I giapponesi e la luna
Il legame che unisce i giapponesi alla luna è molto antico e prende varie forme. Una di queste è sicuramente il Festival della luna e del raccolto (Tsukimi), che si tiene a metà settembre. È proprio la luna di questo il mese quella che si ritiene sia la più bella, grazie alla maggiore visibilità data dalla poca umidità presente nell’aria e dalla sua posizione nel cielo, non troppo in alto né troppo in basso rispetto all’orizzonte.
Nella letteratura giapponese la figura della luna è presente da secoli. Nel “Taketori monogatari” (“Storia di un tagliabambù”, X secolo), uno dei primi racconti di narrativa pervenutoci, è proprio la luna a essere la terra natia della protagonista, la principessa Kaguya. Questa terra lontana è descritta come pura, dove non c’è morte né vecchiaia. Nella poesia waka, genere fiorito nel periodo Heian (794 – 1185) prendendo generalmente la forma del tanka (poesia in 5 versi), la luna appare spesso in relazione al paesaggio naturale o in componimenti d’amore, per esempio quando una donna osserva il cielo notturno mentre aspetta l’arrivo del suo innamorato.
Si può trovare questa sua componente romantica anche in epoche più vicino a noi. Secondo un interessante aneddoto, sembra che Natsume Sōseki (1867 – 1916), considerato uno dei padri del romanzo giapponese moderno, abbia tradotto l’inglese “I love you” con l’espressione “Bella la luna, vero?”. Anche al giorno d’oggi quest’espressione, che apparentemente non si presenta come una dichiarazione d’amore, in giapponese può assumere anche questo significato e può indirettamente indicare un sentimento romantico.
È poi curioso notare come, secondo la cultura greco-romana, la luna assuma un’identità femminile nelle dee Artemide e Diana, mentre secondo la mitologia giapponese la divinità della luna è un dio maschile. Del dio Tsukuyomi si parla infatti nel “Kojiki” (“Cronache di antichi eventi”, 712), dove viene narrata la creazione del mondo e la nascita dei tre fratelli: Amaterasu (dea del sole), Tsukuyomi e Susanō (dio della tempesta e del mare). Al giorno d’oggi esistono 85 santuari dedicati a Tsukuyomi, sparsi per tutto il Giappone.
Continuando a esaminare i capolavori della letteratura, si può poi trovare un passo nello “Tsurezuregusa” (“Ore d’ozio, 1330 – 1332) di Yoshida Kenkō dove l’autore, parlando della luna, riesce a condensare in poche parole un concetto fondamentale dell’estetica giapponese, secondo cui c’è bellezza anche e soprattutto fuori dalla “perfezione”. Nel capitolo 137 si legge infatti:
“I fiori di ciliegio son forse da ammirare soltanto nel massimo rigoglio e la luna nel suo pieno splendore? Vagheggiare la luna brumosa attraverso la pioggia o ignorare al chiuso di una buia stanza quanto avanzata sia la primavera: com’è più intenso allora l’incanto! Ancora, le punte dei rami dei ciliegi quando stanno per schiudersi i fiori, o un giardino tappezzato di petali caduti...: quante altre sono le scene mirabili!”. (1)
Troviamo poi l’astro notturno anche tra i classici moderni, per esempio in opere come il racconto “Sangetsuki” (“Cronaca della luna sul monte”, 1942) di Nakajima Atsushi. Nel passaggio che dà il titolo all’intero racconto, uno dei più toccanti, si legge:
E per un po’ di tempo, limpida e sonora, si udì la voce di Li Zheng, che dal boschetto recitava le sue poesie. […]
Cosa rimane della gloria passata?
tu vai in carri dorati
e io striscio per terra.
Questo dolore dicevo stanotte
ruggendo alla luna
che illumina il monte.
Già la luna impallidiva nella fredda luce del mattino, la rugiada cadeva più fitta e il vento gelido che attraversava gli alberi annunciava l’alba. (2)
La luna appare in molte forme nelle opere giapponesi, a testimonianza di quanto sia un riferimento familiare al loro pubblico che, nonostante il tempo e le modalità, continua ad ammirarla stagione dopo stagione.
(1) Traduzione a cura di Adriana Boscaro.
(2) Traduzione di Giorgio Amitrano.
Francesca Mora
Il koto, lo strumento nazionale giapponese
Il koto (箏) è uno strumento tradizionale a corde, costituito principalmente da una tavola in legno di paulonia, tredici corde e i ponticelli mobili che le sostengono. Non solo è uno strumento molto antico, ma è anche stato riconosciuto come strumento nazionale del Giappone.
L’antenato del koto, il guzheng, fece il suo ingresso in Giappone nella seconda metà del periodo Nara (710 - 794) grazie agli scambi diplomatici tra il Giappone e la Cina T’ang. Dopo la sua introduzione nel Paese, questo strumento si affermò a partire dal secolo successivo come uno degli strumenti caratteristici della musica di corte. La sua presenza nelle vite degli aristocratici dell’epoca è testimoniata da molte opere letterarie del periodo Heian (794 - 1185), come ad esempio il “Makura no sōshi” (Note del guanciale) di Sei Shōnagon, il “Genji monogatari” (La storia di Genji) di Murasaki Shikibu o lo “Heike monogatari” (Storia della famiglia Taira). In un celebre passo del “Genji monogatari”, il principe Genji si innamora di una fanciulla sconosciuta ascoltando il koto da lei suonato. È grazie a episodi come questo che dall’epoca classica in poi, la musica del koto è considerata dai giapponesi come elegante e romantica.
All’epoca dell’arrivo del guzheng in Giappone, la parola “koto” indicava in modo generico gli strumenti a corda; tuttavia, dopo l’evoluzione e differenziazione di diversi strumenti, andò a indicare specificatamente il “sō no koto” (箏のこと), utilizzato presso la corte, a differenza del “kin no koto” (琴のこと), strumento molto simile ma senza ponticelli mobili. Al giorno d’oggi nella lingua scritta i due caratteri utilizzati per designare questi strumenti sono pressoché intercambiabili per indicare il sō no koto. Il nome degli strumenti, invece, è rimasto ben distinto, permettendo la distinzione tra kin e koto.
La tavola del koto viene solitamente poggiata a terra, è lunga circa due metri e larga tra i 24 ed i 25 cm, e, nonostante sia comunemente in legno di paulonia, la sua lavorazione può essere molto diversa, anche a seconda dell’artigiano che la crea. Si possono infatti trovare esemplari con bellissime decorazioni intarsiate in avorio, ebano, madreperla, guscio di tartaruga o figure metalliche, rendendo lo strumento un oggetto molto prezioso ed elegante. Originariamente, i ponticelli erano realizzati in avorio, che oggigiorno è sostituito dalla plastica o dal legno. Le corde, invece, possono essere ricavate da materiali diversi. Quelle tradizionali sono in seta gialla e, essendo più delicate, più costose e più deperibili rispetto alla loro controparte moderna, passano spesso in secondo piano. Ciononostante, a un orecchio esperto il suono prodotto risulta di qualità migliore, perciò alcuni musicisti ne fanno ancora uso.
Tra le varie parti che compongono il koto, i ponticelli giocano un ruolo fondamentale. Spostandoli o sostituendoli con altri di altezza diversa, infatti, cambia anche la nota prodotta. Oltre a ciò, i ponticelli richiedono particolare attenzione: dato che sono fragili si consumano facilmente e potrebbero rompersi. Suonare un koto antico, inoltre, può rivelarsi ulteriormente insidioso: la superfice su cui poggiano i ponticelli potrebbe risultare usurata, rischiando quindi di spostarli o persino farli cadere quando si tocca la corda.
Dietro al koto, il suonatore suona stando in ginocchio pizzicando le corde con tre plettri, indossati sui polpastrelli delle prime tre dita della mano destra. Questi possono essere squadrati o appuntiti e vengono scelti a seconda del tipo di musica che si intende suonare dato che la loro forma influenza il suono prodotto dalla corda. Come anticipato nelle prime righe dell’articolo, il koto ha solitamente tredici corde, ma ne esistono anche altri modelli dalle diverse funzioni. Ad esempio, quelli a diciassette corde producono note più profonde e nelle orchestre solitamente fungono da bassi.
Nel terzo millennio, il koto non è stato lasciato indietro, anzi, trova spazio anche nella musica contemporanea. Sono molti infatti i musicisti e cantanti giapponesi che lo includono nella propria musica contemporanea, spaziando dal jazz al pop e alla musica sperimentale. Andando indietro di qualche decennio e spostandoci nel panorama britannico, ritroviamo il koto persino in pezzi come “Moss Garden” (1977) di David Bowie, “Take It Or Leave It” (1966) dell’ex chitarrista dei The Rolling Stones Brian Jones, o ancora “The Red Flower of Tachai Blooms Everywhere” (1979) dell’ex chitarrista dei Genesis Steve Hackett. A questi esempi si aggiunge anche l’album “Silenziosa Luna” (2008), costituito da brani del compositore italiano Carlo Forlivesi. Questi brani sono interpretati da musicisti giapponesi di koto, biwa, un liuto a manico corto, chitarra e shakuhachi, un flauto in bambù.
Il koto è quindi uno strumento dalla lunga storia e tradizione, che ha l’adattabilità di fare ancora parte dello scenario musicale giapponese e non solo, grazie alle sue caratteristiche note che ancora fanno emozionare.
Francesca Mora
Gli yamabushi e il taki gyō
Nel vario panorama delle sette religiose più o meno riconosciute che operano in Giappone, una delle più iconiche e più antiche è quella degli yamabushi, monaci itineranti e asceti delle montagne.
Gli yamabushi sono praticanti dello Shugendō (修験道), religione che deriva dalla fusione di rituali, credenze e pratiche shintō e buddhiste. Si pensa che lo Shugendō affondi le sue radici nel periodo Nara (710 - 794), quando il Buddhismo, giunto in Giappone durante il secolo precedente, iniziò a mescolarsi con le religioni autoctone. Infatti, lo Shugendō si rifà al pantheon buddhista, riservando un posto d’onore per le figure di Fudō Myōō e del Buddha Dainichi, il Buddha cosmico. Oltre a questi elementi, si possono trovare anche culti tipici shintō come quelli della montagna e dei kami. Data questa sua caratteristica, lo Shugendō venne ufficialmente proibito nel 1872, durante gli anni di modernizzazione forzata del periodo Meiji (1868 - 1912), in quanto una delle politiche del governo dell’epoca era separare nettamente Buddhismo e Shintō, che fino ad allora avevano convissuto l’uno con l’altro nelle vite dei giapponesi, tanto che persino all’interno degli stessi templi e santuari non era raro trovare immagini o parti dello stesso complesso templare dedicati all’altra religione. Tuttavia, dopo la fine della Seconda guerra mondiale il movimento tornò a vivere grazie alla libertà religiosa concessa dalla nuova costituzione.
Una delle pratiche tipiche dello Shugendō è il taki gyō (滝行), termine che indica i rituali e le prove ascetiche svolti sotto una cascata. L’atto si basa sul timore reverenziale provato nei confronti degli spiriti e divinità che risiedono nella cascata e può avere diversi obiettivi, come ad esempio l’ottenimento dell’illuminazione, di un miracolo, di poteri ed energia spirituali oppure la purificazione, la liberazione dai mali o un esorcismo. Solitamente, si indossa il cosiddetto gyōi (行衣), un abito completamente bianco simile allo yukata. Dopo essere stati purificati con sale, sakè o conchiglie, si effettuano poi esercizi di riscaldamento. A questo punto ci si può dirigere in preghiera verso la cascata, intonando mantra, recitando sutra o preghiere a seconda della scuola o setta di appartenenza. Una volta posizionatisi direttamente sotto il corso d’acqua, si deve resistere alla bassa temperatura della cascata e al suo impatto contro il corpo, così facendo comincerà a rimanere soltanto la sensazione di essere colpiti dall’acqua senza sentire più freddo e fatica. Una volta usciti e asciugati, occorre poi riscaldarsi. In questo modo, la forza dell’acqua è in grado di eliminare tutte le distrazioni terrene di chi vi si sottopone, facilitando quindi la concentrazione. Inoltre, permette di affrontare la natura e diventare un tutt’uno con essa, riducendo anche lo stress.
Tuttavia, al giorno d’oggi, il taki gyō è una pratica diffusasi anche tra i laici, che la eseguono per diversi motivi non religiosi. Ad esempio, può essere un espediente per fuggire dal caldo estivo, un allenamento per migliorare nelle arti marziali o negli sport, un addestramento a cui vengono sottoposti i nuovi impiegati di aziende private o un’esperienza organizzata per i turisti stranieri in visita in Giappone. Non è raro nemmeno assistere a un taki gyō durante un programma televisivo: celebrità, youtuber e personalità dello spettacolo contribuiscono alla popolarizzazione di queste pratiche anche nel mondo contemporaneo, nonostante siano nate come tecniche segrete riservate agli yamabushi. A testimonianza di ciò, si possono trovare facilmente diversi siti internet che consigliano le località migliori per il taki gyō a seconda della regione, oltre a pubblicare liste di benefici che ne possono conseguire.
Il taki gyō è quindi una delle tante pratiche ascetiche a cui gli yamabushi si sottopongono per allenare il corpo e, soprattutto, la mente, per disfarsi delle preoccupazioni e tentazioni terrene, ma può anche essere un modo alternativo per apprezzare la natura e distrarsi dalla calura estiva.
Francesca Mora
L’Obon, la luce che illumina l’estate
Una delle festività giapponesi più importanti durante l’anno è sicuramente l’Obon (お盆), la festa buddhista degli antenati e dei defunti, che si tiene generalmente per alcuni giorni a metà agosto, ma in alcune località cade un mese in anticipo. La differenza di periodo è dovuta principalmente all’utilizzo del calendario: l’Obon è celebrato infatti nel settimo mese, identificato con luglio secondo il calendario solare o con agosto secondo quello lunare. Durante questo periodo sono molti gli uffici e scuole che chiudono, creando così l’opportunità per le persone di visitare le rispettive famiglie.
Il nome ufficiale di questa ricorrenza è “urabon’e” (盂蘭盆会) e deriva dal sanscrito “ullambana” (“appeso al contrario”). Inoltre, in giapponese “bon” (盆) significa “vassoio”, ed è su questo oggetto che vengono sistemate le offerte per gli antenati. Secondo alcune teorie, nel tempo questa parola ha finito per indicare gli spiriti dei defunti stessi così da fondersi con “urabon’e”, diventando così il nome della festività.
L'origine della festa deriva dall’Ullambanasūtra. Questo sutra parla della pietà filiale e in particolare racconta che Maudgalyāyana (in giapponese Mokuren), uno dei più importanti discepoli del Buddha Gautama Siddhartha, riuscì a ritrovare la madre defunta grazie ai suoi poteri spirituali. Lo spirito era però condannato a soffrire la fame e la sete rimanendo appeso a testa in giù. Mokuren chiese quindi al Buddha il motivo di questo supplizio, e gli venne risposto che in una vita precedente la donna si era rifiutata di offrire cibo in elemosina a dei monaci, accumulando così karma negativo. Dopo questa spiegazione, il discepolo chiese quindi come avrebbe potuto aiutare la madre. La risposta del Buddha fu di invitare dei monaci il quindicesimo giorno del settimo mese, a preparare delle offerte e celebrare un rito per i defunti. Mokuren seguì le indicazioni e riuscì a mandare la madre in paradiso.
In occasione di Obon si ricordano e si celebrano gli antenati, diventando quindi un momento di ritrovo e condivisione. Le lanterne sono uno dei simboli più riconoscibili di questa festività. I preparativi possono cominciare già dal primo giorno del mese: da quel momento in poi i giapponesi visitano e curano le tombe dei propri cari, preparano le lanterne e rassettano e preparano l’altare domestico. La sera del primo giorno di Obon, il 13, le lanterne vengono disposte e accese davanti alle abitazioni, così che gli spiriti possano trovare con più facilità la strada di casa. Tra il 14 e la mattina del 16 si fanno offerte sugli altari domestici, dove si pensa che gli antenati alloggino. Durante la sera dell’ultimo giorno, il 16, si accendono fuochi che riaccompagneranno gli spiriti nell’aldilà. I fuochi possono essere anche scenografici, come accade in cinque monti nei dintorni di Kyōto. Altre attività caratteristiche sono il rilascio delle lanterne, recanti desideri o messaggi, lungo i fiumi o in mare, o danze bon odori che cambiano da zona a zona, rendendo l’evento molto simile a un matsuri.
Oltre alle lanterne, durante l’Obon vengono esposti altre decorazioni molto particolari, lo shōryō uma (精霊馬, “spirito del cavallo”) e lo shōryō ushi (精霊牛, “spirito del bue”), che consistono in un cetriolo e una melanzana a cui sono stati aggiunti dei bastoncini in modo che questi sembrino le “gambe” degli ortaggi. Questi rappresentano gli spiriti degli animali che aiuteranno gli spiriti nel loro viaggio verso il mondo terreno: il primo giorno di Obon sarà il cavallo a portare velocemente i defunti alle proprie famiglie, mentre al contrario il bue permetterà loro di andarsene con calma una volta finito il tempo loro concesso. Entrambe le decorazioni vengono sistemate sull’altare o davanti alla casa.
Nonostante sia una festa celebrata in tutto il Giappone, come anticipato precedentemente, i giorni e i modi in cui viene osservata non sono sempre gli stessi, cambiano da regione a regione o persino da famiglia a famiglia. Ci sono quindi diverse categorie di Obon:
- Hatsubon (初盆) “il primo Obon”
È il primo Obon che la famiglia di un defunto celebra dopo i consueti 49 giorni di lutto, perciò si festeggia con particolare attenzione e cura.
- Kyūbon (旧盆) “il vecchio Obon”
È l’Obon celebrato in agosto secondo il “vecchio” calendario lunare, mantenuto in quanto nel mese di luglio le persone erano particolarmente indaffarate nei campi e quindi non era un buon momento per dedicarsi alle celebrazioni. A differenza del resto del Paese che festeggia ogni anno dal 13 al 16, la prefettura di Okinawa e l’arcipelago di Amami (prefettura di Kagoshima) seguono il calendario lunare anche nel contare i giorni, quindi le date variano anno per anno.
- Shinbon (新盆) “il nuovo Obon”
Si tratta dell’Obon che segue il calendario solare, adottato nel periodo Meiji (1868 - 1912). Le località che festeggiano a luglio sono l’area di Tōkyō, le prefetture di Kanagawa e Shizuoka, la parte di città vecchia di Kanazawa nella prefettura di Ishikawa e alcune aree della prefettura di Kumamoto.
Il termine viene però a volte utilizzato come equivalente di Hatsubon.
Da celebrazione religiosa a festival, l’Obon detiene ancora un posto importante all’interno del calendario giapponese; che sia festeggiato a luglio o ad agosto, è in grado di trasmettere ugualmente un senso di festa e comunità palpabile anche dai visitatori, rendendolo un evento assolutamente da non perdere.
Francesca Mora
Il magewappa arriva in Italia
Un altro assaggio di artigianato giapponese a Milano ci è stato offerto da Time & Style, che ha appena ospitato una mostra di oggetti realizzati con la tradizionale tecnica magewappa, la quale prevede la piegatura del legno attraverso il trattamento col vapore acqueo o la bollitura del materiale.
Time & Style è un brand di arredamento giapponese che vanta diversi showroom a Tōkyō, Ōsaka, Amsterdam e Milano, dove vengono esposti i loro prodotti di design. Questi spaziano dai mobili alle stoviglie, dalle lampade ad altri oggetti di uso quotidiano, e sono realizzati incorporando le tecniche di lavorazione tradizionali giapponesi con un gusto moderno, rispettando sempre il materiale utilizzato.
È in questo elegante contesto che è stata allestita la mostra “ODATE MAGEWAPPA Handcrafted Japanese Akita Cedar Objects for Everyday Life”. Prima di arrivare sugli scaffali di Time & Style, gli oggetti esposti si trovavano già in Italia presso l’Università degli Studi di Milano, grazie a una collaborazione con la città di Ōdate, nella prefettura di Akita, luogo d’origine della tecnica magewappa. La città giapponese ha poi voluto continuare l’esposizione, scegliendo gli spazi dello showroom come sede della mostra, che verrà poi ospitata in altre città italiane in un vero e proprio tour culturale, il quale in autunno vedrà come prossima tappa Faenza.
Il legno lavorato con la tecnica magewappa a Ōdate è tradizionalmente quello di cedro, materiale da cui sono stati ricavati tutti gli oggetti in mostra. Il legno, che conferisce all’oggetto il suo tipico aroma, presenta due caratteristiche particolari: curvatura e venature, lineari e sottili, che testimoniano il clima freddo del nord del Giappone. La curvatura, dovuta come anticipato precedentemente dalla lavorazione, viene solitamente fissata con dei ganci durante il processo di essiccazione del materiale per mantenere l’oggetto nella forma desiderata. La tecnica tradizionale prevede l’utilizzo di riso bollito schiacciato, che essendo glutinoso funge da collante, insieme a una cucitura in corteccia di ciliegio. Comprensibilmente, al giorno d’oggi il riso non viene più utilizzato e viene sostituito da un collante più resistente.
La tecnica magewappa veniva inizialmente impiegata per produrre lunchbox o bicchieri per il sakè, ma oggi le applicazioni sono molto varie: si possono creare non solo diversi tipi di contenitori, ma anche vassoi, piatti e portafrutta, dimostrando quanto questa tecnica, antica più di quattrocento anni, abbia ancora molto da dare e dimostrare.
Gli oggetti in mostra derivano da cinque laboratori diversi di magewappa, tutti con base a Ōdate. Questi puntano a mantenere viva la tradizione, non solo producendo oggetti esteticamente belli, ma soprattutto cercando di educare un pubblico sempre più vasto ad apprezzare la ricerca, il materiale, la storia che sta dietro a essi, sia intesa come radici che come tempo impiegato per la realizzazione. Inoltre, i laboratori non solo puntano alla preservazione del magewappa, ma ne indagano nuove e moderne sfaccettature, ad esempio impiegando colorazioni a contrasto con il colore naturale del legno o realizzando pattern sulla sua superficie, gettando le fondamenta per una nuova evoluzione e reinterpretazione del magewappa di Ōdate.
La sopravvivenza dell’artigianato è un problema generale e impellente, che emerge criticamente in tutto il Mondo. Per questo, gli sforzi in atto per contrastare la perdita di know-how e cultura, che stanno alla base di queste tecniche, sono sempre maggiori, come dimostra l’impegno della città di Ōdate nel far conoscere questa sua tradizione unica e preziosissima.
Francesca Mora
Il kimono, l’artigianato tessile giapponese e gli italiani: un legame sempre più stretto
Uno dei temi alla base della mostra “The line between kimono and art vol. II”, tenutasi presso la Fondazione Matalon fino allo scorso 13 luglio, è stato senza dubbio l’artigianato. Il focus su questo aspetto era certamente presente nei kimono “finiti” esposti sui manichini, firmati da Koji Fukumoto, ma era soprattutto visibile nelle opere curate da Mamiko Ikeda, che mettevano invece in risalto il tessuto, la tintura della stoffa e le tecniche utilizzate per dare texture particolari o caratteristiche speciali al tessuto. Ne era un esempio la stoffa di Hakata, nella prefettura di Fukuoka, la cui particolarità risiede in una tessitura molto fitta volta ad aumentarne significativamente la resistenza.
Non è però una novità che l’artigianato abbia un’importanza particolare per Ikeda. Il suo interesse per le tecniche manifatturiere tradizionali sta infatti alla base del suo percorso personale: la sua volontà di tramandare ai giovani e ai posteri la tradizione del kimono e della sua manifattura è da anni il suo obiettivo. In Giappone ci sono già sforzi dedicati a questa causa, perciò ha unito il suo obiettivo con la sua passione per l’Italia, volgendo quindi lo sguardo al nostro Paese, trovando, dice Ikeda, una cultura dell’artigianato tessile simile nei due Paesi, portando quindi giapponesi e italiani ad avere una sensibilità affine nell’apprezzare e nel cercare di mantener vive le tradizioni.
Questa sensibilità si può vedere anche nell’apprezzamento che hanno gli italiani per l’abito tradizionale giapponese. Ikeda spiega infatti che ci sono due macro-tipologie di kimono per quanto riguarda lo stile: una si focalizza sui pattern, quindi presenta una grande quantità di disegni realizzati per esempio con la tecnica yūzen, che prevede l'applicazione del colore a mano e l’utilizzo di diversi stencil per creare il design; mentre l’altra pone l’accento sul tessuto con tecniche come quella shibori, una sorta di tie-dye tradizionale con pigmenti naturali. Non è difficile per un non giapponese capire e apprezzare un kimono dal design ricco come può esserlo uno realizzato con la tecnica yūzen, mentre invece approcciarsi a un tessuto apparentemente più grezzo, a causa della texture particolare e della tintura non uniforme, può risultare più complesso. Tuttavia, secondo Ikeda, gli italiani riescono ad apprezzare entrambi questi stili molto diversi e a riconoscere la presenza (e il valore) di un abile artigiano dietro alla manifattura dei tessuti, nonostante questa sia molto più evidente nei kimono della prima tipologia.
Per raggiungere il suo scopo, Mamiko Ikeda ha quindi fondato “Kimono Wajaku”, attività di noleggio, vestizione e lezioni di vestizione del kimono con base a Milano. Il focus delle lezioni offerte è rivolto al fornire agli studenti le basi per poter vestire il kimono in modo autonomo, così da portarlo con serenità e sicurezza, anche grazie a eventuali modifiche e tocchi di stile personali. Secondo Ikeda, infatti, la chiave per far proprio il mondo del kimono è il divertimento: andare oltre alla lezione formale e portare il kimono liberamente, facendo quindi della veste giapponese un proprio indumento quotidiano senza aspettare un’“occasione” per farlo. Per questo motivo gli abbinamenti con capi e accessori moderni vanno visti come un’espressione della personalità e creatività di chi li indossa, oltre all’amore per il kimono. L’obbiettivo di Ikeda si può quindi riassumere nel riuscire a trasmettere principalmente le conoscenze di base affinché lo studente possa poi giocare con forme, colori e stili secondo il proprio gusto e stile, tramandando la tradizione seppur facendola evolvere e proiettandola verso il futuro.
Dopo più di una decina d’anni di esperienza con “Kimono Wajaku”, l’anno scorso Ikeda ha partecipato all’evento “Kimono Experience” nell’ambito della mostra “Storie di donne samurai” presso Tenoha. In quest’occasione ha potuto vestire con uno yukata, il kimono estivo in cotone, 700 italiani, a testimonianza del riscontro positivo con il pubblico e dell’interesse sempre crescente che gli italiani nutrono nei confronti dell’abito tradizionale giapponese. Tuttavia, Ikeda sente che si può fare ancora molto per coinvolgere sempre più persone, anche a livello europeo, e trasmettere loro la passione per continuare a preservare il tesoro culturale dell’artigianato tessile giapponese, tanto ricco quanto fragile, ma tutto da scoprire.
Francesca Mora
GOLDEN WEEK: QUANDO I GIAPPONESI RIPOSANO
Golden Week (ゴールデンウィーク, gōruden wīku, lett. “Settimana d’Oro”) è il nome dato in Giappone al periodo dell’anno che va dal 29 aprile al 5 maggio, ed è senza dubbio la settimana di ferie per eccellenza dei giapponesi, quella in cui la maggior parte delle scuole e delle aziende chiudono i battenti per concedere agli studenti ed ai dipendenti un po’ di tempo da dedicare al relax, ai viaggi ed al divertimento. È proprio in questi giorni infatti che si riscontra un aumento dell’affluenza negli hotel e nei luoghi d’interesse del Paese, che approfittano dell’occasione per fare incetta di vendite.
Ma come mai proprio dal 29 aprile al 5 maggio?
Semplice: 4 festività nazionali raggruppate in una sola settimana permettono di godere di un ponte lungo 7 giorni.
Tra il compleanno dell’imperatore, la Costituzione, la natura ed i bambini… Sono tantissime le ricorrenze da festeggiare! Ma andiamo con ordine e capiamo di che festività si tratta, una per una.
IL GIORNO SHŌWA (昭和の日, Shōwa no hi)
Photo credits: www.nihonjapangiappone.com
Inizialmente, il 29 aprile si celebrava il compleanno dell’imperatore Hirohito, che regnò sul Giappone dal 1926 al 1989, fino alla sua morte. A quel punto si pensò di sostituire la ricorrenza con un’altra festa: il “Giorno del Verde”, in onore della sua passione per la natura.
Nel 2005 la festività esistente venne nuovamente spostata per introdurre una giornata di riflessione sulla guerra e sui suoi aspetti distruttivi; ecco che nacque il Giorno Shōwa (lett. “pace illuminata”), in onore dell’era Shōwa, ovvero il lungo periodo di pace in cui governò l’imperatore Hirohito.
FESTA DELLA COSTITUZIONE (憲法記念日, Kenpo kinenbi)
Photo credits: www.matteoingiappone.it
Si tratta di una ricorrenza indetta per festeggiare l’anniversario di promulgazione dell’attuale Costituzione Giapponese, nata nel 1947, che dipinge l’imperatore come simbolo di pace ed unione della nazione. In questo giorno, che cade ogni anno il 3 maggio, il Giappone pullula di eventi riguardanti il concetto di democrazia e l’importanza della Costituzione vigente.
GIORNO DEL VERDE (みどりの日, Midori no hi)
Photo credits: tech.everyeye.it
Se fino al 2005 si festeggiava il 29 aprile, da quell’anno in poi venne spostato al 4 maggio. Il Giorno del Verde vuole celebrare la natura in tutte le sue forme, entità imprescindibile nella vita e nella filosofia giapponesi. Difatti il 4 maggio si cerca di avvicinare grandi e piccini al mondo naturale attraverso attività all’aperto, per esempio pulizia dei parchi pubblici, semina di piante ed eventi immersi nel verde. Così si intende sensibilizzare sul tema dell’ecologia e dell’importanza delle piante per la vita umana.
FESTA DEI BAMBINI (子供の日, Kodomo no hi)
Photo credits: www.bambinopoli.it
Il Giorno dei Bambini cade il 5 maggio, per augurare vigorosità nella crescita, virtù, buona salute e felicità a tutti i bambini. Prende il nome che conosciamo oggi nel 1948, e diviene subito pregna di tradizioni curiose da rispettare: sui balconi compaiono le carpe koi di carta, simbolo di coraggio e spirito di volontà perché notoriamente sfidano le correnti dei fiumi viaggiando controcorrente; inoltre è usanza esporre in casa elmi o addirittura armature di samurai, o ancora bambole di Kintaro, un bambino dalla forza sovraumana protagoniste di molte leggende del folklore giapponese.
Testo di Martina Condello, martinacondello.cm@gmail.com
GIAPPONISMO, le influenze giapponesi nell'Europa dell'Ottocento.
photo credits: arteworld.it Con il termine Japonisme, o Giapponismo nella versione italianizzata, si intende definire un fenomeno diffusosi nell’Ottocento in Europa e più massicciamente in Francia: artisti e mecenati europei subirono il fascino dell’oggettistica e delle stampe giapponesi che in quegli anni raggiunsero l’Occidente in grandi quantità, influenzando lo stile artistico di grandi pittori e scultori dell’epoca, come Claude Monet, Éduard Manet, Edgar Degas, Gustav Klimt e Vincent Van Gogh. La domanda sorge spontanea: come mai nell’Ottocento si verificò questa grossa importazione di opere provenienti dal Giappone? Quali furono gli eventi storici alla base del Giapponismo? Nel 1641, lo Shōgun (comandante dell’esercito feudale) Tokugawa Iemitsu emanò un editto con il quale diede inizio al cosiddetto Sakoku, ovvero “Paese incatenato”, un periodo di chiusura semi-totale del Giappone verso gli altri paesi; un governo conservatore che limitò severamente i commerci con l’estero, permettendo l’accesso di navi straniere solo da determinati porti, e minimizzò gli scambi culturali con il resto del mondo. Fino al 1853, quando uno degli avvenimenti più controversi della storia giapponese interruppe il Sakoku: le Navi da guerra del commodoro statunitense Matthew Perry attraccarono nella baia di Tōkyō, durante l’Epoca Edo, sancendo l’inizio di una serie di pressioni e trattative insistenti volte alla riapertura del Giappone. Fu proprio la fine del Sakoku a facilitare l’arrivo di merce giapponese in tutta Europa (e negli Stati Uniti): dalle suppellettili, alle stoffe, fino alle “immagini del mondo fluttuante”, le ukiyo-e, che affascinarono talmente tanto gli artisti dell’epoca da modificare permanentemente il loro modo di fare arte. Commodoro Matthew Calbraith Perry (1794-1858) photo credits: musubi.it photo credits: thecollector.com Durante il Periodo Edo (1603-1868), nelle città più grandi del Giappone, sì andò pian piano consolidando un nuovo ceto sociale assente dalla rigida piramide sociale che rappresentava il sistema feudale vigente: la figura del cittadino borghese, abitante dei grandi centri urbani, personaggio principale del “mondo fluttuante”, ovvero della trama socioeconomica che intesseva le grandi città. Il cittadino di ceto medio era colui che conduceva un’esistenza dissipata, rincorrendo ai piaceri della vita nella bolla illusoria ed effimera della sua città. Le stampe Ukiyo-e erano pensate proprio per rappresentare le bellezze come i vizi di questa società: molte infatti raffigurano scene ambientate nei quartieri proibiti delle città, dove i cittadini incontravano geisha e cortigiane, altre invece raffigurano paesaggi innevati, ciliegi in fiore e la potenza del mare, altre ancora attori di teatro impegnati nelle loro performance o semplicemente scene di vita quotidiana. Fu soprattutto grazie all’osservazione e alla collezione delle ukiyo-e che i pittori impressionisti francesi si cimentarono in nuovi stili più esotici, costellando le loro opere di personaggi orientaleggianti come geisha e samurai. A chiusura lascio i riferimenti dei tre quadri in foto all’inizio dell’articolo, come esempio lampante del Giapponismo pittorico caratterizzato da forme essenziali, asimmetria e spesso assenza di prospettiva, colori piatti ma vivaci e contorni accentuati: Ritratto di Père Tanguy di Vincent Van Gogh, Ritratto di Émile Zola di Édouard Manet e Mary Cassatt al Louvre di Edgar Degas. Testo di Martina Condello, martinacondello.cm@gmail.com
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DAL MONDO FLUTTUANTE ALLE TELE FRANCESI
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Tsukimi, il festival della Luna e il Coniglio lunare
photo credits: asiancustoms.eu Queste parole si riferiscono all’usanza tradizionale giapponese di celebrare la Luna e il raccolto autunnale. In Giappone si ritiene che la luna più bella dell’anno sia quella autunnale, visibile durante il plenilunio di settembre, noto come plenilunio del raccolto o harvest moon: la luna piena più vicina all’equinozio d’autunno. Ma non solo per il Giappone, questo periodo è speciale in tutta l’Asia: in Cina si celebra la Festa di Metà Autunno, in Giappone si osserva la luna Tsukimi , mentre in Corea si festeggia Chuseok, la festa della Luna del Raccolto. E quest’anno la festa dello Tsukimi cade il 29 settembre, proprio questo venerdì. I due termini giapponesi vogliono sottolineare i festeggiamenti che comprendono la Luna e l’equinozio d’autunno. Jugoya è una parola che intende la quindicesima notte dell’ottavo mese nel calendario lunare, usato nella tradizione giapponese, nella quale cade la Luna piena più vicina all’equinozio autunnale, mentre Tsukimi è la parola utilizzata per chiamare il festival giapponese della Luna, e significa letteralmente “Guardare la Luna”. La tradizione dello Tsukimi nasce nell’Epoca Heian, influenzata dall’usanza del festival autunnale cinese dell’élite aristocratica, che si ritrovava per ascoltare musica e recitare o comporre poesie al chiaro di luna. Solo nel 1600 questa celebrazione passo dall’essere festeggiata unicamente dall’aristocrazia giapponese al diventare parte della tradizione popolare, nella quale non si festeggiano più solo le arti musicali e letterarie, ma anche la festa del raccolto autunnale, dove il riso veniva offerto agli Dei come ringraziamento. Lo Tsukimi entrando a far parte delle tradizioni esistenti giapponesi, prese ad essere una festa piuttosto solenne. Questo portò alla creazione di cibi tradizionali per l’evento, il più famoso lo Tsukimi dango un tipo particolare di gnocco di riso, rotondo e bianco che celebra la bellezza della luna, e si dice che porti felicità e buona salute nell’anno successivo se mangiato durante la notte di luna piena; delle decorazioni particolari, come ad esempio il susuki, o erba della pampa, posta nel luogo dove si osserverà la luna, perché si crede difenda l’area dal male; e anche visite al santuario, bruciare incenso nei templi e offrire cibo agli Dei. Inoltre questa festa, celebrando la Luna, porta alla luce una credenza giapponese che posiziona i conigli come abitanti del suolo lunare, e noi, di Giappone in Italia, che abbiamo come simbolo della nostra associazione un coniglio siamo pronti a spiegarvi nei dettagli da dove nasca questa credenza. I giapponesi non sono gli unici a credere nella presenza di questi animali sulla luna, anche i cinesi e i coreani condividono la stessa idea dove, “non sia l’uomo a camminare sulla Luna, ma i conigli”. La più antica testimonianza del mito del coniglio lunare risale al Periodo dei regni combattenti dell’antica Cina (453 a.C. al 221 a.C), nel quale viene menzionata la credenza per la quale sulla Luna, insieme ad un rospo, si troverebbe un coniglio occupato a sminuzzare nel suo pestello le erbe per l’immortalità. Tuttavia questo mito narra solo della sua presenza sul satellite terrestre, mentre solo leggendo il Śaśajâtaka, un racconto buddhista, si può scoprire come questi piccoli animali siano arrivati così lontano. Il racconto narra di quattro amici animali, una scimmia, una lontra, uno sciacallo ed un coniglio che, nel giorno sacro buddista di Uposatha (dedicato alla carità e alla meditazione) decisero di cimentarsi in opere di bene. Avendo incontrato un anziano viandante, sfinito dalla fame, i quattro si diedero da fare per procacciargli del cibo; la scimmia, grazie alla sua agilità, riuscì ad arrampicarsi sugli alberi per cogliere della frutta; la lontra pescò del pesce e lo sciacallo, sbagliando, giunse a rubare cibo da una casa incustodita. Il coniglio invece, privo di particolari abilità, non riuscì a procurare altro che dell’erba. Triste ma determinato ad offrire comunque qualcosa al vecchio, il piccolo animale si gettò allora nel fuoco, donando le sue stesse carni al povero mendicante. Questi, tuttavia, si rivelò essere la divinità induista Śakra e, commosso dall’eroica virtù del coniglio, disegnò la sua immagine sulla superficie della Luna, perché fosse ricordata da tutti. È quindi grazie al suo spirito virtuoso e caritatevole che il coniglio arrivò sul suolo lunare. Da questo racconto nacquero, con il tempo diverse versioni, con protagonisti a volte diversi, ma sempre con il medesimo finale, una divinità celeste che porta o pone la figura del coniglio sulla Luna. Ad esempio ecco un’altra versione, una leggenda giapponese che racconta: “Molto tempo fa, il Vecchio della Luna decise di visitare la Terra. Si travestì come un vecchio mendicante e chiese a Saru (scimmia), Kitsune (volpe) e Usagi (coniglio) un po‘ di cibo. Saru, la scimmia, si arrampicò su un albero e gli portò qualche frutto. Kitsune, la volpe, andò ad un corso d’acqua e gli afferrò un pesce. Ma Usagi, il coniglio non trovò nulla per lui da mangiare, se non l’erba. Così, invece, Usagi chiese al mendicante di accendere un fuoco. Dopo che il mendicante costruì il fuoco, Usagi vi saltò dentro e si offrì come pasto. Improvvisamente, il mendicante si trasformò di nuovo nel Vecchio della Luna e salvò Usagi dalle fiamme. E gli disse: “Usagi-san, non farti del male per causa mia. Dal momento che sei stato il più gentile di tutti, io vi porterò indietro sulla luna a vivere con me.” Ed è tramite questi racconti dal contenuto educativo e testi mitici, che si è arrivati a credere che la luna sia abitata da conigli il cui lavoro è schiacciare erbe per l’immortalità o altri ingredienti, come ad esempio il riso per creare il tipico dolce giapponese chiamato mochi, anche perché il termine mochizuki in giapponese significa luna piena, ma suona anche come la parola per preparare i mochi, “mochizukuru”. Cosa ne pensate, questo venerdì osservando la luna cercherete la figura di un coniglio intento a lavorare? photo credits: asiancustoms.eu Articolo di Elena Ferrario, Stagista presso l’Associazione Giappone in Italia
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Tsukimi e Jugoya
Tsukimi, il festival della Luna
Il Coniglio lunare
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Approfondimenti: La rivolta di Shimabara
La rivolta di Shimabara fu un episodio particolarmente violento della storia del Giappone, in cui persero la vita molte persone di fede cristiana. Siete curiosi di scoprire le cause di questa ribellione e cosa successe in quei giorni? Questa è una storia che non tutti conoscono. Photo credits: alchetron.com La rivolta di Shimabara ebbe luogo nell’era Tokugawa del Giappone (1600-1868), e durò ben cinque mesi, dal dicembre del 1637 all’aprile dell’anno dopo. Tutto iniziò dal discontento che serpeggiava tra i contadini della penisola di Shimabara e Amakusa, a metà degli anni ’30 del 1600. Infatti, il popolo era stanco di dover subire le angherie dei lord locali, da cui venivano tassati in modo sproporzionato. Inoltre, gli effetti della carestia avevano fatto soffrire gli strati più bassi della popolazione, che pativano ancora la fame. I lord locali, inoltre, perseguivano gli abitanti di queste regioni perché erano cristiani. Infatti, il bando sul cristianesimo era stato introdotto dallo shogun Toyotomi Hideyoshi nel 1587, che vedeva la fede cattolica come una “perniciosa dottrina”. Photo Credits: alchetron.com Il governo centrale, infatti, temeva che il cristianesimo potesse mettere in dubbio le basi ideologiche su cui si fondava il Giappone. Di conseguenza, tale religione poteva minare il potere politico dello shogun e aprire il paese ad un’invasione europea. Per questo motivo, durante gli anni vennero fatti crocifiggere e torturare diversi cristiani giapponesi. All’insoddisfazione generale si unirono anche i rōnin (samurai senza padrone), non contenti delle condizioni nelle quali vivevano. Photo Credits: wikipedia.org L’inizio della rivolta si ebbe con l’assassinio di un magistrato locale nel 17 dicembre del 1637. Il leader della ribellione fu un giovane di sedici anni, molto carismatico, dal nome di Amakusa Shirō. I ribelli, dopo alcune battaglie, si radunarono nel castello di Hara, costruendo delle vere e proprie fortificazioni fatte di legno. Tuttavia, ben presto le forze dello shogunato Tokugawa iniziarono l’assedio della roccaforte, il più grande da quello di Osaka del 1615. A prendere parte all’assedio fu anche il famoso spadaccino Miyamoto Musashi, in qualità di consigliere di un daimyō. Di Musashi si racconta che venne disarcionato da cavallo a causa di una pietra tiratagli da un contadino. L’assedio si concluse nell’aprile del 1638. I ribelli finirono a corto di cibo e furono annientati dall’esercito alleato, non senza prima aver causato ingenti perdite a quest’ultimo. Photo credits: mag.japaaan.com I 37.000 ribelli furono tutti decapitati. Tra questi vi era anche Amakusa Shirō, la cui testa venne esposta a Nagasaki per un lungo lasso di tempo, in segno di avvertimento. Inoltre, lo shogunato sospettava che dietro alla rivolta vi fossero i cattolici europei. Per questo motivo, espulse dal paese tutti i mercanti portoghesi e rese ancora più pesante il bando sul cristianesimo. Infatti, da questo momento in poi la comunità cristiana in Giappone sopravvisse solamente grazie alla segretezza con cui venivano svolti i vari riti. Questi cristiani venivano chiamati “kakure kirishitan”, i “cristiani nascosti”, che arrivavano a camuffare statuette cristiane con icone buddiste per non farsi scoprire dalle autorità shogunali. Unisciti a noi! Giappone in Italia è un’associazione culturale no profit. Le nostre attività sono possibili grazie anche al tuo contributo che ti permetterà di godere sempre di nuovi e originali contenuti! 20€/ANNO Unisciti a noi! Giappone in Italia è un’associazione culturale no profit. Le nostre attività sono possibili grazie anche al tuo contributo che ti permetterà di godere sempre di nuovi e originali contenuti! 20€/ANNOLe cause della rivolta
L’assedio di Hara
Le forze shogunali chiesero l’aiuto dell’esercito olandese, che gli fornì munizioni e armi di particolare potenza, come i cannoni. Tuttavia, tali armamenti non ebbero l’effetto desiderato, e anzi, i ribelli sbeffeggiarono le forze shogunali, deridendole per aver chiesto aiuto a stranieri.Le conseguenze
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