Il giardino del Ryōan-ji, forma e assenza di forma

Il giardino del tempio Ryōan-ji è sicuramente uno dei più famosi giardini zen. Variamente interpretato e studiato in diverse circostanze, cattura l’attenzione anche di artisti moderni e contemporanei. Il musicista John Cage gli dedica un pezzo silenzioso intervallato da suoni isolati, W. Gropius – scrivendo a Le Corbusier – vi individua gli stessi principi di semplicità ed essenzialità che animavano la sua produzione. L’origine di questo giardino è antica e si colloca nel periodo Muromachi; probabilmente in passato non aveva la forma che è possibile vedere oggi: diversi scritti testimoniano come esso avesse avuto l’aspetto di un paesaggio in prestito, uno shakkei. Oggi il giardino secco del Ryōan-ji è formato da una superficie rettangolare non attraversabile, composto da sabbia bianca e quindici pietre sistemate in diversi gruppi. Il muro e gli alberi alti all’esterno hanno oscurato quello che in tempi antichi fu un paesaggio catturato e incorporato nell’architettura, in continuità tra interni ed esterni, una moltiplicazione dello spazio.

Il giardino secco viene chiamato in giapponese karesansui 枯山水. È interessante soffermarsi sul significato di questa parola: se si considerano i kanji utilizzati, si può vedere che kare 枯significa “povero, secco”, mentre sansui 山水 è un accostamento dei kanji di “montagna” e “acqua”. Questa analisi della parola già dice molto sulle caratteristiche di questo tipo di giardino.

La natura in questo contesto è povera e secca, inorganica, non rappresenta la vita nel momento in cui è pulsante e rigogliosa. A prima vista, dunque, questo tipo di giardino è molto differente da quelli considerati finora in questa serie. Nello shakkei e nello tsubo-niwa la natura è viva, le cose qui sono lasciate al loro divenire, in un inevitabile scorrere del tempo; nel giardino secco invece sembra quasi che questo tempo si sia fermato.
Oltre a ciò, le parole “montagna-acqua” rappresentano un ideale paesaggio. Questa denominazione del paesaggio è utilizzata anche nella pittura cinese, a dimostrazione di come l’arte dei giardini sia molto vicina all’arte pittorica. Senza soffermarsi troppo su quest’ultima, è bene tenere presente come la pittura cinese tradizionale si fondi su equilibri particolari: gli spazi vuoti del foglio si alternano alle pennellate scure, creando una dinamica e armonia specifica. Montagne e acque sono due poli del dipinto, rappresentanti diversi tipi di paesaggi, vengono armonizzati attraverso gli spazi vuoti.

L’esempio del Ryōan-ji testimonia come il giardino sia uno spazio da contemplare, un’opera che può essere osservata come un dipinto, sebbene allo stesso tempo non ricopra solo una funzione decorativa rispetto all’edificio: non è percorribile, ma è solamente osservabile dalla veranda del tempio che è presente su uno solo dei lati del giardino. Da questa veranda è possibile osservare l’esterno, sedersi e meditare.

E, a proposito di meditazione, in questo contesto emerge come sia difficile parlare di giardino secco senza prendere in considerazione le dottrine zen più nello specifico. Sebbene l’arte giapponese antica non sia solo un’arte zen, nel caso di questi giardini è impossibile parlare di una cosa senza soffermarsi anche sull’altra. Cercando di evitare la semplificazione eccessiva, ma senza soffermarsi troppo su queste dottrine (cosa che richiederebbe una riflessione molto più ampia), è bene mettere in evidenza alcuni punti fermi dello zen. Il buddhismo zen è un insieme di dottrine che traggono le loro origini da culti importati dalla Cina (buddhismo chan), dove il buddhismo Mahāyāna subisce influenze dalle dottrine del taoismo. “Zen” significa “meditazione”, esperienza atta alla comprensione della realtà, da un punto di vista non prettamente speculativo. La dinamica e fondo della realtà è vuota, ed è comune ad ogni cosa, uomo e natura: attraverso diverse esperienze, dunque, l’individuo dovrà comprendersi come parte di una realtà più ampia e capire di non essere indipendente da ciò che lo circonda, ma di essere invece in relazione al resto. Oltre a ciò, è la qualità di questa realtà comune alle cose a interessare: vuota, in divenire, ciò che rende le cose non permanenti, effimere. Il giardino, dunque, può essere – più che attraversato – contemplato, e in questa contemplazione è possibile fare esperienza di quel vuoto di cui parlano le dottrine zen. È anche nell’esperienza artistica che si compie dunque la meditazione e si comprende qualità delle cose.

Si passi ora a una descrizione concreta: il giardino è di forma rettangolare, composto da sabbia, alcune rocce e muschio. Al di là del basso muro, che percorre due lati del giardino, si può scorgere invece una natura viva, differente da quella secca del karesansui, che probabilmente in passato – come si è detto – lasciava intravedere un paesaggio di sfondo, che veniva preso in prestito e inserito nel contesto. Gli elementi semplici che costituiscono il giardino richiamano subito alla vista l’esperienza del vuoto: la sabbia bianca e le rocce sono due poli del reale, pieno e vuoto. Questi due poli sono sempre in relazione e alla base di tutte le cose.  Come in un dipinto, le rocce sono i tratti d’inchiostro nero, e la sabbia è il foglio bianco, attraverso il vuoto essi si armonizzano e ne emerge il legame. L’essenziale in questa composizione, come è stato messo in evidenza da molti studiosi di giardini e di zen, è proprio il legame che intercorre tra gli elementi e non le istanze singole. Si dice che l’architetto del giardino del Ryōan-ji abbia pensato alla struttura in modo che nessuna delle pietre presenti avrebbe potuto essere osservata singolarmente, ma anzi sempre in gruppo. Questo restituisce visivamente quella parte della dottrina zen che prende in considerazione il rapporto tra le cose, l’interdipendenza e non autosussistenza dei singoli.

Il giardino del Ryōan-ji è un paesaggio che in un certo senso rappresenta tutti i paesaggi: ne mostra la parte essenziale, semplice, povera. Attraverso questa forma artistica si può comprendere quale sia la visione della realtà per le dottrine zen: dunque una struttura specifica, un giardino particolare, che allo stesso tempo però nasconde e mostra ciò che anche tutti gli altri giardini sono, emerge quell’esperienza del vuoto che sta al fondo delle cose. Per comprendere questo è molto utile fare riferimento a ciò che il filosofo Ryōsuke Ōhashi mette in evidenza nel suo scritto Kire: il bello in Giappone. Egli parla dell’espressione «formazione dell’assenza di forma». Cosa si vuole intendere con questa frase complessa? Nel suo essere povero, secco, nella sua semplicità ed essenzialità, questo giardino è come se contenesse in sé tutti i giardini, come se desse una certa rappresentazione della realtà. E in questa rappresentazione «lì, dove montagne e acque “seccano”, vale a dire scompaiono, vengono messe in forma; lì dove la forma viene annullata, essa viene abbozzata»: è proprio nella semplicità, dove la vita viene meno, dove le cose vengono rappresentate nella loro essenzialità che si comprendono le qualità della realtà. Queste qualità emergono proprio nel momento in cui viene meno la forma, la costruzione si fa semplice e povera: la forma viene abbozzata proprio quando diviene assente, poiché è il vuoto ad essere la forma delle cose. Questo vuoto che è tutte le cose attraverso il giardino ci restituisce una realtà provvisoria, effimera, impermanente e interconnessa, dove ogni elemento è interdipendente da altri. Il giardino del Ryōan-ji attraverso la sua composizione fa emergere le qualità delle cose nel senso che esso, mettendo degli elementi in forma, disponendoli in modo da farne emergere caratteristiche particolari, attraverso l’arte permette di intravedere che le cose sono al loro fondo vuote, interconnesse, provvisorie: le pietre sono collocate in gruppi e non possono essere percepite come singoli, lo spazio bianco della sabbia è come vuoto e si relaziona a questi elementi, i quali rappresentano la vita nella sua forma di provvisorietà, povertà, semplicità.

Ōhashi conclude: «attraverso il processo di essiccazione viene alla luce l’autentico modo d’essere del fiore. Fiorire rappresenta un accrescimento della vita. In questa somma attività si manifesta la forza vitale, e tuttavia al contempo la vita cela così uno dei suoi tratti essenziali: la mortalità».

 

Susanna Legnani


ANTI-OGGETTO: Kengo Kuma e il Teatro Nō nella foresta

Il terzo articolo della serie “La percezione dello spazio nella visione degli artisti giapponesi contemporanei” prende in considerazione il teatro Nō nella foresta dell’architetto Kengo Kuma.
Questo teatro è collocato nella città di Toyoma, nella prefettura di Miyagi. Non si trova all’interno di un edificio, ma è stato pensato sin dall’inizio per essere una struttura aperta, collocata nella foresta. Toyoma è una piccola città dalle diverse tradizioni, tra cui quella di avere uno stile particolare di esecuzione del Nō. Nonostante ciò, la città non ebbe un teatro adibito a questo tipo di spettacoli fino a che Kengo Kuma non decise di intraprendere il progetto nel 1996.

Per parlare di questa architettura è bene affidarsi a uno dei saggi di Kengo Kuma in merito alla sua poetica costruttiva: Anti-object, ovvero “anti-oggetto”. Cosa significano queste parole apparentemente complesse? Anti-oggetto come architettura che non si pone estranea rispetto a quello che la circonda. In ciò viene evitata sia l’opposizione tra osservatore e oggetto osservato, sia quella di oggetto tra oggetti. Nella contemporaneità ci si occupa spesso di erigere edifici considerandoli esattamente come oggetti, entità chiuse, separate da tutto il resto. È a volte assente un progetto che possa tenere conto delle caratteristiche dello spazio in cui la costruzione sorgerà. Questa dovrebbe mantenere un legame con i luoghi aperti: non va più trascurato il design di questi ultimi. Si vedrà nei paragrafi successivi un ulteriore significato che Kengo Kuma associa ad “anti-oggetto”: ciò che egli chiama “minimisation” (che spiega non essere minimalismo), un venir meno della materia.

Kengo Kuma scrive come in questo progetto «our goal was neither an object nor a building, but rather a garden in which three floor surfaces are carefully placed in a natural environment» (il nostro obiettivo non era né un oggetto né un edificio, ma piuttosto un giardino in cui tre superfici pavimentali sono accuratamente collocate in un ambiente naturale).

Il Nō è una forma teatrale sorta all’incirca nel XIV sec. in Giappone. È una disciplina artistica che è legata alla religione shintoista e implicitamente restituisce dei significati estetici che sono stati codificati nella modernità. “Yūgen” è un’esperienza estetica di difficile traduzione concettuale, che viene associata alle performance di Nō: questo termine viene spesso tradotto con “misteriosa profondità”. Questo sentire estetico porta a comprendere ancor meglio la scelta che è stata fatta a proposito del luogo in cui collocare il teatro di Kengo Kuma: la foresta. In ambito shintoista il luogo naturale incontaminato, non raggiunto dall’uomo, è spazio in cui la divinità si manifesta. In tal senso è bene menzionare il significato di oku, il quale fa a sua volta riferimento ad altri termini che rappresentano opposizioni. Nigi e ara rappresentano ciò che è toccato dall’uomo, costruito, rispetto al selvatico, mentre omote e ura hanno significati rispettivamente di superficie, esterno e interno. Oku, infine, fa riferimento a una profondità, spazio nascosto, intimo. Questo però non deve confondere: se pensando ad una abitazione oku può essere considerato lo spazio più interno e celato, nel caso del luogo di manifestazione del kami esso coincide sia con uno spazio nascosto sia con uno spazio inaccessibile: la natura dunque, in questo caso la foresta.

Il palco del teatro Nō è una finestra sul regno degli spiriti. L’equilibrio che si stabilisce è questo: il palco principale, chiamato butai, è cornice del mondo della morte, dello spirituale; il pavimento chiamato kenjo è il mondo dei vivi, dove siedono gli spettatori; di mezzo un passaggio, un tratto tra le due parti chiamato shirasu. Le strutture sono ben orientate verso la terra e non hanno alcuna propensione alla verticalità, sono completamente aperte alla foresta, non vi è alcun edificio a separarle da quest’ultima, dunque le persone possono accedervi in ogni momento, proprio come in un santuario shintoista. Le superfici sono in legno, esattamente come gli alberi intorno. Così Kengo Kuma si concentra su un design dello spazio aperto invece che sull’edificio come oggetto, e infatti scrive: «By opening up the space to the natural environment, I was able to dissolve the rigid framework of architecture» (attraverso l'apertura dello spazio all'ambiente naturale, sono stato in grado di dissolvere la rigida struttura dell'architettura).

Il bosco fa da sfondo al teatro, costruzione svuotata, con strutture semplici, cornice rispetto al paesaggio e a un mondo altro. Si vuole incorniciare con le strutture costruite sia il mondo spirituale che viene a presenza durante la celebrazione, sia il paesaggio oscuro circostante, che è sempre luogo in cui lo spirituale si cela. La foresta si perde nell’ombra, l'architetto spiega come essa suggerisca una «distanza eterna» che nessun oggetto può catturare. Kengo Kuma esplicita come il suo intento fosse quello di «Reduce the materiality of the stage until it approached the condition of an immaterial frame – ideally, a single thin floor floating over the shirasu» (ridurre la materialità del palco fino ad avvicinarlo alla condizione di una cornice immateriale - idealmente, un unico pavimento sottile che galleggia sopra lo shirasu).

Il materiale prevalente nella costruzione è il legno, utilizzato sia per il butai che per il kenjo. Per quanto riguarda il tratto mediano, ovvero lo shirasu, Kengo Kuma utilizza un materiale particolare. Egli nel suo saggio spiega come solitamente in questi tipi di teatro questa parte sia formata da ciottoli bianchi: ciò anche a indicare l’elemento dell’acqua, come segno di purificazione nel passaggio da un mondo a un altro. Tuttavia, l’architetto decide di utilizzare della pietra nera del luogo, affinché si armonizzi con l’oscurità che prevale nell’intreccio di rami e foglie della foresta. Lo shirasu va allora ad assomigliare ancora all’acqua, ma nella sua profondità. Ancora il focus si pone sul nascondimento, sull’impossibilità di identificazione e resa a oggetto. Il teatro Nō è un microcosmo in continuità con la stessa foresta e realtà quotidiana.

Kengo Kuma fa, in conclusione, un paragone molto interessante: anche nella stessa performance di Nō la materia viene ridotta fino quasi ad essere eliminata, poiché viene reso possibile l’andare e venire tra il mondo della quotidianità e quello degli spiriti. Allo stesso modo, le strutture dell’architettura sono semplici, sottili, dello stesso materiale che il paesaggio circostante offre, caratteristica che li porta ancor di più a farsi trasparenti: mentre le travi di legno richiamano i tronchi degli alberi, il materiale di cui è composto lo shirasu ricorda l’oscurità della foresta, il suo segreto.
Una materia, dunque, che non scompare ma diviene quasi fluida, si mescola a ciò che la circonda, rifugge la denominazione di oggetto, si disperde nel tempo.

Conclude il saggio con questa frase: «The result will be the emergence of something that is not so much architecture as landscape» (il risultato sarà l'emergere di qualcosa che non è tanto architettura quanto paesaggio).

 

 

 

Susanna Legnani


Il giardino Zen e i ciliegi di Milano Piazza Piola

Domenica 18 aprile è stato inaugurato a Milano un giardino Zen in ricordo di Teresa Pomodoro, attrice, regista e drammaturga scomparsa nel 2008. La realizzazione del complesso è stata completata in cinquanta giorni e finanziata direttamente dal Teatro No’hma, fondato dall’artista nel 1994. Il Teatro concede la possibilità di sostenere la manutenzione del progetto attraverso donazioni online: uno spazio che, dunque, sarà in ogni senso di tutti i cittadini.
Il progetto del giardino è in prima istanza di riqualificazione: la volontà è stata quella di conferire un nuovo volto alla zona verde di Piazza Piola, inserendo uno spazio di pace e meditazione che si relazioni e inserisca nella frenesia della città di Milano. Soprattutto nell’ultimo periodo, sono molte gli interventi e progetti che coinvolgono la città al fine di renderla sempre più verde e sostenibile. Si pensi anche solo al fatto che il comune di Milano abbia piantato quasi 30.000 nuovi alberi da novembre 2020 a marzo 2021.

In concomitanza al tempo delle fioriture primaverili dei ciliegi in Giappone, il giardino Zen di Piazza Piola ricrea un’atmosfera simile a quella che potremmo vivere festeggiando hanami. I sakura sono testimonianza di quella bellezza segnata dal tempo, dall’istante, effimera e impermanente. Insita nella stessa natura, che viene percepita in questo modo così com’è, senza abbellimenti o decorazioni. Ed è proprio nello Zen che l’esperienza estetica della naturalezza trova la sua linfa. Dunque, un giardino che si ispira all'estetica giapponese tradizionale e tuttavia si inserisce nella modernità degli scorci milanesi. 
“Vorremmo fare con te quello che la primavera fa con i Ciliegi”: questa la frase che accompagna l’iniziativa e che introduce il progetto sul sito di No’hma. L'immagine è quella della vita che sboccia e fiorisce, anche se destinata col tempo a perire. Lo scopo e l’invito sono quelli di scoprire qui un luogo di meditazione e serenità. Oasi di pace, ma anche spazio commemorativo e installazione artistica. Proprio Livia Pomodoro ricorda nel discorso inaugurale come sia determinante nella costruzione delle nostre città quel legame tra natura e cultura, a cui non si dovrebbe mai essere indifferenti: il giardino è occasione per soffermarsi su questo rapporto, essenziale per la progettazione di città sempre più sostenibili e a misura d’uomo.

Il giardino è al momento composto da ventuno ciliegi, con un percorso pedonale a forma di goccia. Il richiamo ricorrente all’elemento dell’acqua ha un doppio riferimento: da un lato ricorda le origini del Teatro fondato da Teresa Pomodoro, collocato in una palazzina che ospitava una stazione in disuso dell’erogazione di acqua potabile per la città; dall’altro lato rappresenta l'elemento vitale, tipico nelle costruzioni giapponesi tradizionali in quanto segno del divenire e dello scorrere della vita naturale.

Al centro, gradoni di granito rosa ospitano le sculture dell’artista giapponese naturalizzato italiano Kengiro Azuma, vecchio amico di Teresa Pomodoro, venuto a mancare nel 2016. Allievo di Marino Marini all’Accademia di Brera, nelle sue opere questa tradizione si mescola a quella dello zen giapponese. Queste sculture, collocate al di sopra dei gradoni, sono intitolate “Colloquio” e “MU -765”. “Colloquio” è una composizione scultorea composta da due rane dalle linee semplici e geometriche, rivolte l’una verso l’altra come se stessero conversando, nel ricordo dell’amicizia e dialogo tra i due artisti. Azuma ad un certo punto della sua carriera cominciò a intitolare le sue opere “MU” caratterizzandole con un numero. “Mu” è l’esperienza giapponese del vuoto e del nulla, riconducibile alle dottrine zen. Le arti tradizionali giapponesi traggono la loro linfa vitale da questo concetto di vuoto, che nello zen si caratterizza come natura dinamica e comune a tutte le cose. Tutto è vuoto, soggetto al tempo, interconnesso. “MU – 765” è una scultura a forma di goccia, a richiamare nuovamente l’elemento dell’acqua e tutte le sue implicazioni.

La cerimonia, che è cominciata con il risuonare di un gong alle 17, si è tenuta con pubblico e su invito ed è stata trasmessa in diritta streaming sul sito del Teatro. Dopo il discorso di apertura di Livia Pomodoro, si è protratta per il resto del pomeriggio attraverso balli e rappresentazioni, con altri riferimenti alla cultura giapponese. Tra gli artisti Marek Jason Isleib con una performance di Butoh (danza contemporanea giapponese), accompagnato da Roberto Papini Tivitavi con gong e didgeridoo, Beatrice Carbone e Mick Zeni ballerini danzatori e Alex Van Hool alla console.

 

Fonti e link utili:

https://milano.corriere.it/notizie/cronaca/21_aprile_17/piazza-piola-giardino-zen-teresa-pomodoro-sculture-azuma-ciliegi-63cad6f0-9f41-11eb-8597-6499de4a4df8.shtml

https://milano.repubblica.it/cronaca/2021/04/17/news/giardino_zen_teresa_pomodoro_milano_piola_kengiro_azuma-296811856/

https://www.nohma.org

https://www.comune.milano.it

 

Articolo di Susanna Legnani

Foto di Alberto Moro


Il nostro Shounen Jump si chiama Manga Vibe

È partito il 23 febbraio il nuovo progetto editoriale della Shockdom, che sarà presente in edicola e nelle fumetterie a cadenza bimestrale: il suo nome è Manga Vibe, una rivista dedicata al manga made in Italy.

Essa contiene, infatti, solo storie di autori italiani, alcuni già conosciuti al pubblico, altri esordienti.

L’idea è arrivata all’interno della casa editrice, ispirata dalla già esistente rivista giapponese Shounen Jump, che ogni settimana pubblica un capitolo dei titoli più conosciuti nel panorama nipponico contemporaneo e di fama internazionale, tra cui, ad esempio, One Piece – storico pilastro fin dagli anni 90’ – My hero Academia e Black Clover.

Lo Shounen Jump fu lanciato nel 1968 dalla casa editrice Shūeisha, ed è una delle più longeve testate settimanali di manga pubblicate in Giappone, con una tiratura di oltre tre milioni di copie, oltre che un appuntamento fisso per gli amanti del genere, giapponesi e non.

Competere con un tale colosso sarebbe difficile, tuttavia, nel panorama italiano, Manga Vibe rappresenta un’importante scommessa, come testimonia Lucio Staiano, fondatore della casa editrice: “Da sempre a Shockdom piacciono le sfide. Forse è arrivato il momento giusto per il nostro paese di avere una rivista antologica tutta dedicata al manga italiano. Abbiamo una generazione di autori incredibili che lavorano con l’estero, che vincono premi in Giappone, e lo stile nipponico ormai fa parte della nostra cultura. Dopo tutto, sono passati più di quarant’anni dall’arrivo dei primi anime in Italia e trenta dai primi manga.”

Di certo si presenta come un’occasione d’oro per tutti gli autori che di manga vogliono viverci, non dovendo necessariamente trasferirsi in un altro paese.

Invece noi, in qualità di consumatori, non possiamo far altro che supportare tale progetto e aiutarlo a crescere.

 

Amanda De Luca


Yukigassen – challenge editoriale

Articolo selezionato per la challenge editoriale “Il Giappone e lo sport” – autore Matteo Zanderighi.

In molti saranno stupiti di sapere che “Palle di neve”, nonostante si ritenga un gioco per bambini, in realtà è un vero e proprio sport riconosciuto in diverse nazioni, evolutosi a tutti gli effetti in una disciplina agonistica con sempre maggiori giocatori al suo seguito. In Giappone viene chiamato Yukigassen (letteralmente “battaglia di neve”) praticato in particolare in Hokkaido dove ogni anno, sul monte Showa-Shinzan a Subetsu, si tiene il campionato del mondo. Ha infatti trovato diffusione anche in altri paesi, come Russia, Finlandia , Alaska e, oltre che appunto in nazioni con un clima più invernale, pure in Australia, dove si tenne il primo evento ufficiale al di fuori del Sol Levante nel 1992!

Lo Yukigassen nasce in Giappone nel 1987 (ufficialmente diventerà sport l'anno successivo) per rivitalizzare il turismo di una zona che si animava principalmente in estate, ma ben presto l'interesse nei confronti di questo “giovane sport” ( ma vecchio di secoli sotto di gioco, come dimostra un affresco quattrocentesco a Torre d'Aquila a Trento) è tale che nel febbraio 2013 viene istituita la “International Alliance of sports Yukigassen (IAY / Yukigassen International)” , che permette di fissare le regole di gioco e di avere, per tutti gli appassionati, un punto di riferimento in questa disciplina. Nel loro sito è possibile scaricare il manuale con le regole per la preparazione di campo e le modalità di svolgimento della partita, il link in fondo all'articolo.

La preparazione di una gara di palle di neve, infatti, richiede molto impegno e un comportamento di gioco ben preciso (ad esempio, non si possono fare finte lanciando in aria la palla, o lanciare una palla non perfettamente integra...)

Innanzitutto, bisogna predisporre il campo di battaglia: zone di trincee vengono collocate come posti di riparo per affrontare l'avversario. In secondo luogo, è necessario preparare una buona scorta di palle di neve: se ne preparano fino a 90 con un'apposita macchina per garantire di averne sempre a disposizione prima di attaccare. Infine, è necessario indossare speciali elmetti che riparano testa e faccia, predisposti di visiera trasparente per un’ottima visuale. Infine, non resta che armarsi di coraggio e mettersi a giocare.

Come già detto in precedenza, i giocatori devono cercare di colpirsi con le palle di neve. Scendono in campo solitamente 7 partecipanti e quando si viene colpiti, è necessario abbandonarlo, poiché si viene eliminati.

Il match dura tre minuti, a vincere è la squadra che conta il minor numero di giocatori eliminati o che è riuscita a conquistare la bandiera avversaria.

Dopo un'abbondante nevicata, è possibile praticarlo a livello amatoriale in qualche bella località sciistica italiana… il divertimento è assicurato! Ora l'invito a giocare a battaglia a palle di neve sarà certamente preso con uno spirito diverso...

SITO UFFICIALE DELLA INTERNATIONAL ALLIANCE OF SPORTS YUKIGASSEN 


Il Giappone e lo sport - challenge editoriale

Articolo selezionato per la challenge editoriale "Il Giappone e lo sport" - autrice Nadia Loro .

Parlando di sport vengono subito in mente le imminenti Olimpiadi di Tokyo. Si faranno? Dalle notizie si deduce che la maggior parte dei giapponesi sia contraria, vista la situazione sanitaria attuale, anche se dispiaciuti per gli atleti e le aziende coinvolte. I giapponesi amano lo sport, fa parte della loro cultura e le vecchie generazioni ricordano ancora con entusiasmo Tomba alle Olimpiadi invernali di Nagano del 1998.

Agli appassionati di lettura, questo argomento farà ricordare il recente romanzo Il guardiano della collina dei ciliegi di Franco Faggiani, in cui si raccontano i fatti storici legati al maratoneta Shizo Kanakuri alle Olimpiadi di Stoccolma del 1912 e la centralità dello sport è messa in relazione con il senso dell'onore e l'impegno nei confronti dell'Imperatore.

Un'emblematica disciplina del panorama sportivo nipponico è l'Ekiden, nata intorno al 1917. Si tratta di una gara a staffetta a squadre su un percorso di lunghezza pari a quello della maratona (42,195 km) suddiviso tra un gruppo composto da 5 a 7 staffettisti e che riflette la vera passione dei giapponesi per la corsa e per il lavoro di squadra.

Parlando di sport e giochi paralimpici, come anche spiegato su Olympic Channel (https://www.olympicchannel.com/en/video/detail/make-them-run-with-the-wind-prosthetist-fumio-usui/ ), sicuramente dobbiamo ricordare il grande esperto in protesi, il dottor Fumio Usui. Di recente anche una fotografa italiana, Silvia Alessi, ha ritratto in pose artistiche dei lottatori di sumo e delle persone senza arti che indossavano le protesi create dal medico giapponese.
Lo sport in Giappone può coinvolgere anche i più pigri con il brivido della velocità della Formula 1 e i circuiti di corsa nel Sol Levante che negli anni hanno ospitato importanti e prestigiose gare automobilistiche.

Il Giappone sicuramente incentiva le attività sportive e vi investe più di altre nazioni. In generale, su incoraggiamento del Ministero dell'Istruzione, le scuole elementari e medie hanno palestre e campi da gioco. Capita spesso di vedere scuole affiancate da ampi campi da gioco ben attrezzati. Gli studenti devono praticare attività fisica durante le ore scolastiche e vengono incoraggiati a proseguire anche dopo la scuola. Alle scuole superiori è obbligatorio. Il culmine delle attività sportive scolastiche è rappresentato dal Taiku no Hi, il giorno dello sport, una festa nazionale. Nata in origine con le Olimpiadi del 1964, oggi viene celebrata il secondo lunedì di ottobre: ogni scuola organizza gare scolastiche a cui tutti gli studenti sono chiamati a partecipare per mostrate ai genitori e amici i risultati raggiunti nelle varie discipline sportive.

Se fossimo nati in Giappone che sport potremmo scegliere? Sport individuale o di gruppo? Sport tradizionale o "importato"?

Il Giappone offre un'ampia scelta perché considera lo sport come elemento di benessere fisico e spirituale. Inoltre, viene ad esso riconosciuto un ruolo fondamentale di socializzazione e partecipazione.

Sport occidentali, come il baseball arrivato in Giappone nel 1870, il golf o il tennis e il calcio sono molto apprezzati. Anche il rugby ultimamente ha riscosso maggiore successo rispetto ad alcuni anni fa, forse anche merito della Rugby World Cup del 2019, svoltasi proprio in terra nipponica.

A fianco di questi sport “importati”, troviamo quello che potremmo definire l'emblema della disciplina nazionale tradizionale giapponese: il sumo. Con radici che affondano nei riti scintoisti e nelle preghiere per raccolti abbondanti, definito sport giapponese per eccellenza è quello che viene maggiormente seguito. I lottatori di sumo attualmente sono considerati delle vere star! Ci sono poi molte arti marziali tradizionali che spesso sono state classificate e definite come discipline sportive. Le più praticate sono il kendo (la via della spada), il karatedo (la via della mano vuota), l'aikido (la via dell'armonia dello spirito), il kyudo (la via dell'arco) e il judo (la via della gentilezza). Ad accomunarle è la parola e ideogramma di Via/Strada (do), che sottolinea come si tratti di un percorso dell'anima, di avanzamento spirituale, oltre che fisico e mentale. Sono arti praticate per raggiungere il controllo, l'equilibrio, la precisione, la concentrazione e la strategia.

Nonostante il senso di competizione per un giapponese è importante partecipare dando il meglio di sé per il gruppo, inteso come squadra, ma anche per dimostrare il proprio rispetto agli avversari e al team che ha contribuito alla preparazione atletica. Vincere o perdere sarà il problema eventualmente successivo.

Nadia Loro


Tsubo-niwa: uno scorcio di verde

Gli tsubo-niwa iniziarono ad essere costruiti nel periodo Heian (794-1185), all’interno degli edifici e palazzi aristocratici. Essi ebbero un suo sviluppo anche nel periodo Edo (ad esempio nelle machiya), per arrivare fino ai giorni nostri in differenti forme e collocazioni. Oggi infatti è possibile molto spesso trovarne nei ryokan (alberghi tradizionali giapponesi), ristoranti, ma anche edifici pubblici e privati di diverso genere. Questo tipo di giardino è uno scorcio di verde nel bel mezzo delle città, un luogo nascosto, che invita alla tranquillità e meditazione, a prendersi una pausa da quello che c'è fuori ma allo stesso tempo metterlo in relazione con l'interno. Interno che porta il visitatore in un contesto naturale. Va sempre considerato, infatti, come l’architettura dei giardini si esprima in un interpretare la bellezza della natura, nello scoprirla in diversi modi così per com’è.

Per comprendere il significato del termine “tsubo-niwa” è interessante fare riferimento al volume di Marc Peter Keane Japanese Garden Design. L’architetto spiega come la parola indichi innanzitutto un’unità di misura: lo tsubo 坪 corrisponde alla misura di due tatami (di solito la misura di uno si aggira intorno ai 1800 x 900 mm), niwa 庭 significa invece “giardino”.  Gli tsubo-niwa dunque possono essere giardini di modestissime dimensioni, ne esistono di diversi, e vanno dai più piccoli aventi la misura di base dello tsubo fino a multipli della stessa. La parola tsubo però, spiega l’autore, può avere molteplici significati. Può fare riferimento al ki 気 (ovvero il soffio, l'energia) e al suo equilibrio: il giardino interno regola il flusso di energia dell’edificio. A questo proposito Keane ricorda anche il significato di tsubo che si riferisce al vuoto: nell’ambito di taoismo e buddhismo zen, l’individuo deve conoscere se stesso come vuoto attraverso il pensiero del sé come un contenitore cavo, un vaso: tsubo 壺. Così il giardino è uno spazio di meditazione, cavo rispetto all’edificio, invito ad abbandonare la propria individualità per conoscere ciò che al fondo siamo: vuoto, come la natura e tutte le cose. 

Ha solitamente una struttura semplice: formato da alcune piante e alberi, piccoli specchi d’acqua, pietre e pochi altri elementi (lanterne, piccoli ponti, sentieri). A volte è possibile trovarvi un temizu, una vasca contenente acqua dove è possibile purificarsi. La vegetazione riceve la luce dall’estero, in misura differente a seconda della struttura dell’edificio che la ospita. Il giardino è nascosto, si trova nella parte interna dell'architettura, ma allo stesso tempo cerca la luce, le piante si protendono verso l'esterno. Invita alla meditazione ma non dimentica cosa esiste al di fuori.

Lo tsubo-niwa permette di scoprire un luogo altro all’interno del tessuto urbano, un luogo dove potersi rifugiare in tranquillità, a contatto con la natura. L’edificio vive in simbiosi con il giardino stesso, che in un certo senso amplia i suoi spazi attraverso l’immersione dello spettatore in un luogo diverso, verde. Esso è concepito sia per essere visitato, ma molto spesso (soprattutto nel caso degli tsuboniwa di piccole dimensioni) anche solo guardato dall’interno della struttura. Infine, è possibile percepirvi quel legame che gli interni hanno con gli esterni, che l’architettura ha con il paesaggio circostante.

 

 

Susanna Legnani


Una nuova serie Netflix: “L’Era dei Samurai”

È uscita il 24 febbraio sull’ormai nota piattaforma di streaming legale, una nuova seria con protagonista la storia giapponese: “L’Era dei samurai.”

Come ben molti avranno avuto l’occasiona di notare, si tratta di una docu-serie che alterna testimonianze di storici e studiosi del periodo a scene recitate dei fatti accaduti.

Essa dona una panoramica dell’era Sengoku, un’epoca caratterizzata da feudi divisi e in lotta tra loro, e dei suoi protagonisti, i cosiddetti “tre unificatori”: Oda Nobunaga, Toyotomi Hideyoshi e Ieyasu Tokugawa.

L’inizio del Sengoku-Jidai si ebbe con lo scoppio della guerra di Onin nel 1467, causata dalle numerose rivolte dei daimyo, signori feudali locali fedeli alle direttive dello Shogunato fino ad allora detenuto dalla famiglia Ashikaga.

 

 

Con la caduta del governo centrale, ogni daimyo formò un proprio Stato in lotta con gli altri per il controllo sui territori, finché, uno di loro, Oda Nobunaga, iniziò una sanguinosa campagna militare con lo scopo di raggiungere l’unificazione nazionale.

Dopo la sua morte, avvenuta nel 1582, tale obbiettivo venne portato avanti da Toyotomi Hideyoshi e concluso, infine, da Ieyasu Tokugawa nel 1603, quando, a seguito della battaglia di Sekigahara, gli venne conferito dall’Imperatore il titolo di Shogun.

Ebbe così inizio l’era Tokugawa, ultimo governo feudale del Giappone, che si protrasse per più di due secoli.

La docu-serie presenta subito la figura di Nobunaga, personaggio controverso e conosciuto soprattutto per la sua grande abilità e ferocia militare e allo stesso tempo per le sue aperture alle correnti occidentali, ad esempio il Cristianesimo, e ne segue le vicende con attenta minuziosità storica.

La serie, diretta da Stephen Scott, è composta di 6 episodi da 40 minuti ed è disponibile su Netflix.

Di certo un’occasione in più scoprire e conoscere parte della storia giapponese.

Buona visione!

 

Amanda De Luca


Le stagioni di Azuma Makoto

Azuma Makoto (1976), artista dall’anima punk rock, decide di trasferirsi sin da giovane dalla città di Fukuoka a Tokyo per realizzare il sogno di suonare con la sua band. È in questo luogo frenetico che avviene l’incontro con ciò che animerà il suo lavoro e la sua arte: il mondo della composizione floreale. Comincia lavorando nel mercato di fiori di Ota, uno dei più grandi del mondo. Con il tempo comprende come tutto ciò per lui non si limiti a essere solo un'occupazione per sostenersi, e comincia a impegnarsi per aprire un negozio tutto suo. Progetto questo che si realizza nel 2002 insieme al fotografo Shunsuke Shiinoki, quando apre JARDIN des FLEURS, originariamente nel quartiere della moda di Ginza a Tokyo. Nel 2005, oltre all'attività nel negozio di fiori, inizia la sua sperimentazione. È in questi anni che l’artista comincia a creare ciò che si potrebbe chiamare “sculture botaniche”, delle vere e proprie sculture e installazioni composte unicamente da piante e fiori. Nel 2009 costituisce un gruppo sperimentale chiamato AMKK, il cui intento è quello di sviluppare progetti di diverso genere nell'ambito della composizione floreale.

Il lavoro di Azuma Makoto è molto vario. Il negozio aperto nel 2002 si configurava inizialmente come una boutique haute couture. Lo stesso Makoto confessa in alcune interviste di aver faticato a trovare un vero e proprio target a cui destinare le sue composizioni, molto complesse e articolate, per quello che ai tempi le persone vedevano come un semplice negozio di vendita di fiori. Con il passare degli anni questo luogo cominciò a essere riconosciuto e – continuando il lavoro di vendita e composizione su commissione – si venne ad articolare anche la parte maggiormente sperimentale del rapporto di Azuma Makoto con il mondo delle piante.

In un documentario girato da The New Yorker, in cui egli si autodefinisce “a punk florist”, Makoto spiega come i fiori siano elementi che possono esprimere le emozioni di chi li arrangia e di chi li osserva. La varietà, i colori, la disposizione di questi possono dare vita a universi completamente differenti, veicolando sensazioni sempre diverse. L’artista, inoltre, commenta: «Flowers are living things. You always need to be aware of this». Questa frase ha diversi significati importanti, ed è essenziale per comprendere il suo lavoro. Innanzitutto il fatto che i fiori, essendo esseri viventi, debbano essere rispettati e trattati con delicatezza, prendendone in considerazione tutte le caratteristiche specifiche. I tempi di lavoro e di creazione non sono più quelli dell’artista e del compositore, ma sono quelli del fiore: quelli recisi hanno un ciclo di vita breve, ed è in questo lasso di tempo che occorre completare l’opera. Questa, infine, non è qualcosa di eterno: muta, cambia la sua forma, i suoi colori, i gambi si piegano e i petali cadono, la pianta appassisce.
La composizione è qualcosa di effimero, i fiori hanno un ciclo di vita che piano piano si esaurisce. Nella bellezza di queste opere, l’osservatore riesce a percepire la vita che pulsa – così varia e caratterizzata da diversi colori – ma anche intuisce le brevità della stessa, il destino comune che condividiamo con gli elementi della natura.

DROP TIME – LO SCORRERE DEL TEMPO

Non è mai concessa la possibilità di schiacciare il pulsante “pausa” nel trascorrere dei giorni: rincorriamo ciò che rende felici, rifuggiamo i momenti di dolore, cerchiamo di allontanare l’istante in cui anche noi appassiremo. Le stagioni si avvicendano, alcuni fiori sbocciano mentre altri piegano le loro corolle verso il terreno. Azuma Makoto ritrae il ciclo di vita dei fiori in numerosi esperimenti, tra cui i video chiamati “Drop Time”. Questi sono visionabili sul suo canale ufficiale di YouTube, mostrano differenti tipi di composizioni esaurire il loro ciclo di vita in pochi secondi, per poi nuovamente rifiorire.

https://www.youtube.com/watch?v=GikdxpbIwcg

Video dal canale YouTube Azuma Makoto Kaju Kenkyusho

 

DISLOCAZIONE

Oltre alle sculture botaniche, un’altra interessante pratica nella sperimentazione dell’artista è quella della collocazione delle opere in contesti in cui le piante di solito non sono presenti. Azuma Makoto è infatti famoso per aver lanciato una composizione floreale nella stratosfera. Questi progetti proseguono in direzioni sempre differenti: sott'acqua, nel deserto, in mezzo al mare, nel ghiaccio.
Il tentativo è quello di comprendere il modo in cui questi elementi naturali reagiscono in condizioni anormali, in luoghi in cui non si trovano solitamente. In molte di queste occasioni è interessante osservare come la delicatezza di questi fiori si tramuti in forza e tenacia della natura. Natura che lascia trapelare nuove sfumature di bellezza attraverso queste collocazioni inusuali e inaspettate: che sia cristallizzata in un ghiacciaio o travolta dalle acque dell'oceano, lasciata fluttuare dove manca l'aria o posta in un luogo deserto e senza spettatori, essa suscita ogni volta nuove suggestioni. 

https://www.youtube.com/watch?v=8qWnTH30O7Q

Febbraio 2018, Hokkaido, Giappone. Video dal canale YouTube Azuma Makoto Kaju Kenkyusho

 

 

Fonti:

Canale YouTube Azuma Makoto Kaju Kenkyusho

Sito web dell'artista https://azumamakoto.com

Documentario di The New Yorker

 

 

a cura di Susanna Legnani


Uno sguardo al primo Japan Film Festival Online

Organizzato dalla Japan Foundation in collaborazione con le varie sedi estere, tra cui l’Istituto Giapponese di Cultura in Roma è stato presentato in 20 paesi del mondo il primo festival di cinema giapponese online: il Japan Film Festival Plus.

Il JFF è stato ideato per promuovere il cinema giapponese nel mondo e faceva parte di un progetto, “Japanese Film Anytime, Anywhere”, inizialmente avviato nel 2016 in alcuni paesi asiatici e in Australia, per poi raggiungere progressivamente Cina, Russia e India, con l’intento di presentare le più recenti uscite cinematografiche giapponesi.

Nel 2019/20 è stato proposto in 56 città di 12 diversi paesi, registrando oltre 170.000 spettatori.

Quest’anno, dovendo far fronte all’emergenza sanitaria globale, la Japan Foundation ne ha promosso una versione online, definita Plus, per una condivisione in streaming dell’evento in ben cinque continenti.

La versione “Plus” è stata una raccolta di contenuti di vario genere, tra cui lungometraggi, video-interviste ai registi, articoli di approfondimento e corti d’animazione, poi trasmessi sulla piattaforma del festival dal 26 febbraio al 7 marzo.

I 30 titoli, che spaziavano dal thriller alla commedia, dagli anni ’50 alle ultime uscite, erano disponibili in streaming gratuito previa registrazione per un tempo limitato di 24 ore da quella di proiezione, scaglionata in tre turni mattutini: 9.00/11.00/13.00. Una volta scaduto il tempo di visione, si rendevano disponibili i film successivi, con una media di tre al giorno.

Numerose sono state le tematiche trattate, sia proprie della cultura e della società giapponesi sia riflessioni di carattere universale, ad esempio l’amore, in tutte le sue forme.

Una menzione particolare meritano i cortometraggi in Stop Motion di Yashiro Takeshi, un professionista di questa tecnica di animazione, che hanno ritratto le avventure di Norman e il suo pupazzo di neve e di una piccola e generosa volpe di nome Kon.

Una bellissima iniziativa, insomma, che ha attirato l’attenzione di curiosi e interessati, ma se ve la siete persa, non vi resta che aspettare l’anno prossimo!

 

Amanda De Luca