Approfondimenti: IKIGAI, la ragione di vivere

L’ikigai, ossia la ragione di vita che ci spinge ad alzarci dal letto ogni giorno, carichi di entusiasmo e guidati dalla nostra vocazione. Ma come arrivare a ciò? Come capire per cosa siamo stati messi al mondo? Scopriamolo insieme studiando meglio questo concetto tipico della filosofia giapponese!

Ikigai mood

photo credits: (via Instagram) @daisukephotography

Dare un senso alle nostre mattine grigie e noiose può risultare davvero difficile. Questo non solo perché spesso rimaniamo ingabbiati in una poco esaltante ma necessaria routine lavorativa, ma anche per via del fatto che non sappiamo bene cosa vogliamo veramente. E da una parte non è colpa nostra, dal momento che siamo distratti e costretti dal tran tran quotidiano, e l’unica cosa che facciamo una volta tornati a casa è buttarci sul letto, in attesa del mattino successivo. Ma non possiamo neanche negare che evitare di porci gli interrogativi giusti e indagare meglio su noi stessi sia sbagliato. Non possiamo trascurarci. Così come nutriamo il nostro corpo con il cibo, altrettanto dovremmo fare con la nostra anima e la nostra mente.

Cosa vuol dire Ikigai?

”Ikigai” è una parola composta, come spesso accade con il giapponese, ed è caratterizzata da ”iki” (vivere) e ”gai” (scopo, ragione). Ecco il motivo per cui molte volte questo pensiero viene inteso come ”la ragione di vivere”. Per la gente del Sol Levante, quella della ragione di vita è una faccenda seria, giacché determina chi siamo, la nostra felicità e il nostro contributo che offriamo alla società. Di conseguenza è importante capire qual è il ruolo che ci compete e cosa ci gratifica davvero.

Per avere un quadro chiaro di tutto questo è fondamentale conoscere noi stessi, e chiederci: ”cosa mi rende felice?” e ”in cosa sono bravo?”. Nel corso della nostra vita veniamo sottoposti a miriadi di mansioni, ma poche stimolano la nostra creatività e la nostra reale natura. Ci vengono insegnati e perpetrati un sacco di ideali e modi di vivere, ma in fondo in quasi nessuno di questi ci rispecchiamo. Allora che fare? Avere il coraggio di seguire le proprie passioni, di dedicarsi ad un’attività che ci piace al cento per cento, ecco cosa. Certamente è un percorso in salita, che richiede coraggio e anche un pizzico di fortuna, al giorno d’oggi. Tuttavia, ne va della nostra essenza, della nostra vocazione, e se il risultato è l’appagamento e l’entusiasmo, allora il gioco vale la candela.

L’autorealizzazione, la gioia e il tramutare i propri sogni in realtà sono alla base dell’Ikigai. Molto spesso, infatti, ci si può imbattere in una schematizzazione grafica di questo pensiero, dove tutti questi concetti si fondono in molteplici cerchi gli uni inanellati agli altri, a testimonianza del legame che intercorre tra loro, e di come non si possano scindere se vogliamo ottenere la felicità.

Ikigai

photo credits: Ikigai-Soluzioni.it

I collegamenti con l’Antica Grecia

D’altra parte anche nell’antica Grecia menti illuminate come quella di Platone avevano teorizzato un modello di città e stato ideale dove il meccanismo sociale funzionava solo quando ogni cittadino svolgeva i compiti cuciti su misura per lui, seguendo le sue inclinazioni artistiche e tecniche. E come scordarsi di una delle più famose massime confuciane che recita: ”se ami quello che fai, non sarà mai un lavoro”. È quanto mai opportuno, quindi, cercare sempre di fare quello per cui ci si sente vivi, perché fa bene a noi stessi e a chi ci sta intorno. E soprattutto perché dà un senso e uno scopo ai nostri giorni, facendoci alzare dal letto traboccanti di quell’energia e motivazione che può cambiare il mondo.

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Approfondimento: Il Terremoto del Giappone, 11 Marzo 2011

Il terremoto del Giappone nel 2011 fu un evento catastrofico, che ha lasciato un segno indelebile sul paese del Sol Levante. Infatti, a provocare ulteriore distruzione, furono le due conseguenze del sisma, ossia lo tsunami e l’esplosione della centrale nucleare di Fukushima. Ma cosa accadde precisamente quel giorno?

Il Terremoto: l’origine del disastro

terremoto del Giappone 2011

photo credits: ingvterremoti.com

Alle ore 14:46 (5:46 in Italia), un terremoto di magnitudo Mw 9.1 si generò nella prefettura di Miyagi, nell’isola di Honshu, a nord del Giappone. Si trattò di un cosiddetto terremoto megathrust. Tali fenomeni naturali consistono in una rottura lungo la faglia che prosegue per centinaia di chilometri, provocando non solo scosse telluriche, ma anche tsunami.

Infatti, la causa di questi ultimi risiede proprio nel rapido spostamento del fondo del mare. In questo caso, la faglia che separa la placca oceanica pacifica da quella di Okhotsk si mosse improvvisamente, generando il movimento tellurico.

terremoto del Giappone 2011

photo credits: history.com

Il sisma colpì principalmente la regione del Tōhoku, una delle zone più attive della Terra e frequente luogo di eventi di questo genere. L’ultimo infatti accadde nel 1933. Quello dell’11 Marzo fu uno dei cinque terremoti più violenti dal 1900, il più forte mai registrato in Giappone.

Lo tsunami e le sue conseguenze

Si successero ulteriori scosse nei minuti successivi, tutte di magnitudo inferiore alla prima, ma altrettanto violente. Infatti, molte parti di Tōkyō rimasero senza energia elettrica. Tuttavia, a causare ingenti danni e vittime fu proprio lo tsunami che avvenne pochi minuti dopo del sisma.

tsunami giappone

photo credits: ingv.it

Quest’ultimo fu talmente potente che interessò anche altre parti del mondo lontane dal Giappone, come ad esempio il Cile e le Hawaii. Il sisma generò onde alte più di 10 metri che si abbatterono sulle coste giapponesi a circa 750 km/h. Le prefetture di Iwate e Miyagi, entrambe nel Tōhoku, furono le più colpite.

Le conseguenze del maremoto furono disastrose. Il numero di vittime registrate ammonta ad un totale di circa quindicimila, mentre a rimanere disperse sono ancora più di quattromila persone. Inoltre, varie città subirono ingenti danni strutturali causati dal sisma. Ad esempio, il porto di Tōkyō e la Tōkyō Tower furono tra i primi luoghi della capitale a risentire della potenza del movimento tellurico.

L’esplosione della centrale nucleare

photo credits: tio.ch

L’11 marzo è ricordato anche come il giorno del triplice disastro del Tōhoku, che include, oltre al sisma e allo tsunami, l’esplosione della centrale nucleare di Fukushima. L’evento fu una diretta conseguenza del terremoto: l’enorme onda di maremoto si abbatté sull’impianto, che non era adeguatamente protetto. Infatti, l’onda superava di ben quattro metri le dighe che erano poste a protezione della centrale. Di conseguenza, il sistema di raffreddamento dei tre reattori fu distrutto e questi ultimi andarono incontro ad un meltdown completo. Le conseguenze furono gravi sia per la popolazione che per l’ambiente. Ci fu un aumento di casi di cancro alla tiroide per i bambini di Fukushima, e grande quantità di materiale radioattivo finì nell’oceano, contaminando l’ecosistema.

Terremoto del Giappone 2011: La risposta del governo

A seguito della catastrofe, il governo giapponese cercò di unire la popolazione di fronte alla tragedia. Di conseguenza, vennero ampiamente promosse attività di volontariato che videro coinvolti innumerevoli cittadini. Tra queste, figurano il risparmio volontario di energia elettrica e la partecipazione ad iniziative di aiuto e soccorso degli abitanti di Fukushima.

tohoku giappone

photo credits: japantimes.co.jp

La propaganda governativa utilizzò inoltre molti slogan e parole di carattere nazionalistico che incitavano i giapponesi a rimanere speranzosi e guardare verso un futuro migliore. Uno tra questi fu quello di “Ganbarō Nippon!”, traducibile approssimativamente come “Forza Giappone!” o “Ce la puoi fare, Giappone!”.
Inoltre, durante la catastrofe, il Primo Ministro Naoto Kan dichiarò che per il Giappone questo era “il momento più difficile dalla fine della seconda guerra mondiale”.

Terremoto del Giappone 2011: Il Tōhoku undici anni dopo

terremoto tohoku giappone

photo credits: japantimes.co.jp

Oggi, la zona nord della regione del Tōhoku, quella più vicina al primo reattore nucleare, è ancora inabitabile. Sono stati spesi circa 330 miliardi di yen (232 milioni di euro) per ricostruire e decontaminare il territorio. Tuttavia, più di 40.000 persone non riescono ancora a tornare nelle loro case.

Il terremoto dell’11 Marzo del 2011 e le sue conseguenze rimarranno scolpite nella mente del popolo giapponese, che guarda al futuro con la speranza che non accada mai più una tragedia del genere.

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Approfondimenti: L’esclusione delle donne dal teatro Kabuki

Il teatro Kabuki è una forma di teatro classico giapponese dalle radici antichissime ma che ruolo avevano le donne nel teatro Kabuki?

teatro kabuki

Photo credits: allabout-japan.com

Nel 2008, l’UNESCO lo ha inserito nel patrimonio culturale immateriale dell’umanità. La sua particolarità consiste nell’utilizzo di costumi stravaganti, trucchi, performance uniche nel suo genere e, pensate un po’, una totale mancanza di bagni femminili nel backstage. Il motivo è semplice: la maggior parte degli attori sono uomini. Naturalmente, l’esclusione non è definita da alcuna legge quanto piuttosto dalla tradizione. Non è corretto, infatti, pensare che questa forma di teatro sia stata fin dalle origini esclusività degli uomini. Questo perché, come vedremo, le donne hanno ricoperto un ruolo importante nella nascita di questa forma di teatro.

Le donne nel teatro Kabuki

donne nel teatro Kabuki

Photo credits: wblog.wiki

Le origini del Kabuki possono essere rintracciate nel XVII secolo e particolarmente importante è la figura di Okuni, una fanciulla del santuario di Izumo. Okuni cominciò ad organizzare piccoli spettacoli di canto e danze (entrambi costituiscono la parola “kabuki”) nel letto asciutto del fiume Kamo a Kyōto. Gli attori che vi partecipavano provenivano soprattutto dalle classi più basse della società, comprese prostitute, mendicanti e altri emarginati dalla società.

Tutti, però, avevano in comune una cosa: erano tutte donne. Le trame delle loro storie riguardavano per lo più eventi storici, amore ed esperienze di vita che le portarono a riscuotere un discreto successo, esibendosi anche nella corte imperiale di Kyōto. Questo, quindi, fece nascere nuove compagnie di sole donne non solo intorno alla vecchia capitale ma anche fuori. Ma la situazione era destinata a cambiare di lì a poco.

Come il Kabuki è diventato una questione maschile

Nel 1629 lo shogunato al potere vietò categoricamente a tutte le donne di eseguire spettacoli Kabuki. Questo perché, secondo loro, il Kabuki stava alterando la morale pubblica. Infatti, molti dei suoi spettacoli erano provocatori ed erotici e, visto che alcune delle sue interpreti erano prostitute, vi erano casi di prestazioni sessuali dietro le sue produzioni. Tuttavia, il governo giapponese non considerava la prostituzione come un male assoluto, anche perché nel 1617 approvò la creazione di un quartiere a luci rosse dentro Tōkyō.

E curiosamente questo quartiere era interessato anche da una vivace attività di Kabuki. Piuttosto, ciò che veramente irritava i funzionari del Kabuki era il fatto che i loro spettacoli avessero in platea gente di ogni estrazione sociale. L’intento, quindi, era di far rimanere ognuno fedele alla propria classe. La loro soluzione fu bandire le donne dal palcoscenico, il che paradossalmente portò alla creazione di una parte molto interessante della storia LGBTQ+ del Giappone.

donne nel teatro Kabuki

Photo credits: wikipedia.org

Gli onnagata

Con l’esclusione delle donne nel teatro Kabuki i ruoli femminili dovevano essere interpretati dagli uomini. Si venne così a creare una categoria specializzata di attori: gli onnagata, ossia donne interpretate da uomini in scena, ma anche fuori. Infatti, nel XVIII secolo gli onnagata più rispettati erano quelli che vivevano a 360° come donne anche quando non si esibivano. Al contrario, quelli che si facevano vedere all’esterno in vestiti maschili o in compagnia della famiglia venivano screditati dalla critica teatrale.

Il divieto governativo fu revocato nel XIX secolo, ma le donne non tornarono comunque sul palco. Le scuse per giustificare tale comportamento riguardavano principalmente la forza fisica femminile, che secondo alcuni non poteva sostenere le pesanti parrucche e costumi del Kabuki. Alcuni, però, preferivano gli onnagata in quanto credevano che la loro prospettiva da outsider riuscisse a catturare la vera essenza femminile.

ninja kabuki

Photo credits: nationalgeographic.co.uk

L’esclusione femminile nel Kabuki e l’immagine dei ninja

Oltre alle donne, lo shogunato vietò anche ai ragazzi di esibirsi sul palco. Anche i ruoli di giovani ragazze dovevano essere interpretati da uomini maturi e questo richiedeva parrucche e costumi più elaborati. Per questo era fondamentale sul palco l’aiuto dei cosiddetti “kurogo” (letteralmente “vestiti neri”) che aiutavano l’attore con i cambi vestiti direttamente in scena. Erano vestiti, quindi, di nero dalla testa ai piedi in modo che il pubblico non si concentrasse su di loro. In questo modo, alcune commedie Kabuki cominciarono ad utilizzare i kurogo, ideali per la loro simbolica “invisibilità”, per interpretare i ruoli di ninja. Alcuni studiosi ritengono che questo fenomeno abbia contribuito a diffondere l’ideale comune dei ninja come assassini vestiti di nero. Tuttavia, i ninja erano principalmente spie che si vestivano come persone normali proprio per non attirare le attenzioni su di sé.

Quale futuro per le donne nel teatro Kabuki?

Oggi esistono attrici donne all’interno del teatro Kabuki, ma purtroppo sono una piccola minoranza. Come abbiamo visto, il loro ruolo all’interno della storia di questa forma di teatro è stato fondamentale. Si spera, quindi, che un giorno le donne potranno tornare a ricoprire ruoli importanti in una tradizione che hanno loro stesse contribuito a creare.

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Approfondimenti: Hanami, l'ammirare i fiori

Tutti abbiamo sentito parlare di Hanami almeno una volta nella vita.
La primavera è alle porte e assieme al clima sereno e alla natura che torna a rinverdire gli spogli alberi, anche noi torniamo ad essere allegri e sorridenti. L’hanami è una tradizione giapponese che si celebra in questo periodo, e se volete saperne di più venite con noi e continuate a leggere per scoprire tutte le curiosità su questa ricorrenza!

Cos’è l’hanami

hanami sakura

photo credits: wikipedia.org

La celebrazione dell’hanami coincide con l’inizio della fioritura, in un lasso di tempo che va da marzo fino a maggio inoltrato. Il significato della parola ‘hanami’ viene tradotto con ‘guardare i fiori’, dove forse ‘guardare’ può essere sostituito con ‘ammirare’.

Sì, perché quella dell’hanami è una vera e propria usanza atta ad ammirare la bellezza degli alberi in fiore, in particolare dei ciliegi (sakura): i giapponesi amano perdersi a contemplare i bianchi e rosei petali di questa pianta, e spesso accompagnano le loro visite ai parchi con dei picnic all’ombra degli alberi più famosi del Sol Levante.

Ciò che suscita l’interesse del popolo nipponico nei confronti di tale festività e dei sakura, non è solamente lo splendore estetico di questi ultimi, ma anche il significato profondo che c’è dietro tutto ciò. Il ritorno colorato e radioso di madre natura durante la primavera simboleggia un ciclo che ci ricorda che dopo il grigiore e la tristezza dell’inverno segue sempre una stagione più felice e tranquilla. Allo stesso modo, tuttavia, anche quei mesi passeranno, per lasciare nuovamente spazio a tempi più difficili.

L’hanami insegna quindi a riflettere sulla caducità della vita, sulla bellezza passeggera, sulla ciclicità degli eventi di cui facciamo parte. Dobbiamo saper apprezzare quei fugaci momenti di quiete e meraviglia, ritenendoci fortunati.

La storia

hanami

photo credits: wikipedia.org

Quella dell’hanami, tra l’altro, è una tradizione molto antica e legata a doppio filo con gli alberi di ciliegio. Infatti, verso primavera, se c’era stato un buon raccolto, si era soliti piantare un sakura in onore del favore dei kami (le divinità del Giappone) e a testimonianza della fertilità e della ricchezza dei campi. Inoltre, il petalo di ciliegio, nella sua bellezza e nel fatto che prima o poi cade staccandosi dal ramo, è considerato perfetto. Questo lo ha reso protagonista di numerosi emblemi appartenenti a samurai, individui che a loro volta venivano reputati perfetti, in quanto valenti guerrieri che trovavano la propria realizzazione nella morte in battaglia, cadendo, appunto.

Da allora imperatori e gente normale hanno continuato a venerare e a rispettare i sakura, trovando nell’hanami l’apice di questa ammirazione. Oggi tale ricorrenza si celebra persino oltreoceano, e in Giappone il bollettino meteorologico avverte dove e quando avverranno le fioriture più abbondanti e suggestive del Paese.

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Approfondimenti: Kaizen, l'arte del cambiamento

Per chi di voi non sa cosa significhi la parola o il concetto di Kaizen, oggi andiamo a vederlo meglio!

Si dice che tra le uniche cose certe, nella vita, ci sia il cambiamento. E prima o poi, tutti noi ci andiamo incontro. Volenti o nolenti, che si tratti di uno stravolgimento del regime alimentare o di inseguire un sogno che avevamo nel cassetto.
Che sia per libera scelta o perché ci ritroviamo spalle al muro, arriva il momento di prendere una decisione e cambiare per il meglio. Ed è esattamente questo il significato della parola ‘kaizen’, in giapponese: un cambiamento buono, migliore.

Tuttavia, la strada che porta a questo traguardo può essere difficile, e se non abbiamo la giusta forma mentis e l’adeguata preparazione, il passo che ci spinge a gettare la spugna è breve. Qual è il segreto, quindi? Semplice, procedere per piccoli passi.

kaizen

photo credits: Wikipedia.org

I concetti fondamentali del Kaizen

Credere di riuscire a dare una svolta decisiva ed efficace alla nostra vita in breve tempo e con effetti immediati è sbagliatissimo. Chi si adopera avendo questo in testa si ritrova a fallire in men che non si dica. Quante volte, ad esempio, ci siamo detti: ‘Va bene, dopo le feste inizia la dieta e mi iscrivo in palestra’? E via ad imporci delle regole severissime da seguire subito e tutte assieme, come svegliarsi presto, fare estenuanti allenamenti, evitare certi tipi di cibo, e così via.

Nella maggior parte dei casi questa routine e queste rigide imposizioni non fanno altro che affaticarci più del necessario e scoraggiarci, perché non siamo in grado di sopportarne il peso tutto in una volta.

La chiave del kaizen è avanzare un piccolo trionfo dopo l’altro, senza fretta. Conviene quindi dividere il percorso che conduce al proprio obiettivo in piccole tappe, partendo dalle cose più semplici per poi arrivare in maniera naturale a quelle più complesse. Questo è tipico anche della filosofia shintoista, la quale sostiene che la vera energia di tutti gli esseri viventi è al culmine quando parte dal basso, dalle radici, fluendo gradualmente verso l’alto.

kaizen

photo credits: nationalday.com

I Benefici

Tenendo bene a mente che il processo di miglioramento di noi stessi è costante e non finisce mai, dobbiamo impegnarci ogni giorno ad essere sempre meglio, anche quando il nostro goal iniziale è stato superato.

I benefici del kaizen si faranno sentire tanto nel privato (con l’appagamento e la realizzazione personale, utile a combattere lo stress) quanto nell’ambito professionale. Questo tipo di pensiero si è diffuso in Giappone subito dopo il termine del secondo conflitto mondiale, portando marchi come Toyota a fiorire e a trovare un posto rilevante nel mercato. Alla base del successo dell’azienda, infatti, c’è stato l’aver seguito il kaizen, risolvendo i problemi analizzandoli a fondo e cercando di trovare una soluzione consona e non forzata dalle logiche aggressive della produzione di massa attuate dalla concorrenza, la quale non dialogava con i propri clienti e non riusciva a capirne le vere esigenze.
Solamente attraverso un’umile e attenta analisi introspettiva Toyota è riuscita a creare un metodo di lavoro personale e vincente e ad instaurare con i suoi stessi dipendenti un rapporto fatto di dialogo, comprensione e crescente capacità di problem solving. Un ambiente lavorativo sereno, ordinato e senza barriere gerarchiche ha portato colossi come Google, al giorno d’oggi, ad essere tra le più rinomate compagnie per via della sua mentalità aperta e del suo approccio creativo.

Questo a dimostrazione di come il cambiare mentalità anche nelle aziende porti ad enormi benefici, oltre che ad un benessere fisico e mentale.

photo credits: motto-jp.com

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Eventi del Mese


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Approfondimenti: La storia di Domokomo

Domokomo e la sua origine

 

credits:yokai.fandom.com/wiki

Domokomo è una figura del folclore giapponese, conosciuta soprattutto nel distretto di Enuma, Ishikawa, e in quello di Chiisagata, a Nagano. Il nome proviene dalla frase giapponese “domokomo naranai” ovvero nè questo nè quello. Questo yōkai ha l’aspetto di una figura con due teste e la sua prima rappresentazione risale all’opera Hyakki yagyo emaki (Matsui-Bunko).

Esiste una vicenda molto famosa che fa proprio riferimento a questa creatura!

La leggenda

Molto tempo fa c’erano due medici che si chiamavano rispettivamente Domo e Komo. Entrambi andavano in giro vantandosi di essere il miglior luminare del Giappone in quanto tutti e due possedevano un’abilità medica straordinaria grazie alla quale avevano guarito i casi medici più disperati. 

Un giorno i due decisero di sfidarsi: entrambi si fecero ferire ad un braccio promettendo che lo avrebbero ricucito in maniera così perfetta da non far vedere la cicatrice. La contesa si risolse brillantemente per entrambi, possiamo dire un pareggio. 

La sfida successiva riguardava il fatto di cucire una ferita alla testa. Nel giorno prestabilito un sacco di gente incuriosita si radunò intorno ai due sfidanti. I due medici si ferirono alla testa con incredibile sangue freddo davanti alle persone sbigottite da ciò che stava accadendo. In men che non si dica entrambi i medici riuscirono a curare le ferite in modo perfetto. La loro bravura impediva di fatto che la sfida si risolvesse. 

Fu allora che ebbero l’ennesima idea. Convennero che medicarsi a turno non era affatto stimolante e giunsero alla conclusione che avrebbero potuto strapparsi la testa nello stesso momento per poi vedere chi riusciva a riattacarsela meglio. Fu così che nel giro di qualche istante caddero entrambe le teste dei medici. Tuttavia sia l’uno che l’altro si trovarono in una situazione aberrante e ciò impedì di trovare qualcuno in grado di riattaccare le due teste. Non essendoci più nulla da fare, morirono entrambi. 

Pare proprio che la figura dello yokai Domokomo nacque proprio così! 

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Approfondimenti: la leggenda di Hanako san

La storia di Hanako san

Hanako san è un personaggio del folclore giapponese nonché leggenda molto popolare tra i bambini e gli adolescenti. Quest’ultima narra di una bambina di nome Hanako il cui fantasma dimora nelle toilette delle scuole giapponesi. Il suo soprannome è infatti toire no Hanako san, ovvero, Hanako san della toilette. Ci sono diverse versioni di questa leggenda. Secondo quella più diffusa, Hanako apparirebbe nei gabinetti femminili delle scuole, di solito nella terza cabina e per questo le sue vittime sarebbero le studentesse che si recano nel bagno da sole. Pare sia anche possibile interagire con lei bussando alla porta chiusa del gabinetto deserto. Se le si chiede:” Hanako san, ci sei?” dall’altra parte è possibile udire la sua voce mentre risponde di sì. Una volta evocata, Hanako tenterà di trascinare la vittima in bagno, portandola con sé all’inferno. Tuttavia, non tutte le versioni della leggenda vedono Hanako come demone di cui avere timore. Secondo altre leggende è paragonata ad una sorta di mascotte soprannaturale della scuola.

credits: gegegenokitaro.fandom.com

Le origini

Anche l’origine della leggenda ha diverse versioni. Secondo la maggior parte di esse, Hanako sarebbe il fantasma di una bambina morta a scuola in seguito ad un suicidio perché vittima di bullismo. Un’altra versione racconta che Hanako è morta nelle toilette della scuola dove si era nascosta a causa di un bombardamento durante la Seconda Guerra Mondiale.
Una possibile spiegazione psicologia dietro questa leggenda potrebbe risiedere nello stress e nella pressione che subiscono gli studenti giapponesi durante il periodo scolastico, personificati dalla figura inquietante di Hanako. A questa figura sarebbero inoltre legati episodi importanti e traumatici che le ragazzine sperimentano come il periodo della pubertà e l’arrivo del primo ciclo mestruale.

Significato degli spazi

Hanako san non è l’unica leggenda ambientata nelle toilette. Secondo le credenze popolari giapponesi, gli spiriti e i fantasmi sono soliti abitare nella stanza più piccola dell’edificio. Il bagno infatti in Giappone, inteso come stanza dove si trova il gabinetto, è situato distaccato dalle altre stanze in un angolo più nascosto della casa. Inoltre, lo scarico della toilette è accostato alla figura del pozzo.  Si tratta della materializzazione di quel luogo tramite cui i morti si mettono in contatto con i vivi. Anche le scuole sono spesso il teatro di spettrali leggende di yōkai. L’ambiente scolastico funziona come una piccola comunità, dove la leggenda viene passata da studente a studente e da generazione a generazione. Spesso è infatti il senpai, lo studente più grande, a tramandare la storia al kōhai, lo studente più piccolo. La storia può essere quindi reinterpretata e ricreata in base ai bisogni e le ansie del gruppo. Questo è il motivo per cui esistono diverse versioni della storia di Hanako, tanto famosa da diventare protagonista di un manga e di due film.

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Tradizioni di Natale in Giappone - Luminarie di Kobe

Nonostante il Giappone non sia una popolazione interamente cristiana, il Natale è comunque una festa molto sentita dai giapponesi.

Natale
Photo credits: jrailpass.com

Mercatini, luminarie e tradizioni uniche che si possono trovare solo in Giappone… diamo uno sguardo a come i giapponesi festeggiano questi giorni!

Qui in Italia esiste il detto “Natale con i tuoi, Pasqua con chi vuoi” beh, in Giappone non è esattamente così. Il Natale è il momento da trascorrere con gli amici, tra feste e divertimenti con svariati cibi e bevande! La Vigilia di Natale è, addirittura, definito il giorno più romantico dell’anno, siamo davanti alla versione giapponese di San Valentino. Cene romantiche, regali, il sentimento di coppia arriva prima di tutto e nel caso tu non avessi un partner, è meglio stare a casa e non farsi vedere in giro da solo.

Tradizioni natalizie giapponesi

Il cibo a Natale
Come dicevamo, il Natale in Giappone è conosciuto non come una tradizione religiosa, bensì come un momento per diffondere la felicità e per farlo ci sono cibi deliziosi come la torta di Natale giapponese o “kurisumasu keki”. Venduta praticamente ovunque da Hokkaido a Kyushu, questo dolce è leggero e spugnoso con un ripieno di panna montata e glassa, sormontato da fragole rosse perfettamente tagliate. Questo delizioso dolcetto natalizio è anche visto come un simbolo di prosperità da quando il Giappone è risorto dalle rovine dopo la seconda guerra mondiale.

Natale
Photo credits: jrailpass.com

Ma il più grande pasto natalizio del Giappone si trova da KFC.
Ogni Natale, sembra che ben 3,6 milioni di famiglie giapponesi ricevano il loro pasto natalizio da Kentucky Fried Chicken. La domanda è così alta che la gente inizia a fare gli ordini per il menu speciale di Natale con sei settimane di anticipo!

Illuminazioni natalizie

L’intero paese impazzisce per le luminarie! Centri commerciali, ristoranti e aree pubbliche hanno le più incredibili esposizioni di luci che si possano immaginare e che portano l’atmosfera natalizia a tutti i presenti e stiamo parlando sia di piccole luminarie che di spettacolari proiezioni audiovisive.

Natale
Photo credits: jrailpass.com

I punti di riferimento più famosi e popolari con le loro illuminazioni festive uniche, sono per esempio la stazione di Tokyo, l’acquario Kaiyukan a Osaka, l’onsen vicino a Nagashima, Nabana no Sato e la città di Kobe.

Kobe Luminarie light festival

Natale
Photo credits: therealjapan.com

Kobe Luminarie è un festival annuale che si tiene a Kobe, ogni dicembre dal 1995 come commemorazione del grande terremoto Hanshin di quell’anno. Il festival Kobe Luminarie vuole assicurarsi che le vittime del Grande terremoto non siano dimenticate, raccogliendo anche fondi per beneficenza e offrendo uno spettacolo incredibile diverso ogni anno. Le luminarie di Kobe sono nate come segno di speranza: il terremoto del 1995 ha distrutto la rete elettrica di Kobe, facendo precipitare la città nell’oscurità. Le prime luminarie sono state progettate per illuminare la città ancora una volta, dando speranza agli abitanti di Kobe.

Questo stupefacente festival attira milioni di visitatori a Kobe nel mese di dicembre ed è un must-see dell’ inverno giapponese!
Le strade principali, chiuse al traffico per permettere ai visitatori di vedere le luci nel modo migliore possibile, sono fiancheggiate da alberi adornati con luci bianche mentre sistemi di altoparlanti pubblici diffondono musica. Sembra di entrare in un mondo magico, uno di quelli delle favole.

Natale
Photo credits: therealjapan.com

Cominciamo il nostro viaggio, per ora virtuale, immersi nelle luminarie di Kobe!

Parco Higashi Yuenchi
L’iconico tunnel di luci, corre per diversi isolati verso il Parco Higashi Yuenchi al culmine del Festival. Come tutte le esposizioni, varia ogni anno, ma è sempre uno spettacolo degno di nota. Immergetevi nei festeggiamenti! Giovani coppie che scattano selfie, famiglie in posa per le foto, bambini che non riescono a controllare la loro felicità.

Natale
Photo credits: therealjapan.com

Natale
Photo credits: therealjapan.com

Mercatini di Natale giapponesi

A Natale, il Giappone mostra i tipici mercatini dall’inizio alla fine della stagione invernale. Visitando il Giappone in questo periodo, potrai trovare di tutto, dai delicati ornamenti per l’albero al vin brulé. Un mercatino di Natale molto importante e significativo è quello di Tokyo e anche quello di Sapporo.

Un altro posto molto interessante a Natale è Tokyo Disneyland, in cui sia gli ospiti internazionali che quelli locali potranno godersi l’evento speciale “Christmas Fantasy”, che ha come tema “libri di storia pieni di divertimento natalizio dei Disney Friends”.
Questo evento offre agli ospiti un felice e fantastico Natale in stile Disney, con fuochi d’artificio, merchandising speciale, caramelle e uno speciale e delizioso menu di Natale.

Shopping natalizio in Giappone

Come abbiamo detto all’inizio, lo scambio di regali alla vigilia di Natale è cominciata come tradizione tra le coppie fino ad estendersi oltre è diventato una tradizione tra coppie! Il Giappone ha il suo proprio giorno in cui si scambiano i regali a dicembre, una sorta di Babbo Natale segreto giapponese.

Insomma, a fine articolo possiamo confermare che il Natale anche per il Giappone è un momento di festa sfrenata, magari poco religioso, ma sicuramente molto improntato sull’aggregazione. Noi di Giappone in Italia stiamo aspettando di poter godere questo momento nuovamente, venite con noi?

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Approfondimenti: Senchadō, La Via del Sencha

Avete mai sentito parlare di Senchadō? L’ospitalità in Giappone riveste da sempre particolare importanza. Servire il tè è una delle sue massime espressioni, tanto da rappresentare una forma d’arte vera e propria. Con “Cerimonia del tè” di solito ci si riferisce al Chadō o Sadō, anche conosciuto come Cha no Yu (茶の湯 · “Acqua calda per il tè”). Ossia il cerimoniale dove regna sovrano il tè in polvere Matcha (抹茶) e che rappresenta la Cerimonia del tè per eccellenza.

Ma… sarà davvero l’unico tipo di cerimonia del tè esistente?

Senchadō 煎茶道 La Via del Sencha

Se infatti Chadō (茶道) è la “Via del Tè”, Senchadō (煎茶道) letteralmente significa “Via del Sencha”. Altro non è, che una versione meno nota del più famoso Chadō che propone un diverso tipo di cerimonia e di tè. Il Sencha infatti è un tè verde (緑茶 · Ryokucha) che, all’opposto del Matcha, non viene macinato ma lasciato sfuso. Il Senchadō non a caso nasce appositamente come alternativa al Chadō tradizionale, anche se per certi aspetti finisce per ispirarvisi o esserne influenzato.

La prima – quasi simbolica – differenza è data quindi dal tipo di tè. Nel Chadō, costituendo esse il tè in polvere, le foglie sono parte stessa della bevanda; nel Senchadō invece la preparazione avviene per infusione. Sia Matcha sia Sencha originano dalla Cina. Ma, mentre il Matcha risale al periodo della Dinastia Song (960-1279), il Sencha era in uso sotto la Dinastia Ming (1368-1644)– anche se probabilmente esisteva già da prima.

La differenza cardine risiede però nella medesima ragion d’essere del Senchadō: l’intento di contrapporsi alla disciplinata etichetta del tradizionale Cha no Yu. Fin dai suoi albori, il cerimoniale del Sencha promuove infatti un approccio più libero, meno codificato, all’arte del tè. Un po’ più “easy”– se così è concesso dire. Un approccio caratterizzato dalla ricerca di una semplicità, intesa come antitesi alla codificazione del Chadō.

Photo credits: hibiki-an.com

Tratto distintivo del Senchadō è poi anche il piacere estetico e la pregiatezza degli utensili adoperati (sovente infatti, le cerimonie Sencha possono accompagnare esposizioni d’arte). Questo aspetto ci riporta però anche al Cha no Yu delle origini… quando ancora non era tale. Ossia prima che il maestro zen Sen no Rikyū lo codificasse consacrandolo definitivamente come “Via del Tè”.

Prima di allora, anche l’esecuzione di quel Chadō allo stadio embrionale avveniva in funzione dell’esibizione degli oggetti. Motivo per cui Rikyū decise di intervenire, spostando il focus dall’esterno all’interno, dall’esteriorità alle persone coinvolte, rendendo il cerimoniale più essenziale e meno elaborato. Pur tuttavia cristallizzandolo, come sappiamo, con regole ben definite ispirate al Wabi-Sabi.

Mentre il popolare Matcha ha ormai da tempo varcato i confini della cerimonia (pensiamo ai dolci al matcha o al matcha-latte…), anche il Sencha, dalla sua, riscuote molto successo. Oggi è forse il tè più amato dai giapponesi… il più popolare, seppur a livello informale.

Origini della cerimonia: Ingen e Baisaō

Le origini del Senchadō risalgono al XVII secolo – circa cinque secoli più tardi rispetto a quelle del “proto-Chadō” – quando un monaco cinese noto in Giappone come “Ingen” giunse portando con sé novità culturali interessanti. Sarebbe stato proprio lui infatti a introdurre il servizio da tè e il modo di servire e consumare la bevanda, tipici del Gōng Fū Chá (工夫茶), l’arte del tè cinese. In particolare, quella in stile Ming. In contemporanea anche i mercanti cinesi che giungevano in Giappone – nonché quelli giapponesi estimatori della cultura cinese – contribuirono alla sua diffusione.

Il tè in foglie fece così comparsa sulla scena andando ad affiancare il Matcha – sino ad allora incontrastato –, riscontrando l’apprezzamento dei circoli della classe colta. Il cerimoniale Sencha quindi, che nasce sul calco dell’omologo cinese, è figlio degli ambienti intellettual-artistici dell’epoca. E giacché in quegli ambienti la cultura cinese andava parecchio “di moda”, non stupisce che ne abbia conservato lo stampo. A differenza del Chadō tradizionale, che dall’iniziale forma opulenta “Shoin-cha” gradualmente passa alla forma “Wabi-cha”, il Senchadō non conosce una simile metamorfosi. Divenuto anzi esso stesso simbolo di tale raffinatezza culturale, si diffuse in seguito anche presso la popolazione alfabetizzata urbana e rurale.

Photo Credits: ifuun.com

È interessante però come vi siano degli incredibili punti di similitudine fra le storie dei due cerimoniali. Proprio come per il Chadō, l’inizio del Senchadō è segnato da un personaggio apripista, Ingen, che dalla Cina importa una certa tradizione legata all’arte del tè. È colui che dà l’input.

Per il Cha no Yu tradizionale l’apripista era stato il monaco giapponese Eisai, il quale, oltre a fondare la scuola Zen Rinzai, aveva importato il metodo di preparazione Matcha. Come dicevamo all’inizio, vi è poi una certa similitudine con il Chadō degli inizi nel piacere del gusto estetico e nel focus sugli oggetti raffinati (inizialmente cinesi nella forma Shoin-cha).

Inoltre, anche Ingen fonda una particolare scuola Zen, la Ōbaku. E proprio da questa scuola, un secolo più tardi, uscirà un personaggio che pure si rivelerà fondamentale nella storia del cerimoniale Sencha. Qualcuno che vi lascerà la sua impronta… il “Rikyū del Senchadō”: un monaco noto con il nome di Baisaō. Un po’ come accadde al Chadō infatti, anche il Senchadō conoscerà un suo secondo padre.

La Via del tè in semplicità

In sostanza, il cerimoniale del Sencha prese forma da riunioni informali di cui arte e letteratura divennero da subito tema centrale. Si trattava di incontri conviviali che avevano luogo presso le dimore di anfitrioni colti e benestanti, di cui gli invitati ammiravano le collezioni. Collezioni per lo più composte di Karamono (唐物), opere in stile cinese o provenienti dalla Cina. La fine arte cinese, in particolare quella di epoca Ming, si è già detto, era molto apprezzata in questi ambienti. Quindi l’arte del Sencha, essa stessa di impronta cinese, non poteva che sposarsi perfettamente con i gusti di tali artisti e intellettuali.

Molto meglio di quanto non potesse fare il Chadō– che propone invece un’estetica sobria, una disciplina spirituale vera e propria nonché un rituale molto codificato. Un tale approccio cozzava con i bisogni di questi intellettuali… i quali intendevano viversi l’arte del tè con più spensieratezza, unitamente ad una sana contemplazione della bellezza raffinata. Ricercavano un tono rilassato ed informale che dalla cerimonia tradizionale non potevano avere. Ma il Cha no Yu tradizionale, visto appunto come troppo elaborato, formale e rigido, non stette stretto solamente alla classe colta…

Photo Credits: jalan.net

Nel XVIII secolo fece infatti la sua comparsa un monaco, Gekkai Gensho, il quale diede al cerimoniale un ulteriore boost di popolarità. Nato sotto il nome di Kikusen Shibayama, egli divenne presto noto con il soprannome di “Baisaō”, ossia “[venerabile] anziano venditore di tè”. Monaco e poeta, divenne famoso grazie ai suoi viaggi per le strade di Kyōto durante i quali vendeva Sencha come ambulante– cosa che gli valse appunto l’appellativo (anche se in realtà le sue erano vendite a offerta libera).

Come gli intellettuali benestanti, anche Baisaō rimase colpito dall’approccio dei maestri del tè cinesi, che con tanta naturalezza riuscivano a sposare compostezza a leggerezza. Arrivò così a ritenere l’arte del Sencha un modo altrettanto valido di perseguire una Via spirituale attraverso il tè– tanto quanto quella tradizionale legata al Matcha. Iniziò così a farsene attivo promotore presso il grande pubblico, in quel di Kyōto.

Raggiungendo il suo obbiettivo: nel tempo divenne così oggetto di riverenza che anche il tè Sencha crebbe di popolarità!

Photo Credits: wikipedia.org

Baisaō, padre del Senchadō

Proprio come gli intellettuali benestanti, anche Baisaō si dimostrò insofferente all’impostazione del Chadō tradizionale, preferendogli di gran lunga la più libera arte del tè Ming. La stessa scuola Ōbaku, da cui proveniva, era specializzata nella preparazione per infusione (d’altronde, era stata creata dallo stesso Ingen). È ragionevole pensare quindi che il monaco fosse già predisposto all’approccio del Senchadō, provenendo da tale scuola.

Baisaō però temeva che con il tempo il Senchadō finisse per seguire le orme del Cha no Yu. Cominciando, ad esempio, dalla consuetudine di rivendere, dopo la loro morte, gli utensili appartenuti ai rinomati maestri del Chadō. Nel timore che anche i suoi strumenti potessero incorrere in un simile destino decise, proprio poco prima di morire, di bruciarli tutti. Sforzo che tuttavia risultò vano: dopo la sua scomparsa non solo spuntarono copie della sua attrezzatura ma addirittura anche un manuale di “istruzioni per l’uso”.

Ciononostante la tradizione legata al Sencha sembra aver comunque conservato una trasmissione per lo più studente-allievo, tanto che incappare in simili manuali sarebbe più difficile. Quindi forse una speranza, quella di Baisaō, non del tutto vana.

Altra svolta si ebbe poi quando un conoscente dello stesso Baisaō ideò un nuovo metodo di produzione del tè, diverso anche da quello cinese. Seguendo tale procedura, le foglie venivano cotte al vapore (passaggio mancante nella procedura cinese tradizionale) per poi venir essiccate. È a questo punto che il termine “Sencha” (letteralmente “tè bollito”) sarebbe nato o quanto meno avrebbe preso a designare questo specifico metodo di produzione ‘made-in-Japan’.

Il cerimoniale Sencha continuerà a fiorire sino a tarda epoca Tokugawa (1603-1868): dall’era Meiji, la sua popolarità comincerà a calare fino a divenire sempre più circoscritto– differentemente dalla sua controparte tradizionale. In ogni caso, come accadde per il cerimoniale del Matcha, anche su quello del Sencha si fonderanno diverse scuole.

La cerimonia del Sencha

Cos’ha dunque di particolare questo cerimoniale rispetto a quello del Matcha? L’ambientazione – la casa da tè – oggigiorno non è molto dissimile da quella del Chadō. Le cerimonie sono aperte sia a piccoli sia a grandi gruppi di persone e, proprio come quelle del Chadō tradizionale, possono avere luogo anche all’aperto se il tempo lo consente. Aldilà del diverso tipo di tè e di preparazione, ciò che lo distingue è il tono più rilassato e la presenza di momenti informali alternati a quelli formali. E poiché qui l’estetica raffinata è valorizzata, è consuetudine per l’ospite della cerimonia esporre i propri oggetti d’arte – almeno i principali – che si tratti di cerimonie pubbliche o private.

Come nel Sadō, al loro arrivo gli ospiti possono essere fatti accomodare in una sala d’attesa e, prima dell’inizio della cerimonia, può esser loro servita una bevanda.

Photo credits: ekiten.jp

Gli utensili adoperati, proprio come nel Chadō, possono variare a seconda della scuola (alcune ad esempio si servono di oggetti giapponesi). Nel corso del cerimoniale gli oggetti, come teiera (急須 · Kyūsu) e tazzine, vengono portati su di un vassoio da uno o più assistenti. Se si opta per la qualità Gyokuro​ (玉露) – più pregiato – può essere che la teiera presenti forma particolare o che vi sia anche un bricco. Il Gyokuro​ si differenza dal Sencha standard per essere coltivato all’ombra invece che in pieno sole.

Per contro, vi sono anche varietà meno pregiate, perciò preparate meno di frequente– come Bancha o Hojicha.

Oltre a Kyūsu e tazzine, altri utensili tipici sono:

  • contenitore ermetico (per conservare le foglie di tè);
  • paletta in bambù (per raccogliere le foglie più piccole);
  • contenitore per le foglie scartate (ed eventualmente l’acqua usata per rivitalizzare il tè sfuso);
  • lo Yuzamashi, accessorio per raffreddare l’acqua che serve a risvegliare le foglie (può fungere anche da brocca una volta che il tè ha finito di macerare).

Photo Credits: hankyu-dept.co.jp

Temperatura e tempo d’infusione – oltre a quantità del tè e dell’acqua – sono parametri essenziali cui prestare attenzione. Poiché dalla loro miscela dipenderà il sapore finale, tendente all’umami (il quinto senso, “saporito”) piuttosto che all’amaro. Infine, anche qui fanno la loro comparsa i deliziosi dolcetti giapponesi, consumati prima del tè, come nel Chadō.

Senchadō e Chadō: due prospettive a confronto

Una cosa interessante da notare è come entrambi gli approcci si propongano la ricerca della semplicità – e il rifuggire l’elaboratezza – ma al contempo siano antitetiche l’una all’altra. Questo perché ognuna ricerca la semplicità (come positiva) e riscontra elaboratezza (come negativa) in dimensioni differenti.

Il Chadō la ricerca nell’esteriorità, mentre il Senchadō nella procedura e nell’atmosfera dell’arte del tè. Ciò che l’una vede di positivo o negativo in una determinata area, l’altra prospettiva non riesce a vederlo. Il Chadō, così come lasciatocelo da Rikyū, è essenziale e ripudia l’opulenza della dimensione esteriore. Il ‘troppo’ va eliminato. Poiché gli eccessi sensoriali distolgono dalla centratura meditativa da lui voluta per il Chadō, venendo l’attenzione catalizzata da ciò che appare e la concentrazione così intaccata. La bellezza nel Chadō di Rikyū non dev’essere quindi “raffinata” ma sobria. In questo modo si cerca di ridurre al minimo indispensabile ogni tipo di stimolo sensoriale.

I fautori del Senchadō per contro lamentavano sì troppa elaboratezza, ma non nella dimensione esteriore: bensì, nella codificazione stessa dell’arte del tè. Una codificazione ritenuta appunto eccessiva, tale da rendere l’esperienza – dal loro punto di vista – troppo inquadrata, rigida e formale. In questo senso dunque, ricercavano la semplicità: non nell’estetica, bensì nel modo di porsi e performare il cerimoniale. L’approccio per loro doveva essere più “light”. Mentre l’estetica cui erano abituati (e che magari il Chadō tradizionale poteva inquadrare come opulenta) non rappresentava un eccesso negativo, ma anzi una raffinata estetica. La sua contemplazione, qualcosa di del tutto naturale.

Due concezioni di semplicità/elaboratezza agli antipodi, indubbiamente. Ricapitolando: il Chadō ricerca la semplicità nel momento in cui tenta di eliminare tutto ciò che non è necessario e a tal fine opera una serie di accorgimenti applicando il criterio del “meno è più”; per il Senchadō sono proprio tali ‘rimedi’ messi in atto a far venir meno la semplicità– per come appunto dai suoi fautori intesa. Invece, essi ricercavano un metodo di preparazione più flessibile, maggiore libertà di espressione nonché il piacere della bellezza raffinata. E poi, come probabilmente avrebbe detto Baisaō: anche in questo modo, si può camminare lungo una Via spirituale.

Photo credits: girlschannel.net

Un’altra Via del Tè

Abbiamo visto che la cerimonia del Sencha è un modo diverso di vivere l’arte del tè, originatosi qualche secolo più tardi rispetto a quella del Matcha. “Senchadō” designa un modo alternativo di bere e gustare i tè verde giapponesi (più vegetali e dal sapore umami rispetto a quelli cinesi).

Rimane però comunque, a tutti gli effetti, parte integrante della Via del Tè… poiché, per quanto diverso, con il Chadō tradizionale condivide un medesimo cuore. Ossia, il voler in qualche modo entrare in comunione con qualcosa aldilà di sé stessi– oltre ad essere entrambi espressione di quell’ospitalità tanto valorizzata nella cultura giapponese. Come nel cinese Gōng Fū Chá e a differenza del Chadō, il metodo di preparazione è più semplice, sebbene nel tempo si sia formalizzato un pochino di più rispetto agli inizi.

Personalmente, non vedo perché Chadō e Senchadō non possano coesistere o debbano escludersi. Anzi, se vogliamo, possono essere due esperienze speculari… possono, per così dire, completarsi. In questo modo ciò che l’uno non è grado di dare in termini di esperienza, è l’altro a poterlo fare. Dopotutto, si può essere ben consapevoli o presenti a sé stessi in qualsiasi circostanza, situazione e luogo. Sono dell’idea che i due cerimoniali colgano due diversi aspetti di una stessa realtà.

Saranno anche inconciliabili nel momento stesso delle loro esecuzioni (le esigenze che l’una e l’altra cerimonia richiamano sono naturalmente diverse), tuttavia entrambe possono contribuire al benessere degli individui. Ognuna in momenti diversi. Ognuna nel proprio opportuno momento. Il Cha no Yu è preziosissimo in termini di disciplina spirituale… nell’insegnare la centratura meditativa. Il Senchadō invece può subentrare e svolgere il suo compito nel momento in cui si abbia bisogno di accedere a una “comunione con il Tutto”… in modo leggero.

Dopotutto, non c’è un tempo per ogni cosa?

Photo credits: theartofjapanesegreentea.com

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Approfondimenti: Introduzione ai mostri e spiriti giapponesi

Introduzione agli yōkai

Gli yōkai 妖怪 sono creature soprannaturali della mitologia giapponese. La parola è composta dal kanji 妖 (yō, maleficio) e 怪 (kai, manifestazione inquietante). La loro storia può essere fatta risalire fin dai tempi antichi. Già nel periodo Heian esistevano diverse raccolte che parlavano di mostri, come ad esempio il Konjaku Monogatari-shu. Nel medioevo con la nascita degli otogizōshi, storie in prosa, e degli emakimono, opere narrative illustrate, gli yōkai cominciarono a prendere forma ed essere raffigurati in queste opere. Ad esempio nello Hyakki Yagyo Emaki lett. “La parata notturna dei cento demoni” del periodo Muromachi (1336 – 1573) si parla di una credenza del folclore giapponese secondo cui gli yōkai ogni anno prendevano d’assalto le strade durante le notti d’estate. Tutti coloro che passavano vicino a questa processione perdevano la vita, a meno che non fossero protetti da un sutra.

credits: natsukokondo.com

Nel periodo Edo le storie di fantasmi cominciarono a diventare popolari. Erano per lo più adattamenti di romanzi cinesi e un mix di folklore e storie tradizionali. Proprio in questo periodo, gli yōkai cominciarono ad essere raffigurati da artisti famosi del genere ukiyo-e come Katsushika Hokusai e Utagawa Kuniyoshi.

credits: intojapanwaraku.com

In epoca moderna e contemporanea, gli yōkai hanno cominciato ad assumere caratteristiche sempre più concrete e fisse. Grazie anche all’influenza dall’estero, questi personaggi hanno attenuato il loro aspetto più terrificante per diventare veri e propri oggetti di intrattenimento. Sempre più ritratti nei manga, illustrazioni e anime, la loro diffusione ha portato alla nascita di nuove storie e nuove generazioni di mostri.

I Tre Grandi Yōkai del Giappone

Katsumi Tada, ricercatore yōkai, ha indicato come “I Tre Grandi Yōkai del Giappone” gli oni, i kappa e i tengu.

Gli oni 鬼 sono creature mitologiche simili ai demoni occidentali. Normalmente vengono descritti come creature giganti e mostruose, con artigli taglienti, capelli selvaggi e due lunghe corna sulla loro testa. Nelle primissime leggende, gli oni venivano descritti come creature benevole capaci di allontanare spiriti maligni. Durante l’era Heian, il buddhismo giapponese fece degli oni i guardiani dell’inferno o i torturatori delle anime dannate. Con il passare del tempo, gli oni vennero sempre più associati al male e considerati portatori di calamità. I racconti popolari e teatrali iniziarono a descriverli come bruti e sadici, felici di distruggere.

I kappa 河童 sono creature leggendarie che abitano i laghi e i fiumi del Giappone. Gran parte delle descrizioni dipinge i kappa come umanoidi delle dimensioni di bambini, sebbene i loro corpi siano più simili a quelli delle scimmie o a quelli delle rane. Generalmente i disegni mostrano i kappa con spessi gusci simili a quelli di una tartaruga e con la pelle a scaglie in colori che vanno dal verde, al giallo o al blu. La caratteristica principale del kappa è una depressione in cima alla testa piena d’acqua e circondata da ispidi e corti capelli.

Infine, i tengu 天狗 sono creature fantastiche dell’iconografia popolare giapponese. Generalmente sono rappresentati come uomini-uccello, dotati di un lungo naso prominente o addirittura di un becco, con ali sulla testa e capelli spesso rossi. I tengu abitano le montagne del Giappone come il monte Takao o Kurama e preferiscono fitte foreste di pini e criptomerie. La terra dei tengu si chiama Tengudō, che può corrispondere ad una locazione geografica, una parte di un regno demoniaco, o semplicemente un nome per ogni accampamento di tengu.

credits:pinterest.jp

La differenza fra yūrei e yōkai

Gli yūrei 幽霊 sono i fantasmi della tradizione giapponese. Il nome è composto dai kanji 幽 (yū, flebile”, “evanescente”, ma anche “oscuro”) e 霊 (rei, anima” o “spirito”). Secondo la tradizione giapponese, tutti gli esseri umani hanno uno spirito/anima chiamata reikon 霊魂. Quando essi muoiono, il reikon lascia il corpo e resta in attesa del funerale e dei riti successivi prima di potersi riunire ai propri antenati nell’aldilà. Se le cerimonie sono svolte nel modo appropriato, lo spirito del defunto diventa un protettore della famiglia a cui torna a far visita ogni anno durante la festa Obon. Se i riti funebri non vengono effettuati, come in caso di morte improvvisa o violenta, il reikon può trasformarsi in yūrei ed entrare in contatto con il mondo fisico. Solo dopo aver celebrato i riti funebri e risolto il conflitto emotivo che tiene il fantasma legato al mondo dei vivi, lo yūrei può essere scacciato.

Le caratteristiche degli yūrei

Ci sono peculiarità che contraddistinguono gli yūrei e che aiutano a distinguerli dagli yōkai. Intanto questi spiriti non si impossessano mai di un umano a caso. Appaiono infatti solamente dinanzi a quelle persone che hanno causato loro dei ricordi infelici. Se ne vanno solo quando le loro lamentele e i loro desideri vengono attentamente ascoltati e quindi cessa quel dolore che prima li tratteneva nel mondo terreno. Gli yūrei vengono sempre rappresentati senza gambe, per differenziarsi dal mondo dei vivi, e spesso sono vestiti di un ampio abito bianco che ricorda il kimono funerario in uso durante il periodo Edo.
Un’altra caratteristica è che spesso i fantasmi compaiono con indosso gli stessi vestiti di quando sono morti. Infine, le mani dello yūrei sono un tratto caratterizzante di queste figure: queste infatti penzolano senza vita dai polsi che sono generalmente portati in avanti con il gomito all’altezza dei fianchi.

credits:0plusart.com

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