saryo, la sala di tè giapponese a Milano per la prima volta in Europa
Kagurazaka Saryo 神楽坂 茶寮, storica sala di tè e bistrot giapponese originaria di Tokyo, apre per la primissima volta in Europa proprio a Milano, a Corso Como 12, zona Garibaldi.
Il brand di caffetteria del gruppo Aya Company ha aperto i battenti per portare qui a Milano la vera gastronomia giapponese tra dolci artigianali e tè pregiati, ma anche piatti come ramen e udon.
Il menù del locale promette l'autenticità dei suoi piatti alla tradizione giapponese: proprio come nelle sue sedi giapponesi, la proposta si focalizza sulla selezione di tè raffinati selezionati dai giardini di Kakegawa nello Shizuoka, come il tè verde sencha, e dessert preparati con matcha proveniente da Uji a Kyoto. I dolci più popolari offerti sono sicuramente l’Hekira Mont Blanc al matcha, preparato esclusivamente al momento con castagne giapponesi e una crema di matcha di alta qualità, e la Coppa di gelato milleveli "Saryō", un parfait al matcha con decorazioni per richiamare l'aspetto dei giardini giapponesi.
Kagurazaka Saryo, oltre alle diverse sedi nel Paese del Sol Levante, ha alcuni locali in paesi esteri come in Canada e Thailandia, ma fino ad ora non in un paese europeo.
La scelta della recente apertura a Milano non è per nulla casuale: "Milano non è solo un faro mondiale per la moda e il design, ma è anche la città dove nascono le innovazioni", afferma Kinya Oguchi, presidente del gruppo Aya Company. "Abbiamo deciso di portare la cucina giapponese autentica in Italia, convinti che il pubblico italiano, con il suo amore per la raffinatezza e la sua lunga tradizione gastronomica, fosse il più adatto ad apprezzarla”.
Il locale ha uno stile tra l'estetica tradizionale giapponese, con elementi d'arredo artigianali e bonsai importati, e design moderno, basandosi del concetto "wa-modern", ovvero "giapponese-moderno"; gli spazi sono stati progettati dall'architetto Katsuya Takeda.
L'insolita estate di Kikujirō
“L’estate di Kikujirō” (Kikujirō no natsu) è una pellicola del 1999 scritta, diretta e interpretata da Kitano Takeshi. In concorso al Festival di Cannes dello stesso anno, il film ha ricevuto diversi premi e riconoscimenti, tra cui il premio come miglior colonna sonora e miglior attrice non protagonista a Kayoko Kishimoto (che interpreta la moglie di Kikujirō, interpretato da Kitano stesso), entrambi conferiti dalla prestigiosa Japanese Academy. Inoltre, il film è stato insignito del premio per il miglior attore per la performance di Kitano e del premio FIPRESCI alla Settimana internazionale di cinema di Valladolid, sempre nel 1999.
La pellicola parla di Masao, un bambino di nove anni che abita a Tōkyō con la nonna, la quale lavora costantemente. Improvvisamente Masao si ritrova solo, senza più allenamenti di calcio a causa della pausa estiva e senza amici, partiti per le vacanze con le relative famiglie. Così, il piccolo decide di andare a cercare la madre, che non ha mai conosciuto e che lavora da anni in un’altra città, della quale ha solo una vecchia foto e un indirizzo. Ad accompagnare il bambino sarà Kikujirō, un amico di famiglia un po’ losco, che si confermerà in seguito essere uno yakuza. Tra un autostop e l’altro, lo strano duo si fa strada tra incontri inaspettati e azioni non sempre pulite per cercare di giungere a destinazione e trovare la madre di Masao.

In questa storia on the road, l’estate è sicuramente un elemento molto presente e caratterizzante, fungendo da motore della trama stessa, essendo il motivo per cui Masao rimane da solo in città. Inoltre, l’ambientazione estiva penetra nella storia amalgamandosi con essa. Gli elementi che rimandano direttamente all’estate sono infatti molteplici e ricorrenti: quando i due protagonisti sono ospiti di un albergo si divertono (o almeno ci provano) in piscina, partecipano a un matsuri e ai giochi tipici dei festival come il tiro a segno e la pesca dei pesci rossi, campeggiano lungo il fiume, giocano a rompere l’anguria, provano a pescare, si arrampicano sulla corda e guardano le stelle.

L’estate è comprensibilmente presente anche nelle campagne che Masao e Kikujirō devono attraversare. Le colture stagionali fanno da sfondo al viaggio, fino a prendere parte alle gag di cui è costellato il film, come accade nel caso delle pannocchie di mais trafugate e rivendute. Una dinamica simile si può trovare anche nella scena in cui i campeggiatori improvvisati giocano a colpire e rompere un’anguria mentre sono bendati, tipica attività da spiaggia. In quest’occasione, lo spettatore si accorge all’ultimo che l’anguria colpita da Masao è invece la testa di uno dei personaggi che, con tutto il corpo interrato sotto la sabbia, indossa la buccia del frutto come se fosse un elmetto protettivo.
La proposta di attività ricreative tipiche estive non è solo dovuta al momento temporale in cui si svolge la storia, ma ha un senso più profondo. La scena del campeggio funge infatti da tentativo degli adulti di sollevare il morale di Masao e tentare di fargli vivere un’esperienza simile, quanto più possibile, alla vacanza estiva che non ha potuto trascorrere con una famiglia biologica come invece possono fare i suoi coetanei.
Il film è un racconto dove, già a partire dal titolo, l’elemento estivo è presente in molte forme e aspetti, tanto da permeare, caratterizzare e influenzare la storia stessa di un’estate insolita ma non per questo meno ricca di emozioni.
Francesca Mora
Il magewappa arriva in Italia
Un altro assaggio di artigianato giapponese a Milano ci è stato offerto da Time & Style, che ha appena ospitato una mostra di oggetti realizzati con la tradizionale tecnica magewappa, la quale prevede la piegatura del legno attraverso il trattamento col vapore acqueo o la bollitura del materiale.
Time & Style è un brand di arredamento giapponese che vanta diversi showroom a Tōkyō, Ōsaka, Amsterdam e Milano, dove vengono esposti i loro prodotti di design. Questi spaziano dai mobili alle stoviglie, dalle lampade ad altri oggetti di uso quotidiano, e sono realizzati incorporando le tecniche di lavorazione tradizionali giapponesi con un gusto moderno, rispettando sempre il materiale utilizzato.
È in questo elegante contesto che è stata allestita la mostra “ODATE MAGEWAPPA Handcrafted Japanese Akita Cedar Objects for Everyday Life”. Prima di arrivare sugli scaffali di Time & Style, gli oggetti esposti si trovavano già in Italia presso l’Università degli Studi di Milano, grazie a una collaborazione con la città di Ōdate, nella prefettura di Akita, luogo d’origine della tecnica magewappa. La città giapponese ha poi voluto continuare l’esposizione, scegliendo gli spazi dello showroom come sede della mostra, che verrà poi ospitata in altre città italiane in un vero e proprio tour culturale, il quale in autunno vedrà come prossima tappa Faenza.
Il legno lavorato con la tecnica magewappa a Ōdate è tradizionalmente quello di cedro, materiale da cui sono stati ricavati tutti gli oggetti in mostra. Il legno, che conferisce all’oggetto il suo tipico aroma, presenta due caratteristiche particolari: curvatura e venature, lineari e sottili, che testimoniano il clima freddo del nord del Giappone. La curvatura, dovuta come anticipato precedentemente dalla lavorazione, viene solitamente fissata con dei ganci durante il processo di essiccazione del materiale per mantenere l’oggetto nella forma desiderata. La tecnica tradizionale prevede l’utilizzo di riso bollito schiacciato, che essendo glutinoso funge da collante, insieme a una cucitura in corteccia di ciliegio. Comprensibilmente, al giorno d’oggi il riso non viene più utilizzato e viene sostituito da un collante più resistente.

La tecnica magewappa veniva inizialmente impiegata per produrre lunchbox o bicchieri per il sakè, ma oggi le applicazioni sono molto varie: si possono creare non solo diversi tipi di contenitori, ma anche vassoi, piatti e portafrutta, dimostrando quanto questa tecnica, antica più di quattrocento anni, abbia ancora molto da dare e dimostrare.


Gli oggetti in mostra derivano da cinque laboratori diversi di magewappa, tutti con base a Ōdate. Questi puntano a mantenere viva la tradizione, non solo producendo oggetti esteticamente belli, ma soprattutto cercando di educare un pubblico sempre più vasto ad apprezzare la ricerca, il materiale, la storia che sta dietro a essi, sia intesa come radici che come tempo impiegato per la realizzazione. Inoltre, i laboratori non solo puntano alla preservazione del magewappa, ma ne indagano nuove e moderne sfaccettature, ad esempio impiegando colorazioni a contrasto con il colore naturale del legno o realizzando pattern sulla sua superficie, gettando le fondamenta per una nuova evoluzione e reinterpretazione del magewappa di Ōdate.

La sopravvivenza dell’artigianato è un problema generale e impellente, che emerge criticamente in tutto il Mondo. Per questo, gli sforzi in atto per contrastare la perdita di know-how e cultura, che stanno alla base di queste tecniche, sono sempre maggiori, come dimostra l’impegno della città di Ōdate nel far conoscere questa sua tradizione unica e preziosissima.
Francesca Mora
Il kakigōri, la granita giapponese simbolo dell’estate
Chi usufruisce dei media giapponesi ha probabilmente già incontrato il kakigōri, uno dei dessert più riconoscibili, soprattutto in estate. Questo dolce viene preparato tritando finemente il ghiaccio temperato che poi viene servito con sciroppi e guarnizioni di diverso genere e gusto.
La parola “kakigōri” significa letteralmente “ghiaccio tritato” e deriva da “bukkakigōri” (“ghiaccio su cui viene versato lo sciroppo”), termine del dialetto di Tōkyō. Ciononostante, il dessert è conosciuto anche con altri nomi, come ad esempio “natsugōri” (“ghiaccio estivo”) o “kōrimizu” (“acqua ghiacciata”). La parola “natsugōri” si può anche scomporre in “na” (7), “tsu” (2) e “go” (5), motivo per cui il 25 luglio è chiamato Kakigōri no Hi, il giorno del kakigōri.
Altre varianti sono ad esempio “karigane”, utilizzata a Okinawa o “kachiwari”, tipica della regione del Kinki. In Hokkaidō spesso si usa anche la parola “shābetto”, derivata da “sorbet”.

Consumare cibi freddi durante le calde estati giapponesi non è però un’esclusiva contemporanea: il kakigōri veniva mangiato ben prima che fossero inventati congelatori e frigoriferi. Si può infatti ritrovare un suo antenato persino nel periodo Heian (794 - 1185). La scrittrice e dama di corte Sei Shōnagon ne fa menzione nel capitolo (dan) 42 del Makura no sōshi (“Note del guanciale”, compilato intorno all’anno Mille), annoverando questo dolce tra le “cose eleganti”.
Il passo è il seguente:
“Cose eleganti. Una bambina che porta una veste bianca su una sottoveste rosa antico. Le uova di oca selvatica. Versare sciroppo di linfa d’edera su ghiaccio tritato e servirlo in una ciotola di metallo nuova. Un rosario buddhista con perle di cristallo. I fiori del glicine. La neve che cade sui fiori di pruno. Un bambino grazioso che mangia ad esempio le fragole.”
In un’epoca dove il solo modo per avere a disposizione il ghiaccio d’estate era quello di riuscire a conservare la neve e il ghiaccio raccolti in inverno, il kakigōri era una rara prelibatezza e poteva essere gustato solamente dagli aristocratici. Probabilmente per questo Sei Shōnagon lo considerava qualcosa di non comune e particolarmente raffinato.
Durante il periodo Edo (1603 - 1868), invece, divenne estremamente popolare. Nei kōriya (“negozi del ghiaccio”) si riusciva a produrre questa importante materia prima, rendendone quindi possibile un consumo su più larga scala. Dal periodo Meiji (1868 - 1912) le tecniche di creazione, conservazione e taglio del ghiaccio si evolvettero ulteriormente, avvicinando di molto il kakigōri dell’epoca al dessert che conosciamo oggi. Bisognerà però aspettare l’inizio del periodo Shōwa (1926 - 1989) affinché il kakigōri cominci a diventare un simbolo dei piaceri estivi delle persone comuni grazie a una diffusione ancora maggiore dei kōriya e a un’offerta di sciroppi più ampia.

Al giorno d’oggi gli sciroppi più comuni sono quelli derivati dalla frutta come quello alla fragola, all’arancia, al melone, ma sono anche diffusi sciroppi più particolari come quello alla cola, all’acqua zuccherata, al matcha, al caffè e persino all’umeshu, un liquore alle prugne. Le varie combinazioni sono comprensibilmente pressocché illimitate, ma vale la pena menzionare le versioni con l’aggiunta di frutta o gelato, con guarnizioni di noccioline, latte condensato o l’“uji-kintoki”, che unisce sciroppo al matcha e marmellata di fagioli rossi (chiamati anche “kintoki”, da qui il nome) come guarnizione finale. Molto popolare è anche la variante “shirokuma” (orso bianco/polare), tipica della prefettura di Kagoshima (l’omonima città che ne fa da “capoluogo” è gemellata con Napoli), nel Kyūshū, che prevede guarnizioni con piccoli mochi, frutta, pasta di fagioli rossi e latte condensato.

Il kakigōri è quindi un dessert dalle radici antiche e facilmente adattabile ai prodotti tipici e ai gusti di ognuno, grazie alle molteplici varianti e combinazioni. Non ci si stupisce che sia quindi riuscito a guadagnarsi un posto speciale tra i cibi preferiti per combattere le calde e umide estati giapponesi.
E voi, avete mai mangiato il kakigōri? Raccontateci la vostra esperienza!
Francesca Mora
LE FORME DELLA POETICA CLASSICA
La poesia tradizionale giapponese si è sviluppata in epoca classica, in forma scritta, orale e cantata, dapprima influenzata dalla poesia cinese ed in seguito esplorando forme inedite, come il Tanka e l’Haiku.
IL TANKA
Nel romito borgo di montagna
ove la candida neve
stende una spessa coltre –
pur in chi vi dimora
si dilegua, forse, il tepore dell’animo.
しらゆきの
ふりてつもれる
山ざとは
住む人さへや
思きゆらむ
Questo è un esempio di Tanka (短歌, letteralmente "poesia breve") ovvero un componimento in versi diffusosi all’incirca nel periodo Nara (710-784 d.C.) e precursore del più famoso Haiku. Si tratta di poesia caratterizzata da una struttura in 5 versi, di metrica 5+7+5+7+7, dove i numeri corrispondono alle sillabe di ogni rigo. I primi tre versi compongono la prima strofa, mentre la seconda contiene gli ultimi due settenari. Ovviamente nella traduzione italiana tale schema si perde, ma nella versione giapponese è possibile ritrovare la suddivisione corretta se si ha dimestichezza con la lettura degli ideogrammi, come nell’esempio di cui sopra.
Le tematiche predilette dai compositori di Tanka sono legate soprattutto allo scorrere del tempo, alla natura e alla caduca bellezza delle cose (il concetto filosofico di Mono no Aware): si insiste sui numerosi parallelismi tra le condizioni stagionali della natura e i mutamenti dell’animo umano, come si può leggere nel componimento riportato ad inizio articolo, dove la spessa coltre di neve invernale raffredda anche i sentimenti degli uomini.
Photo credits: bottegadinazareth.com
L’HAIKU
古池や
蛙飛びこむ
水の音
Vecchio stagno
Una rana si tuffa
Rumore d’acqua
Sicuramente più conosciuto, l’Haiku, abbreviazione dell’espressione haikai no ku (俳諧の句, letteralmente "verso di un poema a carattere scherzoso") è una forma di poesia tradizionale giapponese che ha acquistato l’importanza ancora oggi riconosciutale grazie alla figura di Matsuo Bashō (1644-1694 d.C.), pseudonimo di un illustre poeta e monaco vissuto nel periodo Edo (1603-1868) che fece dell’haiku il suo cavallo di battaglia. Infatti è suo l’haiku preso ad esempio sopra: componimento brevissimo, consta soltanto di 3 versi rispettivamente di 5-7-5 sillabe, per cui risulta criptico ed evocativo. Anche l’Haiku, similmente al Tanka, riprende le sensazioni di cui il poeta fa esperienza nel suo esercizio di contemplazione della natura, proponendo una visione del mondo in cui uomo e natura sono in continuo e simbiotico divenire.
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Testo di Martina Condello, martinacondello.cm@gmail.com