Uno sguardo al primo Japan Film Festival Online

Organizzato dalla Japan Foundation in collaborazione con le varie sedi estere, tra cui l’Istituto Giapponese di Cultura in Roma è stato presentato in 20 paesi del mondo il primo festival di cinema giapponese online: il Japan Film Festival Plus.

Il JFF è stato ideato per promuovere il cinema giapponese nel mondo e faceva parte di un progetto, “Japanese Film Anytime, Anywhere”, inizialmente avviato nel 2016 in alcuni paesi asiatici e in Australia, per poi raggiungere progressivamente Cina, Russia e India, con l’intento di presentare le più recenti uscite cinematografiche giapponesi.

Nel 2019/20 è stato proposto in 56 città di 12 diversi paesi, registrando oltre 170.000 spettatori.

Quest’anno, dovendo far fronte all’emergenza sanitaria globale, la Japan Foundation ne ha promosso una versione online, definita Plus, per una condivisione in streaming dell’evento in ben cinque continenti.

La versione “Plus” è stata una raccolta di contenuti di vario genere, tra cui lungometraggi, video-interviste ai registi, articoli di approfondimento e corti d’animazione, poi trasmessi sulla piattaforma del festival dal 26 febbraio al 7 marzo.

I 30 titoli, che spaziavano dal thriller alla commedia, dagli anni ’50 alle ultime uscite, erano disponibili in streaming gratuito previa registrazione per un tempo limitato di 24 ore da quella di proiezione, scaglionata in tre turni mattutini: 9.00/11.00/13.00. Una volta scaduto il tempo di visione, si rendevano disponibili i film successivi, con una media di tre al giorno.

Numerose sono state le tematiche trattate, sia proprie della cultura e della società giapponesi sia riflessioni di carattere universale, ad esempio l’amore, in tutte le sue forme.

Una menzione particolare meritano i cortometraggi in Stop Motion di Yashiro Takeshi, un professionista di questa tecnica di animazione, che hanno ritratto le avventure di Norman e il suo pupazzo di neve e di una piccola e generosa volpe di nome Kon.

Una bellissima iniziativa, insomma, che ha attirato l’attenzione di curiosi e interessati, ma se ve la siete persa, non vi resta che aspettare l’anno prossimo!

 

Amanda De Luca


INFINITO: Yayoi Kusama e Infinity Mirrored Room Filled with the Brilliance of Life

Il secondo articolo della serie “La percezione dello spazio nella visione degli artisti giapponesi contemporanei” si affaccia sull’opera di una donna che certo non occorre presentare. Sono molti i motivi che attraversano la produzione di Yayoi Kusama, che si esplicita in differenti forme d’arte che vanno dalla pittura alla scultura, agli happenings e le installazioni. Serie e ripetizioni, accumulazione, forme, obliterazione, minimalismo e surrealismo, colore e non solo. Non basterebbe un singolo articolo per tentare di mettere in luce tutte le sfaccettature dell’arte di Yayoi: una personalità forte,  che prende spesso parte alle sue stesse opere, facendosi ritrarre con esse o in modo che evolvano in performaces. L’aspetto su cui ci si soffermerà in questo contesto è quello dell’infinito. Il lavoro di ricerca sulla raffigurazione dell’infinito accompagna Kusama lungo tutto il suo percorso artistico. Dalla rappresentazione dei polka-dot, all’accumulazione delle forme, ai dipinti delle Infinity Net, Yayoi approda nella sua produzione più recente alla realizzazione di veri e propri ambienti ispirati a questa caratteristica.

Infinity Mirrored Room – Filled with the Brilliance of Life fa dunque parte della produzione tarda di Kusama, datato 2011. È una delle installazioni di maggiori dimensioni di questo genere (circa 3 × 6 × 6 m) che venne prodotta in occasione della mostra retrospettiva “Yayoi Kusama” in tre esemplari per i musei di Reina Sofia, Centre Pompidou e Tate Modern. Tra le opere dell’artista l’utilizzo di superfici a specchio ebbe dei precedenti: Infinity Mirror Room – Phalli’s Field (1965) e Kusama’s Peep Show – Endless Love Show (1966). Queste installazioni si collocano in un differente periodo della sua produzione, e prendono in considerazione maggiormente anche il tema della sessualità. In Kusama's Peep Show – Endless Love Show è interessante osservare il modo in cui lo spettatore è a contatto con l’opera: invece di una iniziale completa immersione nell'ambiente, lo sguardo viene guidato da due piccole finestre nelle pareti, da dove è possibile affacciarsi per assistere allo spettacolo di luci nella piccola stanza esagonale.

L’opera del 2011 è invece immersiva: lo spettatore che si ritrovi chiuso in questa stanza potrà perdersi nei giochi di luci e oscurità che i LED e gli specchi creano intorno a chi guarda. Essa consiste in un ambiente in cui ogni parete è ricoperta da specchi, compreso il pavimento, dove si trova una passerella. Intorno a questa passerella è presente dell’acqua, al modo che possa sembrare di guadare un fiume. Nella stanza sono appesi centinaia di LED che presentano diverse configurazioni di luce, in modo da creare effetti particolari in relazione al buio della stanza. Tutta questa struttura è atta a costituire un ambiente apparentemente infinito, attraverso i riflessi delle luci dello stesso ambiente negli specchi e nell’acqua. Lo spazio a disposizione è allora moltiplicato attraverso l'uso dei materiali e dalla composizione dell’opera, così che una piccola stanza possa essere una possibile finestra su uno spazio senza fine.

Gli specchi e l’acqua hanno molto in comune: sono due “vuoti”, accolgono ciò che sta intorno. Riflettono, moltiplicano, alterano lo spazio reale aprendo lo sguardo a uno spazio di immaginazione, in cui ci si ritrova persi in un luogo senza punti di riferimento, dove anche la percezione del soggetto come distaccato dall’opera viene meno. Nel buio della stanza si perde l'intuizione del proprio corpo come indipendente dal resto: anch’esso viene riflesso, anch’esso si disperde nell’infinito entrando in relazione con l’opera, che non è più solo un oggetto esterno, ma interagisce con noi, come noi interagiamo con essa. Qui si può sentire quella «brilliance» della vita che anima la stanza, rappresentata dai LED: lo scintillare di momenti, che si accendono e spengono, che si moltiplicano, emergono dal buio.

In differenti interviste Kusama testimonia come il suo interesse verso l’individualità sia da sempre intrinsecamente legato a un interesse per questa in relazione: con l’opera, con il mondo, con la società e gli altri individui. Jo Applin, studiosa di storia dell’arte contemporanea e docente all’Università di New York, mette in evidenza come la raffigurazione dell’infinito sia parte di quel viaggio che Yayoi compie nel senso della obliterazione del sé, e dunque della relazione all’altro, agli individui e all’ambiente. Dunque, il modo di espressione personale della stessa Yayoi naufraga e allo stesso tempo prende vita in una specifica concezione del rapporto tra artista e opera: non qualcosa da osservare o solo ammirare, ma un ambiente in cui vivere e perdersi, in cui comprendere la propria relazione con il resto. Ambiente in cui la nostra immaginazione, le nostre fantasie, ma anche ossessioni, allucinazioni, possono prendere vita.

L’infinito è rappresentato attraverso accorgimenti che moltiplicano lo spazio, fanno perdere allo spettatore il senso dell’orientamento e lo invitano a percepirsi in relazione a ciò che lo circonda, a considerarsi una parte di questo infinito. È uno spazio di immaginazione: vuoto, accoglie ciò che si trova nei suoi pressi e concede lo spazio alla creatività, lascia che la mente e i sensi vaghino senza posa.

 

Fonti sull'opera: https://www.tate.org.uk/art/artworks/kusama-infinity-mirrored-room-filled-with-the-brilliance-of-life-t15206

 

a cura di Susanna Legnani


Il giardino del Tenryū-ji: la tecnica dello shakkei

L’epoca Muromachi (1336-1573) fu un periodo di fioritura delle arti legate alle pratiche zen, sviluppo delle quali venne patrocinato in particolare dagli shōgun del clan Ashikaga.

Le arti che subiscono l’influenza o addirittura nascono come pratiche zen sono caratterizzate da un’attenzione particolare per il contesto naturale e per gli elementi della natura in genere, nei quali viene colta la relazione profonda con l’uomo. Tra queste arti emergono la cerimonia del tè, l’ikebana e anche l’arte della composizione di giardini. Quest’ultimo tipo di arte è particolarmente importante poiché influenza la strutturazione stessa degli spazi del quotidiano nella vita dei giapponesi.

Una forma interessante di architettura di giardini è quella che viene chiamata shakkei, proprio perché attraverso questo tipo di struttura è possibile osservare quel rapporto particolare tra costruzione ed elementi naturali. Il giardino del Tenryū-ji è una delle forme più compiute, note e studiate di shakkei, termine che viene solitamente tradotto come “paesaggio in prestito” e che fa riferimento a una specifica tecnica di composizione. Questa tecnica consiste nel tentare di incorporare il paesaggio circostante, al modo che giardino e natura si trovino in continuità. Tutto ciò viene realizzato attraverso una disposizione particolare di alcuni elementi. Nel caso specifico del giardino del Tenryū-ji, il paesaggio preso in prestito è quello delle colline di Arashiyama e Kameyama. Queste colline completano la disposizione degli elementi del luogo, progettato dal monaco buddhista Musō Soseki.

Guardando il paesaggio dall’Hojō, ovvero le antiche abitazioni dei monaci nel tempio, è possibile osservare una prima parte del giardino composta da ghiaia, un laghetto con pietre di diverse dimensioni, sullo sfondo poi gruppi di piante che indirizzano lo sguardo direttamente sulle colline retrostanti. Lo spazio così è illusoriamente dilatato, e non si percepisce più la differenza tra interno ed esterno. Gli studiosi paragonano l’osservazione di questo tipo di paesaggio all’esperienza che si fa nel momento in cui ci si trova davanti a un dipinto: essi spiegano come esso non si attraversi tanto con il corpo, quanto con lo sguardo.

In particolare, lo studioso di architettura Teiji Itō scrive molto a proposito delle tecniche di composizione dei giardini, e analizza il sito del Tenryū-ji mettendo in evidenza questa relazione di interno ed esterno, in uno spazio dilatato e continuo. Soffermandosi a parlare di shakkei egli fa notare come la traduzione “paesaggio in prestito” non sia la migliore per veicolare il significato di ciò che accade nella strutturazione di questo tipo di giardino, ma crede sia meglio parlare di paesaggio «captured alive».

«Captured alive» è un’espressione che evoca contrasti. A volerla tradurre si potrebbe dire che la tecnica del paesaggio in prestito è operata attraverso un luogo di sfondo che è “catturato vivo”, dove il gesto del “catturare” non è però sinonimo di ingabbiare, ma fa pensare più che altro al gesto di chi scatta una fotografia. Il paesaggio in questo caso non è un ornamento, non ha una funzione decorativa, rimane vivo, «alive». La natura che pervade i giardini giapponesi è una natura viva, che è soggetta al mutare del tempo e delle stagioni. I cambiamenti che accadono nella struttura fanno parte della bellezza di questa: quando le foglie mutano il loro colore in autunno, quando un uccello fa il nido su un albero, quando il legno del tempio invecchia. Tutto ciò fa parte della bellezza di questo giardino, ed è allora come osservare un dipinto in movimento.

Questo modo di pensare l’arte è profondamente connesso al rapporto dei giapponesi con la natura, rapporto che trova parte delle sue radici non solo nello shintoismo, ma anche nella tradizione buddhista zen. Alcuni elementi naturali possiedono un’aura di sacralità poiché possono essere luogo in cui risiedono i kami, allo stesso tempo le dottrine buddhiste ricordano la relazione di tutte le cose tra loro, dunque anche tra uomini e natura. Quest'ultima comincia sin dall’antichità ad assumere una bellezza particolare (soprattutto a partire dal periodo Heian), e allo stesso tempo ciò che è bello viene chiamato naturale, attraverso la denominazione di shizen. È questo che nello shakkei spinge il costruttore a non separare il giardino dal paesaggio circostante, e che lo porta a poche modifiche dello stesso paesaggio: gli elementi di questo vengono piuttosto valorizzati nel loro contesto.

 

Fonti:

Teiji Ito, Space and Illusion in the Japanese Garden

 

a cura di Susanna Legnani


RELAZIONE: Tadao Ando e Water Temple

Per il primo articolo della serie “La percezione dello spazio nella visione degli artisti giapponesi contemporanei” si prenderà in considerazione un edificio di culto, luogo che presenta particolarità molto interessanti e che fa emergere nello specifico una caratteristica che è possibile riscontrare in molte altre architetture in Giappone.

Water Temple è un’opera molto conosciuta di Tadao Ando ed è un tempio buddhista Shingon, collocato sull’isola di Awaji e chiamato anche Honpukuji. L’isola di Awaji si affaccia sulla baia di Osaka, e si trova a una/due ore di distanza dalla città stessa. Viene completato nel 1991, posizionato in un contesto extraurbano e attorniato da colline e spazi verdi. Non è certo un classico tempio giapponese, o almeno non apparentemente: la costruzione in cemento che lo accoglie nulla ha a che vedere con le antiche architetture in legno con pagode che spesso accostiamo ai luoghi sacri del buddhismo. Eppure, la sua costruzione prende forma – forse implicitamente –  anche dagli insegnamenti buddhisti, e si colloca nel verde, proprio come accade per i templi antichi, sempre provvisti di un giardino o immersi nella natura.

Honpukuji viene considerato da alcuni come esso stesso un tipo di giardino acquatico, proprio perché accoglie sulla sua superficie una vasca in cemento contenente acqua e fiori di loto (simbolo di illuminazione nel buddhismo). Al di sotto, nel cuore del terreno, ospita il vero e proprio luogo di culto. Dunque, una specie di giardino, che è già struttura architettonica, il quale custodisce in sé il tempio.

Vediamo dunque com’è strutturata quest’architettura: perché si è parlato di “relazione” come una delle caratteristiche di questo luogo?

Avvicinandosi alla piccola collina che ospita il complesso, incontriamo per prima cosa delle pareti in cemento, che dobbiamo costeggiare per giungere alla vasca ovale. Questa vasca, seppur posta in una zona rialzata, ci appare probabilmente come uno spazio concavo rispetto a ciò che ci circonda: tutt’intorno si è circondati da alture, verde che si riflette nell’acqua della vasca. Nonostante dunque questa sia costruita in cemento e rappresenti un perfetto ovale, si pone in relazione con gli elementi che la circondano e con il territorio. E cosa significa relazione in questo contesto? Non due poli indipendenti che interagiscono ma, anche seguendo gli insegnamenti buddhisti, due realtà interdipendenti, che hanno da sempre bisogno l’una dell’altra e non sussisterebbero l’una senza l’altra. La vasca accoglie nel suo riflesso il paesaggio circostante e custodisce il tempio nel cuore della sua struttura. È una tipicità dei progetti di Ando il cercare di utilizzare i livelli sotterranei, moltiplicando di fatto lo spazio e disposizione senza dislocarlo su una maggiore superficie. La vasca è attraversata in parte da una striscia geometrica, rettangolare, che con una scala invita il visitatore a discendere, dalla luce all’oscurità. Come a dire: è qui, nel buio e mistero della terra, nelle profondità della natura, che il sacro risiede.

Da un apparente momento nell’oscurità si è invitati nuovamente a costeggiare delle mura, dove l’atmosfera si tinge di colore rosso, fino ad arrivare al centro del luogo sacro: un luogo di culto dove è presente una statua di Buddha, e uno scorcio di luce naturale che proviene da dietro di essa, creando nell’ambiente diverse sfumature di colore rosso.

Questa caratteristica che si è individuata, la "relazione", conduce dunque nella progettazione architettonica a una maggiore considerazione degli spazi esterni, in connessione profonda con quelli interni. Le due realtà non appariranno così giustapposte, ma in una situazione di non indifferenza l'una all'altra: non importa se esse siano in un rapporto di armonia o contrasto, l'importante qui è la relazione dinamica che intercorre tra le due. Questa relazione emerge proprio per il fatto che nella costruzione non vi è stata indifferenza nei confronti del luogo prescelto, ma piuttosto un profondo studio del sito e di tutte le sue caratteristiche (culturali, storiche, sociali, strutturali). Tutto ciò si esplicita in un rispetto non solo dell'ambiente, ma anche del territorio in quanto possiede alcuni attributi specifici. La relazione tra edificio e paesaggio circostante è ciò che rende gli spazi fluidi: percepiamo passaggi graduali tra interni ed esterni e non divisioni nette. Spazio interno ed esterno si compenetrano: la sensazione di essere chiusi in una struttura è quasi assente, persino sottoterra, dove penetra la luce. Così l'edificio geometrico e di pesante cemento si fa leggero, e si apre al paesaggio e agli elementi naturali che qui sopraggiungono. Emblematico è l'uso dell'acqua: elemento in continuo movimento e cambiamento, di cui la vasca in cemento è la sponda, è specchio per ciò che vi è intorno. Moltiplica all'infinito e frammenta la visione del paesaggio, rendendolo un'immagine transitoria. Infine, il fatto di pensare la struttura su diversi livelli - sempre in relazione tra loro - è qualcosa che aiuta a moltiplicare lo spazio e disposizione. Così, anche una superficie all'apparenza più modesta sarà in grado di espandersi, sfruttando la naturale collocazione del luogo. 

Fonti:

https://www.archiweb.cz/en/b/vodni-chram-shingonshu-honpukuji

a cura di Susanna Legnani


Il giorno della Fondazione in Giappone

L’11 febbraio in Giappone si celebra il Giorno della Fondazione (Kenkoku kinen no hi): una ricorrenza nazionale che commemora la creazione della Nazione nel 660 a. C da parte dell’imperatore Jinmu, figura al confine tra mito e realtà.

Secondo il Kojiki e il Nihon-Shoki, antichi testi sulla storia giapponese, Jinmu sarebbe, infatti, diretto discendente della dea del sole Amaterasu, la quale avrebbe inviato sulla Terra quelle che ancora oggi sono considerate le tre insegne del potere imperiale: lo specchio sacro (yata no kagami), la spada del paradiso (kusanagi) e la gemma della dea (yasanaki no magatama), che rappresentano la saggezza, il valore e la benevolenza.

Tali testimonianze hanno avuto la funzione, oltre che di raccontare la mitologia e gli accadimenti storici giapponesi, di legittimare la famiglia imperiale e di riconoscere la figura dell’imperatore come tennō, sovrano celeste, considerato a tutti gli effetti una divinità.

Nonostante fosse celebrato da sempre, il Kenkoku kinen no hi, è divenuta una festività ufficiale solo nel 1873, con l’introduzione del calendario gregoriano durante il periodo Meiji.

Dopo la Seconda guerra mondiale e l’occupazione degli Stati Uniti sul suolo giapponese, la festa fu abolita e contemporaneamente venne promossa una campagna di “umanizzazione” della figura dell’Imperatore.

Ad oggi, infatti, egli non possiede alcun potere, ma il suo ruolo rimane altamente simbolico per la Nazione giapponese, rappresentando l’unità del suo popolo.

Il giorno della fondazione fu ristabilito nel 1966, ma con un diverso spirito celebrativo.

In questa nuova versione i riferimenti espliciti all’Imperatore e al patriottismo sono stati parzialmente rimossi, mentre si cerca di porre l’attenzione sul significato di essere cittadini giapponesi.

I festeggiamenti consistono nello sfoggio di bandiere con il simbolo del Giappone (hi no maru), parate, rituali shintoisti, fuochi d’artificio e discorsi e saluti da parte di diverse figure politiche, tra cui anche l’Imperatore.

 

Amanda De Luca


Roma-Tokyo 1920: il raid in due album a colori

A quasi un anno dal centenario del primo raid aereo Roma-Tokyo, il giornale giapponese Tokyo Shimbun dedica un articolo in prima pagina sul numero del 26 Gennaio a un progetto tutto particolare. È il 1920 quando il tenente Aurturo Ferrarin e altri piloti compiono, in diverse tappe, un raid aereo dalla capitale italiana a quella giapponese. Solo pochi uomini giungeranno alla meta finale, tra cui anche Ferrarin, e riceveranno una grande accoglienza con festeggiamenti da parte del popolo giapponese. Evento che segnò un punto importante nella volontà di creare relazioni tra i due stati, venne ricordato in particolare da una serie di disegni di bambini di Tokyo che a quel tempo cercarono di ritrarre questa fenomenale impresa, e che vennero poi conservati in due album che Ferrarin riportò in patria.

Le opere di questi bambini sono state raccolte e sono consultabili oggi sul sito-album https://kinencho1920.com curato dall’artista Satoshi Dobara, in collaborazione con la Famiglia Ferrarin, l’Aeronautica militare Italiana, la Fondazione Italia Giappone, il Comune di Thiene, l’Istituto italiano di cultura a Tokyo, e l’Iwai Medical Foundation. 

Ma vediamo più nel dettaglio la storia di questa impresa eccezionale, di come venne dipinta nell’immaginazione dei bambini, i quali produssero disegni che oggi – grazie al progetto kinencho1920 – sono facilmente consultabili da chiunque desideri viaggiare con la fantasia a quel tempo.

 

ROMA-TOKYO, 1920

Il raid fu pensato e immaginato in prima istanza da Gabriele D’annunzio, ma venne successivamente realizzato da un gruppo di aviatori. Il progetto di volo consisteva in 29 tappe con partenza da Roma e destinazione finale Tokyo, da svolgersi nell’arco di alcuni mesi, e fu sostenuto da entrambi i governi, giapponese e italiano.

Partirono da Roma 11 aerei e 22 persone, ma solo il tenente Ferrarin e altri tre uomini arrivarono alla meta. I mezzi dei tempi non erano del tutto adeguati per affrontare un raid del genere, infatti si parlava di effettuare un viaggio di quasi 18.000 km con biplani S.V.A, aerei rudimentali in legno e metallo. Molti dei piloti che intrapresero il volo si videro costretti a rinunciare, a causa di guasti o incidenti. Il tenente Arturo Ferrarin, originario di Thiene, il suo motorista Cappannini e il pilota Masiero con il suo motorista Maretto (che tuttavia non arrivarono in Giappone con il mezzo iniziale, ma dovettero sostituirlo) furono gli uomini che riuscirono a portare a termine questo viaggio.

Il 31 maggio 1920 gli aviatori italiani vengono accolti in Giappone con moltissimo entusiasmo, tanto che viene dichiarata Festa Nazionale e le celebrazioni continuano per circa quaranta giorni.

Ferrarin e gli altri piloti ricevono diversi doni e onorificenze, e vengono anche invitati al cospetto della Imperatrice Teimei, moglie dell’Imperatore Taisho. Il tenente documenta questo incontro nel suo libro “Voli per il mondo”, dove rievoca il colloquio avuto con l’Imperatrice e parla in particolare di due album di disegni prodotti da bambini giapponesi e donatigli in quell’occasione.

 

I DISEGNI DEI BAMBINI DI TOKYO

In occasione del raid Roma-Tokyo, e nella prospettiva dell’arrivo dei piloti dall’Italia, l’Imperatrice del Giappone chiese ai bambini (di età tra i 7 e 15 anni) delle scuole di Tokyo di preparare dei disegni di quell’incredibile impresa che si sarebbe compiuta. Di tutti i moltissimi disegni prodotti ne furono scelti 166, e vennero raccolti in due album che l’Imperatrice consegnò a Ferrarin come regalo per lo stato italiano, chiedendo che venissero consegnati alla famiglia reale. In realtà, gli album rimasero inizialmente al tenente, e successivamente presero due strade differenti. Uno di questi rimase agli eredi della famiglia Ferrarin, mentre l’altro venne conservato nel Museo Storico dell’Areonautica Militare di Vigna di Valle.

I disegni negli album sono di una stupefacente bellezza, anche considerando la giovane età di chi li produsse: tutti di diversi generi, a colori o con pittura nera, avevano in comune il sogno del volo e il legame tra il popolo italiano e quello giapponese. Il volo compiuto non fu solamente fisico allora, ma fu anche quello dell’immaginazione di molti bambini che aspettavano con impazienza e gioia questo evento. I disegni testimoniano le non scontate capacità artistiche di quei ragazzi, ma anche la volontà di conoscenza, tra popoli e dell’ignoto. Tra questi disegni vi furono anche quelli di alcune personalità che divennero in seguito conosciute, come Tanaka Isson (pittore), Junzo Yoshimura (architetto) e Hirotsugu Inanami (ufficiale e atleta).

 

KINENCHO1920 E SATOSHI DOBARA

Satoshi Dobara, artista giapponese con un passato di studi a Kyoto e Firenze, è una delle persone che si sono occupate della ricerca e valorizzazione di questi album, dando vita a un interessante progetto.

Dobara, amante della cultura e arte italiana, ritrae in una serie di suoi dipinti proprio dei biplani S.V.A, che sorvolano paesaggi dell’Italia e del Giappone. Tinte e atmosfere oniriche, colori delicati e semplicità del tratto rievocano quel mondo di immaginazione in cui anche ciò che sembra impossibile diviene realizzabile. L’artista, molto legato alla vicenda del raid Roma-Tokyo, è colui che per primo sviluppa un interesse nella ricerca dei due album, e ha anche occasione di conoscere la famiglia Ferrarin e molti degli eredi dei bambini che disegnarono e sognarono l’impresa.

Kinencho è un progetto curato dall’artista e da altre istituzioni, e si propone come un sito-album dove poter ammirare i disegni di quei bambini e comprendere la storia del raid del 1920 e il suo significato per i popoli che ne ebbero testimonianza. I disegni, in particolare, sono catalogati con nome del bambino, età e nome della scuola frequentata.

Lo scopo del sito non è solo, dunque, quello di illustrare questa splendida storia e avventura, ma anche comprenderne il suo significato, attraverso gli occhi dei bambini del tempo. Inoltre, un altro obiettivo del progetto è quello di «riallacciare i rapporti tra gli autori degli Album ed i loro discendenti per riscoprire le loro storie familiari», come riporta lo stesso sito «vogliamo riportare alla luce questo pezzo di storia e non perderlo mai più».

 

 

Fonti

https://kinencho1920.com/content/about-it.php

http://www.satoshi-dobara.com/index.html

https://www.tokyo-np.co.jp/amp/article/81974

 

 

Susanna Legnani


COSA TROVARE NEL NUOVO NUMERO DI PAGINE ZEN!

Esce il nuovo numero di Pagine Zen! Ecco gli approfondimenti che troverete nel n. 123

- Taiko Monogatari
Storie di costruzione
di Chiara Codetta Raiteri 
Con approfondimento al link:
https://temizen.zenworld.eu/paginezen/approfondimenti/taiko-monogatari-storie-di-costruzione

- 清風徐来
La fresca brezza arriva lentamente
Calligrafia di Bruno Riva 

- Kokeshi
Il Tōhoku fra tradizione e design
Recensione di Anna Lisa Somma
Con approfondimento al link:
https://temizen.zenworld.eu/paginezen/approfondimenti/kokeshi-il-tohoku-fra-tradizione-e-design

- Kuki Shuzō: Iki
o l'estetica della singolarità
di Laura Ricca
Con approfondimento al link:
https://temizen.zenworld.eu/paginezen/approfondimenti/kuki-shuzo-iki-o-l-estetica-della-singolarita

- Dalla necessità alla bellezza
Un'indagine su “Mottainai” (2^ parte)
di Rossella Marangoni
Con approfondimento al link:
https://temizen.zenworld.eu/paginezen/approfondimenti/dalla-necessita-alla-bellezza-un-indagine-su-mottainai-seconda-parte

- Tra antenati e legami perduti
Incontri con le itako del Tōhoku (1^ parte)
di Marianna Zanetta
Con approfondimento al link:
https://temizen.zenworld.eu/paginezen/approfondimenti/tra-antenati-e-legami-perduti-incontri-con-le-itako-del-tohoku-prima-parte

- Scorci di Kyōto
Tre opere inedite di Hōen nella collezione del Museo d'Arte Orientale di Venezia
di Francesca Storti
Con approfondimento al link:
https://temizen.zenworld.eu/paginezen/approfondimenti/scorci-di-kyoto-tre-opere-inedite-di-hoen-nella-collezione-del-museo-d-arte-orientale-di-venezia

- Il tavolo del letterato cinese (2^ e ultima parte)
di Carla Gaggianesi
Con approfondimento al link:
https://temizen.zenworld.eu/paginezen/approfondimenti/il-tavolo-del-letterato-cinese-seconda-parte

 - L'influenza del teatro Kabuki sull'Ukiyo-e
di Paolo Linetti 
Con approfondimento al link:
https://temizen.zenworld.eu/paginezen/approfondimenti/l-influenza-del-teatro-kabuki-sull-ukiyo-e

 

--- Questo il link all'intero numero 123 di Pagine Zen
https://temizen.zenworld.eu/paginezen/archivio/pagine-zen-123

 
 
 

JF Digital Collection, la nuova piattaforma online della Japan Foundation

Dal 1972, la Japan Foundation è un’istituzione attiva nella diffusione e nella promozione della cultura giapponese in tutte le sue forme, sia in Giappone che all’estero.

Con 4 sedi in patria e 25 filiali in 24 paesi, il suo scopo principale è quello di realizzare programmi globali di scambio culturale che creino opportunità di interazione tra persone provenienti da ogni parte del mondo. 

Attraverso le numerose attività e servizi offerti, essa coltiva fiducia e amicizia, oltre che occasioni per stabilire legami attraverso la cultura, la lingua e il dialogo.

A seguito dell’ormai nota situazione pandemica, la Japan Foundation ha portato online le sue attività e le ha raccolte nella JF Digital Collection.

Si tratta di una nuova piattaforma in cui si trovano numerosi materiali tra interviste, articoli, video e approfondimenti legati al Giappone che sarà a disposizione di tutti, appassionati o curiosi, gratuitamente.

“Il covid-19 ha infettato molti aspetti della nostra vita sociale e individuale, limitando in modo considerevole le nostre opportunità di relazione. Nonostante i programmi di scambio culturale in tutto il mondo abbiano subito restrizioni, sosteniamo che questa situazione non debba scoraggiare la nostra innata curiosità.”

Tutti i contenuti, in giapponese con sottotitoli in inglese, sono disponibili a questo link: https://bit.ly/2MZRIKE

 

Amanda de Luca


I giardini giapponesi: un percorso attraverso questa forma d'arte

Molti studiosi paragonano i giardini giapponesi a dipinti. Questo poiché essi, nella storia e cultura del Giappone, non furono quasi mai dei semplici luoghi da attraversare per giungere a un edificio, e nemmeno furono pensati solo come elementi decorativi della struttura che attorniavano. Essi furono sempre delle vere e proprio opere d’arte da ammirare come quadri, oltre che da sperimentare, vivere.

Questo parallelismo tra un dipinto e un giardino può spingersi ancora più in là se pensiamo alla varietà delle tipologie di strutture che esistono: come l’arte visuale ci stupisce con opere sempre differenti, anche il giardino in Giappone assume diversissime sfaccettature, varie per metodo, per stile, collocazione, tecnica.

Il giardino giapponese ha una profonda relazione con l’edificio che accoglie: quasi sempre queste due strutture non vengono pensate separatamente, ma si completano l’un l’altra. Il giardino è parte della stessa architettura, e l’architettura apre le sue porte al giardino, che si insinua in questa. Non ha una funzione decorativa rispetto all’edificio, né è un luogo che viene utilizzato solo come attraversamento per andare dall’estero all’interno (basti pensare che molti giardini non sono nemmeno attraversabili). Esso è qualcosa da osservare, ammirare, solo alcune volte percorrere. È un luogo  di sentieri da scoprire e che attiva la nostra immaginazione.

Nonostante le tipologie di giardino siano molto differenti tra loro, e facciano riferimento e concezioni e tecniche diverse, è possibile ricondurre questa forma d’arte a un antico modo di pensiero a proposito della natura. Shintoismo e buddhismo zen sono i culti che plasmano la concezione di natura che a sua volta è linfa vitale per le arti sin dalla tradizione. Lo shintoismo vede nelle forme della natura la presenza del sacro, dei kami, e per questo esercita rispetto e venerazione nei confronti di questa. Sin dall’antichità il culto shintoista prevede l’adornare elementi naturali (come ad esempio pietre o alberi) per mettere in evidenza i luoghi di possibile manifestazione della divinità, per ricordare come luogo naturale e entità sacra non si pongano su differenti livelli di realtà, ma siano invece in continuità tra loro. In concreto: la divinità non risiede in un luogo altro rispetto al mondo umano e naturale, ma silenziosamente è presente nel mondo negli elementi che lo compongono. In un modo molto simile, seppur differente, il buddhismo zen vede continuità in tutte le cose: l’uomo deve cercare di non vedersi più come un soggetto astratto dal tutto, ma deve comprendersi come inserito nella realtà delle cose, nella natura in divenire. Non deve mortificarsi, solamente comprendersi come parte di una realtà in cui nessun ente sussiste per se stesso. Nel corso della storia, e ancora oggi, spesso i due culti si sono intrecciati al punto da fondersi: i kami dello shintoismo vengono a volte considerati delle manifestazioni del Buddha.

Il sentimento estetico che si sviluppa da queste premesse va dunque nella direzione dell’apprezzamento e rispetto per ciò che già esiste nel mondo, per la natura che diviene: essa è dimora del sacro, ed è anche ciò che tutti siamo al fondo. È l'accettazione e ammirazione delle cose per come esse sono e si danno, seppur effimere o destinate a perire.

L’arte pone le sue radici in queste concezioni, e nella forma dell’architettura di giardini si concretizza nella valorizzazione degli elementi della natura così per come sono, senza il desiderio di volerli addomesticare o sottomettere. Compito dell’architetto è quello dunque di predisporre un giardino in cui nulla sembri artificiale o posto dall’esterno, ma piuttosto dove gli elementi della natura vengano valorizzati per ciò che sono, poiché detengono una bellezza che non è costruita o creata, ma è scoperta e valorizzata, interpretata. Ciò viene espresso molto bene dallo studioso Teiji Itō nel confrontare un giardino occidentale con uno orientale: in occidente, l’architetto si pone come colui che organizza e plasma la materia, che impone una forma; in oriente, invece, l’ordine è prima percepito e poi accettato. Itō crede dunque che si tratti di scoprire un nuovo tipo di naturalezza: non quella di un paesaggio incontaminato, ma quella che l'artista fa emergere e scopre nella natura attraverso tecniche differenti.

L’arte dei giardini, comunque, non ha interpretazioni univoche: quando ci troviamo di fronte a uno di questi, la nostra immaginazione può vagare, come davanti a un quadro o a un’opera d’arte. Solo, non dovremmo pensare a questo come a un oggetto posto in un museo. Dovremmo invece pensare al giardino come a un insieme di elementi vivi, pulsanti, in trasformazione, in continuità con ciò che lo circonda. Il resto è lasciato agli occhi di chi guarda: questo percorso tra diverse tipologie non vuole quindi essere un modo per fornire un’unica interpretazione a chi legge, ma vuole piuttosto essere un invito e una traccia per chi voglia perdersi in questa meravigliosa forma d’arte.

 

Fonti:

Sophie Walker, Il giardino giapponese

 

a cura di Susanna Legnani


La percezione dello spazio nella visione degli artisti giapponesi contemporanei

Perché è così importante pensare agli spazi che ci circondano? Essi sono ciò in cui viviamo e a contatto con cui trascorriamo il nostro quotidiano, mettono in forma certe esigenze e bisogni, ma rappresentano anche contesti culturali, storici, economici, sociali differenti.

In un periodo come quello che stiamo vivendo è inevitabile soffermarsi spesso a pensare allo spazio in cui ci troviamo: spazio chiuso di una casa, di un ufficio, di un supermercato, o spazio aperto di una strada, un parco, una piazza. Il covid-19 rappresenta un insolito nella nostra quotidianità, tanto da ribaltare completamente la percezione di ciò che abbiamo intorno: ecco infatti che le distanze si dilatano, vengono prediletti gli spazi aperti a quelli chiusi, quelli solitari a quelli affollati.

In questi tempi, dunque, dove il mondo in cui viviamo assume una fisionomia differente dal solito, vorrei portare il lettore alla scoperta di alcuni modi di percepire lo spazio in opere di artisti giapponesi contemporanei. Sarà inoltre interessante notare come, in maniera inconsapevole, alcune delle caratteristiche di queste visioni ben si adattino al difficile momento che stiamo vivendo.

Innanzitutto, è bene iniziare da alcune caratteristiche più generali. Per esempio, è da considerare come in Giappone molto spesso i luoghi vengano percepiti in maniera relazionale: quasi nessuna costruzione si estrania dal resto, ma anzi lo spazio viene percepito fondamentalmente come fluido e connesso. Se tutto ciò può sembrare veramente molto astratto, vi invito allora a portare la mente a un santuario shintoista: a chi ha mai visto video in merito o visitato il Giappone sarà probabilmente parso di notare come camminando per le strade delle città si possano spesso incontrare torii di santuari. Il torii del santuario shintoista è un elemento che viene inserito in diversi contesti, anche non prettamente religiosi, per segnalare l’avvicinamento a uno spazio sacro. È una struttura aperta, che non pone un limite netto tra i luoghi. Sensazioni simili sono percepibili in tutta la stessa città giapponese, dove il limite tra case e strade è più labile di ciò a cui siamo abituati, e anche nelle sue abitazioni tradizionali, in cui l’interno si relaziona in modo continuo con gli esterni attraverso i fusuma, gli shoji e altri elementi architettonici che promuovono la continuità.

La relazione di un luogo con ciò che lo circonda non è quasi mai trascurata nella strutturazione degli spazi in Giappone. Il rapporto con la natura è qualcosa di profondamente radicato nella cultura, e trae le sue radici dal culto autoctono, dallo zen e non solo. Questa relazione è talmente presente sin dai tempi più antichi che gli studiosi pensano che il riferimento alla natura sia divenuto, in ambito artistico, una sorta di corrispondente all’ideale della bellezza in occidente. Questo rapporto emerge allora nei modi dell’arte, ma anche nell’abitare, nello strutturare i luoghi. Shizen significa natura, il darsi spontaneo delle cose, ed è in questa esperienza che i giapponesi nella tradizione colgono la bellezza: trovata e scoperta più che creata. La natura e le cose del mondo già possiedono una loro particolare bellezza, nostro compito è quello di scovarla anche negli angoli più insospettabili, renderle giustizia, valorizzarla.

Un’esperienza interessante viene individuata dall’architetto Arata Isozaki nei suoi studi, e in particolare nel saggio Japan-ness in Architecture: kehai o kaiwai. Questo tipo di concezione è utile probabilmente a riassumere molte delle caratteristiche che lo spazio ha in oriente: kehai è uno spazio delimitato in modo vago, non necessariamente legato a ciò che è materiale, ma piuttosto composto da entità variabili, visibili ma anche invisibili. Lo spazio non solo è legato agli edifici e oggetti che lo compongono, ma piuttosto si caratterizza per tutti quegli elementi che magari non riusciamo a vedere, ma percepiamo con i nostri sensi: in questo modo i luoghi vengono pensati come fluidi, si sovrappongono l’uno con l’altro, sono legati agli eventi e alle situazioni. Per comprendere tutto ciò nel concreto, basta ancora una volta pensare alle città giapponesi: persino camminando tra i negozi è a volte possibile scorgere dei piccoli santuari o templi, e in quel momento comprendiamo che lo spazio in cui ci troviamo è connesso, fluido, in divenire, ci fornisce differenti stimoli di natura diversa.

 

 

Invito dunque chi legge a seguire questo piccolo percorso tra differenti opere di artisti giapponesi, che attraverso architetture e installazioni ci porteranno a scoprire modi diversi di vivere e percepire lo spazio di ogni giorno.

 

Fonti:

A. Isozaki, Japan-ness in architecture

 

a cura di Susanna Legnani