Approfondimenti: in cucina con lo studio Ghibli, l'okayu della Principessa Mononoke

L’okayu è una sorta di porridge di riso che i giapponesi danno soprattutto ai bambini o a chi è malato, in quanto ritenuto alimento curativo e facile da digerire (per maggiori info sul riso vi invitiamo a leggere il nostro articolo dedicato).

Nel film d’animazione La Principessa Mononoke, il protagonista Ashitaka è prigioniero di una maledizione lanciatagli da un demone. Consultata la sciamana del villaggio, Ashitaka apprende che il maleficio lo porterà alla morte perciò decide di lasciare la terra natale alla ricerca di una possibile cura. Durante il suo viaggio incontra Jiko, un monaco errante che confida al protagonista di essere un Dio della foresta, chiamato in giapponese shishigami.
I due condividono insieme un pasto in mezzo ai resti di un villaggio devastato dagli spiriti e il monaco serve al ragazzo proprio l’okayu.

credits: dubsub.blogspot.com

La ricetta: gli ingredienti

4 Uova
Dado granulare di pollo (basta un cucchiaio)
Pasta di miso (un cucchiaio)
60g di riso
Gambi di coriandolo (da 1 a 3)
1 pizzico di pepe
1 pizzico di cipolla fritta in scaglie

La ricetta: cucinare il piatto

Fate bollire 1 litri d’acqua in una pentola. Nel frattempo preparate una frittata con un uovo e fatela cuocere 2-3 minuti a fiamma alta.  Toglietela dal fuoco e tagliatela a listarelle.

Quando l’acqua bolle aggiungete il dado granulare di pollo, la maizena diluita, 3 uova sbattute e la pasta di soia a pezzetti in modo che si sciolga più facilmente.

In un’altra pentola piena d’acqua bollente fate cuocere il riso per 15 minuti. Una volta pronto scolatelo, versatelo nel brodo e proseguite la cottura a fuoco lento finché non sarà diventato una sorta di porridge.

Versate la zuppa in una scodella. Infine guarnite con le listarelle di frittata e spolverate con coriandolo, pepe, cipolla fritta in scaglie.

Ecco che otterrete così una variante molto gustosa di okayu! Provatela e condividete sui vostri social con @giapponeintalia le vostre varianti! Non vediamo l’ora di vedere cosa avete cucinato!

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Tradizioni di Natale in Giappone - Luminarie di Kobe

Nonostante il Giappone non sia una popolazione interamente cristiana, il Natale è comunque una festa molto sentita dai giapponesi.

Natale
Photo credits: jrailpass.com

Mercatini, luminarie e tradizioni uniche che si possono trovare solo in Giappone… diamo uno sguardo a come i giapponesi festeggiano questi giorni!

Qui in Italia esiste il detto “Natale con i tuoi, Pasqua con chi vuoi” beh, in Giappone non è esattamente così. Il Natale è il momento da trascorrere con gli amici, tra feste e divertimenti con svariati cibi e bevande! La Vigilia di Natale è, addirittura, definito il giorno più romantico dell’anno, siamo davanti alla versione giapponese di San Valentino. Cene romantiche, regali, il sentimento di coppia arriva prima di tutto e nel caso tu non avessi un partner, è meglio stare a casa e non farsi vedere in giro da solo.

Tradizioni natalizie giapponesi

Il cibo a Natale
Come dicevamo, il Natale in Giappone è conosciuto non come una tradizione religiosa, bensì come un momento per diffondere la felicità e per farlo ci sono cibi deliziosi come la torta di Natale giapponese o “kurisumasu keki”. Venduta praticamente ovunque da Hokkaido a Kyushu, questo dolce è leggero e spugnoso con un ripieno di panna montata e glassa, sormontato da fragole rosse perfettamente tagliate. Questo delizioso dolcetto natalizio è anche visto come un simbolo di prosperità da quando il Giappone è risorto dalle rovine dopo la seconda guerra mondiale.

Natale
Photo credits: jrailpass.com

Ma il più grande pasto natalizio del Giappone si trova da KFC.
Ogni Natale, sembra che ben 3,6 milioni di famiglie giapponesi ricevano il loro pasto natalizio da Kentucky Fried Chicken. La domanda è così alta che la gente inizia a fare gli ordini per il menu speciale di Natale con sei settimane di anticipo!

Illuminazioni natalizie

L’intero paese impazzisce per le luminarie! Centri commerciali, ristoranti e aree pubbliche hanno le più incredibili esposizioni di luci che si possano immaginare e che portano l’atmosfera natalizia a tutti i presenti e stiamo parlando sia di piccole luminarie che di spettacolari proiezioni audiovisive.

Natale
Photo credits: jrailpass.com

I punti di riferimento più famosi e popolari con le loro illuminazioni festive uniche, sono per esempio la stazione di Tokyo, l’acquario Kaiyukan a Osaka, l’onsen vicino a Nagashima, Nabana no Sato e la città di Kobe.

Kobe Luminarie light festival

Natale
Photo credits: therealjapan.com

Kobe Luminarie è un festival annuale che si tiene a Kobe, ogni dicembre dal 1995 come commemorazione del grande terremoto Hanshin di quell’anno. Il festival Kobe Luminarie vuole assicurarsi che le vittime del Grande terremoto non siano dimenticate, raccogliendo anche fondi per beneficenza e offrendo uno spettacolo incredibile diverso ogni anno. Le luminarie di Kobe sono nate come segno di speranza: il terremoto del 1995 ha distrutto la rete elettrica di Kobe, facendo precipitare la città nell’oscurità. Le prime luminarie sono state progettate per illuminare la città ancora una volta, dando speranza agli abitanti di Kobe.

Questo stupefacente festival attira milioni di visitatori a Kobe nel mese di dicembre ed è un must-see dell’ inverno giapponese!
Le strade principali, chiuse al traffico per permettere ai visitatori di vedere le luci nel modo migliore possibile, sono fiancheggiate da alberi adornati con luci bianche mentre sistemi di altoparlanti pubblici diffondono musica. Sembra di entrare in un mondo magico, uno di quelli delle favole.

Natale
Photo credits: therealjapan.com

Cominciamo il nostro viaggio, per ora virtuale, immersi nelle luminarie di Kobe!

Parco Higashi Yuenchi
L’iconico tunnel di luci, corre per diversi isolati verso il Parco Higashi Yuenchi al culmine del Festival. Come tutte le esposizioni, varia ogni anno, ma è sempre uno spettacolo degno di nota. Immergetevi nei festeggiamenti! Giovani coppie che scattano selfie, famiglie in posa per le foto, bambini che non riescono a controllare la loro felicità.

Natale
Photo credits: therealjapan.com

Natale
Photo credits: therealjapan.com

Mercatini di Natale giapponesi

A Natale, il Giappone mostra i tipici mercatini dall’inizio alla fine della stagione invernale. Visitando il Giappone in questo periodo, potrai trovare di tutto, dai delicati ornamenti per l’albero al vin brulé. Un mercatino di Natale molto importante e significativo è quello di Tokyo e anche quello di Sapporo.

Un altro posto molto interessante a Natale è Tokyo Disneyland, in cui sia gli ospiti internazionali che quelli locali potranno godersi l’evento speciale “Christmas Fantasy”, che ha come tema “libri di storia pieni di divertimento natalizio dei Disney Friends”.
Questo evento offre agli ospiti un felice e fantastico Natale in stile Disney, con fuochi d’artificio, merchandising speciale, caramelle e uno speciale e delizioso menu di Natale.

Shopping natalizio in Giappone

Come abbiamo detto all’inizio, lo scambio di regali alla vigilia di Natale è cominciata come tradizione tra le coppie fino ad estendersi oltre è diventato una tradizione tra coppie! Il Giappone ha il suo proprio giorno in cui si scambiano i regali a dicembre, una sorta di Babbo Natale segreto giapponese.

Insomma, a fine articolo possiamo confermare che il Natale anche per il Giappone è un momento di festa sfrenata, magari poco religioso, ma sicuramente molto improntato sull’aggregazione. Noi di Giappone in Italia stiamo aspettando di poter godere questo momento nuovamente, venite con noi?

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Approfondimenti: Senchadō, La Via del Sencha

Avete mai sentito parlare di Senchadō? L’ospitalità in Giappone riveste da sempre particolare importanza. Servire il tè è una delle sue massime espressioni, tanto da rappresentare una forma d’arte vera e propria. Con “Cerimonia del tè” di solito ci si riferisce al Chadō o Sadō, anche conosciuto come Cha no Yu (茶の湯 · “Acqua calda per il tè”). Ossia il cerimoniale dove regna sovrano il tè in polvere Matcha (抹茶) e che rappresenta la Cerimonia del tè per eccellenza.

Ma… sarà davvero l’unico tipo di cerimonia del tè esistente?

Senchadō 煎茶道 La Via del Sencha

Se infatti Chadō (茶道) è la “Via del Tè”, Senchadō (煎茶道) letteralmente significa “Via del Sencha”. Altro non è, che una versione meno nota del più famoso Chadō che propone un diverso tipo di cerimonia e di tè. Il Sencha infatti è un tè verde (緑茶 · Ryokucha) che, all’opposto del Matcha, non viene macinato ma lasciato sfuso. Il Senchadō non a caso nasce appositamente come alternativa al Chadō tradizionale, anche se per certi aspetti finisce per ispirarvisi o esserne influenzato.

La prima – quasi simbolica – differenza è data quindi dal tipo di tè. Nel Chadō, costituendo esse il tè in polvere, le foglie sono parte stessa della bevanda; nel Senchadō invece la preparazione avviene per infusione. Sia Matcha sia Sencha originano dalla Cina. Ma, mentre il Matcha risale al periodo della Dinastia Song (960-1279), il Sencha era in uso sotto la Dinastia Ming (1368-1644)– anche se probabilmente esisteva già da prima.

La differenza cardine risiede però nella medesima ragion d’essere del Senchadō: l’intento di contrapporsi alla disciplinata etichetta del tradizionale Cha no Yu. Fin dai suoi albori, il cerimoniale del Sencha promuove infatti un approccio più libero, meno codificato, all’arte del tè. Un po’ più “easy”– se così è concesso dire. Un approccio caratterizzato dalla ricerca di una semplicità, intesa come antitesi alla codificazione del Chadō.

Photo credits: hibiki-an.com

Tratto distintivo del Senchadō è poi anche il piacere estetico e la pregiatezza degli utensili adoperati (sovente infatti, le cerimonie Sencha possono accompagnare esposizioni d’arte). Questo aspetto ci riporta però anche al Cha no Yu delle origini… quando ancora non era tale. Ossia prima che il maestro zen Sen no Rikyū lo codificasse consacrandolo definitivamente come “Via del Tè”.

Prima di allora, anche l’esecuzione di quel Chadō allo stadio embrionale avveniva in funzione dell’esibizione degli oggetti. Motivo per cui Rikyū decise di intervenire, spostando il focus dall’esterno all’interno, dall’esteriorità alle persone coinvolte, rendendo il cerimoniale più essenziale e meno elaborato. Pur tuttavia cristallizzandolo, come sappiamo, con regole ben definite ispirate al Wabi-Sabi.

Mentre il popolare Matcha ha ormai da tempo varcato i confini della cerimonia (pensiamo ai dolci al matcha o al matcha-latte…), anche il Sencha, dalla sua, riscuote molto successo. Oggi è forse il tè più amato dai giapponesi… il più popolare, seppur a livello informale.

Origini della cerimonia: Ingen e Baisaō

Le origini del Senchadō risalgono al XVII secolo – circa cinque secoli più tardi rispetto a quelle del “proto-Chadō” – quando un monaco cinese noto in Giappone come “Ingen” giunse portando con sé novità culturali interessanti. Sarebbe stato proprio lui infatti a introdurre il servizio da tè e il modo di servire e consumare la bevanda, tipici del Gōng Fū Chá (工夫茶), l’arte del tè cinese. In particolare, quella in stile Ming. In contemporanea anche i mercanti cinesi che giungevano in Giappone – nonché quelli giapponesi estimatori della cultura cinese – contribuirono alla sua diffusione.

Il tè in foglie fece così comparsa sulla scena andando ad affiancare il Matcha – sino ad allora incontrastato –, riscontrando l’apprezzamento dei circoli della classe colta. Il cerimoniale Sencha quindi, che nasce sul calco dell’omologo cinese, è figlio degli ambienti intellettual-artistici dell’epoca. E giacché in quegli ambienti la cultura cinese andava parecchio “di moda”, non stupisce che ne abbia conservato lo stampo. A differenza del Chadō tradizionale, che dall’iniziale forma opulenta “Shoin-cha” gradualmente passa alla forma “Wabi-cha”, il Senchadō non conosce una simile metamorfosi. Divenuto anzi esso stesso simbolo di tale raffinatezza culturale, si diffuse in seguito anche presso la popolazione alfabetizzata urbana e rurale.

Photo Credits: ifuun.com

È interessante però come vi siano degli incredibili punti di similitudine fra le storie dei due cerimoniali. Proprio come per il Chadō, l’inizio del Senchadō è segnato da un personaggio apripista, Ingen, che dalla Cina importa una certa tradizione legata all’arte del tè. È colui che dà l’input.

Per il Cha no Yu tradizionale l’apripista era stato il monaco giapponese Eisai, il quale, oltre a fondare la scuola Zen Rinzai, aveva importato il metodo di preparazione Matcha. Come dicevamo all’inizio, vi è poi una certa similitudine con il Chadō degli inizi nel piacere del gusto estetico e nel focus sugli oggetti raffinati (inizialmente cinesi nella forma Shoin-cha).

Inoltre, anche Ingen fonda una particolare scuola Zen, la Ōbaku. E proprio da questa scuola, un secolo più tardi, uscirà un personaggio che pure si rivelerà fondamentale nella storia del cerimoniale Sencha. Qualcuno che vi lascerà la sua impronta… il “Rikyū del Senchadō”: un monaco noto con il nome di Baisaō. Un po’ come accadde al Chadō infatti, anche il Senchadō conoscerà un suo secondo padre.

La Via del tè in semplicità

In sostanza, il cerimoniale del Sencha prese forma da riunioni informali di cui arte e letteratura divennero da subito tema centrale. Si trattava di incontri conviviali che avevano luogo presso le dimore di anfitrioni colti e benestanti, di cui gli invitati ammiravano le collezioni. Collezioni per lo più composte di Karamono (唐物), opere in stile cinese o provenienti dalla Cina. La fine arte cinese, in particolare quella di epoca Ming, si è già detto, era molto apprezzata in questi ambienti. Quindi l’arte del Sencha, essa stessa di impronta cinese, non poteva che sposarsi perfettamente con i gusti di tali artisti e intellettuali.

Molto meglio di quanto non potesse fare il Chadō– che propone invece un’estetica sobria, una disciplina spirituale vera e propria nonché un rituale molto codificato. Un tale approccio cozzava con i bisogni di questi intellettuali… i quali intendevano viversi l’arte del tè con più spensieratezza, unitamente ad una sana contemplazione della bellezza raffinata. Ricercavano un tono rilassato ed informale che dalla cerimonia tradizionale non potevano avere. Ma il Cha no Yu tradizionale, visto appunto come troppo elaborato, formale e rigido, non stette stretto solamente alla classe colta…

Photo Credits: jalan.net

Nel XVIII secolo fece infatti la sua comparsa un monaco, Gekkai Gensho, il quale diede al cerimoniale un ulteriore boost di popolarità. Nato sotto il nome di Kikusen Shibayama, egli divenne presto noto con il soprannome di “Baisaō”, ossia “[venerabile] anziano venditore di tè”. Monaco e poeta, divenne famoso grazie ai suoi viaggi per le strade di Kyōto durante i quali vendeva Sencha come ambulante– cosa che gli valse appunto l’appellativo (anche se in realtà le sue erano vendite a offerta libera).

Come gli intellettuali benestanti, anche Baisaō rimase colpito dall’approccio dei maestri del tè cinesi, che con tanta naturalezza riuscivano a sposare compostezza a leggerezza. Arrivò così a ritenere l’arte del Sencha un modo altrettanto valido di perseguire una Via spirituale attraverso il tè– tanto quanto quella tradizionale legata al Matcha. Iniziò così a farsene attivo promotore presso il grande pubblico, in quel di Kyōto.

Raggiungendo il suo obbiettivo: nel tempo divenne così oggetto di riverenza che anche il tè Sencha crebbe di popolarità!

Photo Credits: wikipedia.org

Baisaō, padre del Senchadō

Proprio come gli intellettuali benestanti, anche Baisaō si dimostrò insofferente all’impostazione del Chadō tradizionale, preferendogli di gran lunga la più libera arte del tè Ming. La stessa scuola Ōbaku, da cui proveniva, era specializzata nella preparazione per infusione (d’altronde, era stata creata dallo stesso Ingen). È ragionevole pensare quindi che il monaco fosse già predisposto all’approccio del Senchadō, provenendo da tale scuola.

Baisaō però temeva che con il tempo il Senchadō finisse per seguire le orme del Cha no Yu. Cominciando, ad esempio, dalla consuetudine di rivendere, dopo la loro morte, gli utensili appartenuti ai rinomati maestri del Chadō. Nel timore che anche i suoi strumenti potessero incorrere in un simile destino decise, proprio poco prima di morire, di bruciarli tutti. Sforzo che tuttavia risultò vano: dopo la sua scomparsa non solo spuntarono copie della sua attrezzatura ma addirittura anche un manuale di “istruzioni per l’uso”.

Ciononostante la tradizione legata al Sencha sembra aver comunque conservato una trasmissione per lo più studente-allievo, tanto che incappare in simili manuali sarebbe più difficile. Quindi forse una speranza, quella di Baisaō, non del tutto vana.

Altra svolta si ebbe poi quando un conoscente dello stesso Baisaō ideò un nuovo metodo di produzione del tè, diverso anche da quello cinese. Seguendo tale procedura, le foglie venivano cotte al vapore (passaggio mancante nella procedura cinese tradizionale) per poi venir essiccate. È a questo punto che il termine “Sencha” (letteralmente “tè bollito”) sarebbe nato o quanto meno avrebbe preso a designare questo specifico metodo di produzione ‘made-in-Japan’.

Il cerimoniale Sencha continuerà a fiorire sino a tarda epoca Tokugawa (1603-1868): dall’era Meiji, la sua popolarità comincerà a calare fino a divenire sempre più circoscritto– differentemente dalla sua controparte tradizionale. In ogni caso, come accadde per il cerimoniale del Matcha, anche su quello del Sencha si fonderanno diverse scuole.

La cerimonia del Sencha

Cos’ha dunque di particolare questo cerimoniale rispetto a quello del Matcha? L’ambientazione – la casa da tè – oggigiorno non è molto dissimile da quella del Chadō. Le cerimonie sono aperte sia a piccoli sia a grandi gruppi di persone e, proprio come quelle del Chadō tradizionale, possono avere luogo anche all’aperto se il tempo lo consente. Aldilà del diverso tipo di tè e di preparazione, ciò che lo distingue è il tono più rilassato e la presenza di momenti informali alternati a quelli formali. E poiché qui l’estetica raffinata è valorizzata, è consuetudine per l’ospite della cerimonia esporre i propri oggetti d’arte – almeno i principali – che si tratti di cerimonie pubbliche o private.

Come nel Sadō, al loro arrivo gli ospiti possono essere fatti accomodare in una sala d’attesa e, prima dell’inizio della cerimonia, può esser loro servita una bevanda.

Photo credits: ekiten.jp

Gli utensili adoperati, proprio come nel Chadō, possono variare a seconda della scuola (alcune ad esempio si servono di oggetti giapponesi). Nel corso del cerimoniale gli oggetti, come teiera (急須 · Kyūsu) e tazzine, vengono portati su di un vassoio da uno o più assistenti. Se si opta per la qualità Gyokuro​ (玉露) – più pregiato – può essere che la teiera presenti forma particolare o che vi sia anche un bricco. Il Gyokuro​ si differenza dal Sencha standard per essere coltivato all’ombra invece che in pieno sole.

Per contro, vi sono anche varietà meno pregiate, perciò preparate meno di frequente– come Bancha o Hojicha.

Oltre a Kyūsu e tazzine, altri utensili tipici sono:

  • contenitore ermetico (per conservare le foglie di tè);
  • paletta in bambù (per raccogliere le foglie più piccole);
  • contenitore per le foglie scartate (ed eventualmente l’acqua usata per rivitalizzare il tè sfuso);
  • lo Yuzamashi, accessorio per raffreddare l’acqua che serve a risvegliare le foglie (può fungere anche da brocca una volta che il tè ha finito di macerare).

Photo Credits: hankyu-dept.co.jp

Temperatura e tempo d’infusione – oltre a quantità del tè e dell’acqua – sono parametri essenziali cui prestare attenzione. Poiché dalla loro miscela dipenderà il sapore finale, tendente all’umami (il quinto senso, “saporito”) piuttosto che all’amaro. Infine, anche qui fanno la loro comparsa i deliziosi dolcetti giapponesi, consumati prima del tè, come nel Chadō.

Senchadō e Chadō: due prospettive a confronto

Una cosa interessante da notare è come entrambi gli approcci si propongano la ricerca della semplicità – e il rifuggire l’elaboratezza – ma al contempo siano antitetiche l’una all’altra. Questo perché ognuna ricerca la semplicità (come positiva) e riscontra elaboratezza (come negativa) in dimensioni differenti.

Il Chadō la ricerca nell’esteriorità, mentre il Senchadō nella procedura e nell’atmosfera dell’arte del tè. Ciò che l’una vede di positivo o negativo in una determinata area, l’altra prospettiva non riesce a vederlo. Il Chadō, così come lasciatocelo da Rikyū, è essenziale e ripudia l’opulenza della dimensione esteriore. Il ‘troppo’ va eliminato. Poiché gli eccessi sensoriali distolgono dalla centratura meditativa da lui voluta per il Chadō, venendo l’attenzione catalizzata da ciò che appare e la concentrazione così intaccata. La bellezza nel Chadō di Rikyū non dev’essere quindi “raffinata” ma sobria. In questo modo si cerca di ridurre al minimo indispensabile ogni tipo di stimolo sensoriale.

I fautori del Senchadō per contro lamentavano sì troppa elaboratezza, ma non nella dimensione esteriore: bensì, nella codificazione stessa dell’arte del tè. Una codificazione ritenuta appunto eccessiva, tale da rendere l’esperienza – dal loro punto di vista – troppo inquadrata, rigida e formale. In questo senso dunque, ricercavano la semplicità: non nell’estetica, bensì nel modo di porsi e performare il cerimoniale. L’approccio per loro doveva essere più “light”. Mentre l’estetica cui erano abituati (e che magari il Chadō tradizionale poteva inquadrare come opulenta) non rappresentava un eccesso negativo, ma anzi una raffinata estetica. La sua contemplazione, qualcosa di del tutto naturale.

Due concezioni di semplicità/elaboratezza agli antipodi, indubbiamente. Ricapitolando: il Chadō ricerca la semplicità nel momento in cui tenta di eliminare tutto ciò che non è necessario e a tal fine opera una serie di accorgimenti applicando il criterio del “meno è più”; per il Senchadō sono proprio tali ‘rimedi’ messi in atto a far venir meno la semplicità– per come appunto dai suoi fautori intesa. Invece, essi ricercavano un metodo di preparazione più flessibile, maggiore libertà di espressione nonché il piacere della bellezza raffinata. E poi, come probabilmente avrebbe detto Baisaō: anche in questo modo, si può camminare lungo una Via spirituale.

Photo credits: girlschannel.net

Un’altra Via del Tè

Abbiamo visto che la cerimonia del Sencha è un modo diverso di vivere l’arte del tè, originatosi qualche secolo più tardi rispetto a quella del Matcha. “Senchadō” designa un modo alternativo di bere e gustare i tè verde giapponesi (più vegetali e dal sapore umami rispetto a quelli cinesi).

Rimane però comunque, a tutti gli effetti, parte integrante della Via del Tè… poiché, per quanto diverso, con il Chadō tradizionale condivide un medesimo cuore. Ossia, il voler in qualche modo entrare in comunione con qualcosa aldilà di sé stessi– oltre ad essere entrambi espressione di quell’ospitalità tanto valorizzata nella cultura giapponese. Come nel cinese Gōng Fū Chá e a differenza del Chadō, il metodo di preparazione è più semplice, sebbene nel tempo si sia formalizzato un pochino di più rispetto agli inizi.

Personalmente, non vedo perché Chadō e Senchadō non possano coesistere o debbano escludersi. Anzi, se vogliamo, possono essere due esperienze speculari… possono, per così dire, completarsi. In questo modo ciò che l’uno non è grado di dare in termini di esperienza, è l’altro a poterlo fare. Dopotutto, si può essere ben consapevoli o presenti a sé stessi in qualsiasi circostanza, situazione e luogo. Sono dell’idea che i due cerimoniali colgano due diversi aspetti di una stessa realtà.

Saranno anche inconciliabili nel momento stesso delle loro esecuzioni (le esigenze che l’una e l’altra cerimonia richiamano sono naturalmente diverse), tuttavia entrambe possono contribuire al benessere degli individui. Ognuna in momenti diversi. Ognuna nel proprio opportuno momento. Il Cha no Yu è preziosissimo in termini di disciplina spirituale… nell’insegnare la centratura meditativa. Il Senchadō invece può subentrare e svolgere il suo compito nel momento in cui si abbia bisogno di accedere a una “comunione con il Tutto”… in modo leggero.

Dopotutto, non c’è un tempo per ogni cosa?

Photo credits: theartofjapanesegreentea.com

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Consigli di etichetta in Giappone, le regole di comportamento sociale

Cos’è l’etichetta in Giappone? Prima di mettere piede in un nuovo posto, è giusto informarsi bene sul cosa fare e cosa non fare. Quindi che cosa dobbiamo aspettarci andando in Giappone?

Il Giappone è un paese che tiene in modo particolare all’etichetta, i giapponesi guardano molto le regole comportamentali che una persona osserva… e il più delle volte non te lo fanno capire! Non perchè non siano sinceri, ma perchè la loro delicatezza e timidezza tende molto a non farli esprimere liberamente.

Secondo la testata savvytokyo.com/ , ecco le cinque regole per rispettare l’etichetta in Giappone!

etichetta in giappone
Photo credits: savvytokyo.com

Non mangiare e bere sui treni o mentre si cammina

Non che sia una cosa particolarmente ineducata farlo, ma meglio evitarlo, perchè dà l’idea di qualcosa di trasandato. Il giapponese non ama molto la poca cura di sè stessi e degli altri, per questo vi sconsigliamo caldamente di farlo!
Questa regola ovviamente non vale sugli shinkansen e sugli aerei dove viene servito il cibo, in quel caso è bene consumare tutto.

etichetta in giappone
Photo credits: savvytokyo.com

Parlare a voce alta sui treni

Mai mai mai parlare a voce alta sui mezzi di trasporto! In Giappone farlo significa essere molto maleducati e poco rispettosi verso gli altri. Se proprio si riceve una telefonata, meglio rispondere quando si scende alla fermata, senza far sentire a tutti la propria discussione.

etichetta in giappone
Photo credits: savvytokyo.com

Manifestazioni pubbliche d’affetto

Sicuramente avete presente l’immagine di due giapponesi che si scambiano il biglietto da visita tenendolo con entrambe le mani. Ecco, questo è il modo in cui ci si presenta in Giappone. Giusto tenere il biglietto da visita con entrambe le mani ed il proprio nome a favore di lettura della persona che si sta conoscendo. In generale, i giapponesi sono molto timidi e molto conservatori, quindi non amano molto le manifestazioni pubbliche d’affetto. Evitare quindi i baci e gli abbracci in pubblico, un saluto a distanza è sempre più apprezzato ed elegante. Generalmente, il giapponese tende a perdere i suoi freni inibitori dopo qualche bicchiere in più, ma in quel momento sarà lui stesso a farsi vedere predisposto ad una manifestazione più “affettuosa”.

Usare in modo corretto le bacchette

Per quanto riguarda le bacchette, le regole da seguire sono più di una.
Quando si mangia, usare il più possibile le bacchette evitando le dita.
Mai giocherellare con le bacchette e quando non si sta mangiando è importantissimo ricordarsi di appoggiarle sull’apposito supporto e MAI verticalmente nel riso! Ricordiamo che questa immagine ricorda l’incenso che si mette a bruciare per il defunto, quindi davvero poco bello da vedere. Il piatto è sempre affiancato dal supporto per le bacchette, quindi è buona educazione utilizzarlo.
Mai passare il cibo da una bacchetta all’altra, perchè questo gesto ricorda un funerale tradizionale buddista, quando le ossa del defunto vengono passate tra le bacchette cerimoniali dei membri della famiglia.

etichetta giapponese
Photo credits: savvytokyo.com

Separare correttamente i rifiuti

In Giappone è importantissimo separare i rifiuti in modo corretto, in caso contrario i tuoi vicini potrebbero crearvi non pochi problemi ed esistono molte regole riguardanti questo. Spesso, a causa della non osservanza di queste regole, si arriva a veri e propri litigi e “vendette” davanti alla tua porta di casa.

Queste sono solo alcune regole da seguire per vivere serenamente e in modo rispettoso il Giappone, ma ci sono altri comportamenti che è giusto seguire come essere puntuali, non cercare mai scuse, non fumare mentre si cammina per strada, ma usufruire degli appositi “angoli per fumatori” e non versarsi la birra da soli ad una festa. In fin dei conti, basta un po’ di senso civico e di educazione.

Siete pronti quindi ad andare in Giappone, a rispettare e farvi rispettare, ora che sapete cos’è l’etichetta in Giappone!

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Approfondimenti: In cucina con lo studio Ghibli, il bento di Totoro

In Italia sta prendendo sempre più piede la cultura giapponese ed in particolare la sua tradizione culinaria. Ci sono tantissimi blog di cucina giapponese che spuntano sul web e noi non volevamo essere da meno.

Tuttavia, Giappone in Italia cerca sempre di proporre contenuti differenti e vogliamo condividere con voi lettori delle ricette speciali! Da oggi lanciamo una rubrica fissa e vi portiamo in cucina con noi e lo Studio Ghibli. In questo articolo vi parliamo del bento giapponese!

Cos’è il bento?

Il bento spiegato in maniera molto semplice è il pranzo al sacco giapponese. Lo si può comprare al konbini, il convenience store aperto 24 ore su 24, oppure come vuole la tradizione può essere fatto in casa. Il bento è una parte molto importante della cultura culinaria giapponese. Si tratta di un pasto equilibrato composto da una porzione di riso, una di proteine e una di verdura o frutta. Tuttavia una delle caratteristiche fondamentali del piatto è proprio l’estetica. Un bento deve essere tanto buono quanto esteticamente piacevole.

Il bento dello Studio Ghibli

Ne “Il mio vicino Totoro”, Satsuki di dieci anni e sua sorella Mei di quattro vivono a casa da sole con il papà mentre la mamma è in ospedale. In questo film vediamo Satsuki che prepara il bento per un pic-nic. Il suo è il classico esempio di un tipico bento equilibrato e molto carino.

credits: reddit.com

La ricetta: gli ingredienti del bento

Riso: 120g

2 Pesci Shishamo surgelati: sono piccoli pesci argentati originari dell’Hokkaido, l’isola più settentrionale dell’arcipelago giapponese.
Pesci simili a questi si possono trovare nella maggior parte dei supermercati come i pesci sperlano, acciughe o aringhe.

Olio Evo qb

Filetto di orata: 100g

Sake: 0,5 ml, in alternativa si può usare del vino bianco

Zucchero: 2 cucchiai

Sale: 1 cucchiaino

Colorante rosso: 2 gocce. Può essere benissimo sostituito con due cucchiai di passata di pomodoro.

Umeboshi 2: sono le prugne giapponesi in salamoia. Sono super salutari, ottime per la digestione e si dice che combattano anche la stanchezza. Potete farle a casa da sole oppure trovarle online su Kathay (https://www.kathay.it/search?type=product%2Carticle&q=umeboshi*), uno dei nostri negozi convenzionati, ma anche su Amazon!

La ricetta: cucinare il piatto

Fate cuocere il riso coperto (due tazza di acqua per ogni tazza di riso). Scongelate gli shishamo o il pesce che avete scelto in alternativa e fateli rosolare nel fuoco a fuoco medio, 5 min. per lato. Una volta pronti stenderli su una carta assorbente perché rilascino l’olio in eccesso.

In un’altra pentola fate bollire l’acqua e immergete i filetti di orata. Quando iniziano a sfaldarsi, scolateli e metteteli in un piatto.

Fate saltare l’orata in una padella a fuoco medio, aggiungendo il sakè, lo zucchero e il sale. Spargete bene quest’ultimo. Mescolate tutto finchè il liquido non sarà evaporato.

Aggiungete all’orata il colorante rosso (o pomodoro) e un po’ d’acqua per ottenere la tonalità desiderata, e ripassate a fuoco dolce. Mescolate.

Versate il riso cotto sul fondo del bento aggiungendo 1 shishamo e 1 umeboshi per porzione. Sistemate l’orata sbriciolata in modo tale che occupi lo spazio di un rettangolo. Posizionate poi i fagioli edamame nel rettangolo opposto.

Et voilà il bento è pronto! Se provate a fare questa ricetta, condividetela sui social taggando @giapponeinitalia, siamo curiosi di vedere ciò che avete preparato!

credits: sylviawakana.com

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Approfondimenti: Introduzione ai mostri e spiriti giapponesi

Introduzione agli yōkai

Gli yōkai 妖怪 sono creature soprannaturali della mitologia giapponese. La parola è composta dal kanji 妖 (yō, maleficio) e 怪 (kai, manifestazione inquietante). La loro storia può essere fatta risalire fin dai tempi antichi. Già nel periodo Heian esistevano diverse raccolte che parlavano di mostri, come ad esempio il Konjaku Monogatari-shu. Nel medioevo con la nascita degli otogizōshi, storie in prosa, e degli emakimono, opere narrative illustrate, gli yōkai cominciarono a prendere forma ed essere raffigurati in queste opere. Ad esempio nello Hyakki Yagyo Emaki lett. “La parata notturna dei cento demoni” del periodo Muromachi (1336 – 1573) si parla di una credenza del folclore giapponese secondo cui gli yōkai ogni anno prendevano d’assalto le strade durante le notti d’estate. Tutti coloro che passavano vicino a questa processione perdevano la vita, a meno che non fossero protetti da un sutra.

credits: natsukokondo.com

Nel periodo Edo le storie di fantasmi cominciarono a diventare popolari. Erano per lo più adattamenti di romanzi cinesi e un mix di folklore e storie tradizionali. Proprio in questo periodo, gli yōkai cominciarono ad essere raffigurati da artisti famosi del genere ukiyo-e come Katsushika Hokusai e Utagawa Kuniyoshi.

credits: intojapanwaraku.com

In epoca moderna e contemporanea, gli yōkai hanno cominciato ad assumere caratteristiche sempre più concrete e fisse. Grazie anche all’influenza dall’estero, questi personaggi hanno attenuato il loro aspetto più terrificante per diventare veri e propri oggetti di intrattenimento. Sempre più ritratti nei manga, illustrazioni e anime, la loro diffusione ha portato alla nascita di nuove storie e nuove generazioni di mostri.

I Tre Grandi Yōkai del Giappone

Katsumi Tada, ricercatore yōkai, ha indicato come “I Tre Grandi Yōkai del Giappone” gli oni, i kappa e i tengu.

Gli oni 鬼 sono creature mitologiche simili ai demoni occidentali. Normalmente vengono descritti come creature giganti e mostruose, con artigli taglienti, capelli selvaggi e due lunghe corna sulla loro testa. Nelle primissime leggende, gli oni venivano descritti come creature benevole capaci di allontanare spiriti maligni. Durante l’era Heian, il buddhismo giapponese fece degli oni i guardiani dell’inferno o i torturatori delle anime dannate. Con il passare del tempo, gli oni vennero sempre più associati al male e considerati portatori di calamità. I racconti popolari e teatrali iniziarono a descriverli come bruti e sadici, felici di distruggere.

I kappa 河童 sono creature leggendarie che abitano i laghi e i fiumi del Giappone. Gran parte delle descrizioni dipinge i kappa come umanoidi delle dimensioni di bambini, sebbene i loro corpi siano più simili a quelli delle scimmie o a quelli delle rane. Generalmente i disegni mostrano i kappa con spessi gusci simili a quelli di una tartaruga e con la pelle a scaglie in colori che vanno dal verde, al giallo o al blu. La caratteristica principale del kappa è una depressione in cima alla testa piena d’acqua e circondata da ispidi e corti capelli.

Infine, i tengu 天狗 sono creature fantastiche dell’iconografia popolare giapponese. Generalmente sono rappresentati come uomini-uccello, dotati di un lungo naso prominente o addirittura di un becco, con ali sulla testa e capelli spesso rossi. I tengu abitano le montagne del Giappone come il monte Takao o Kurama e preferiscono fitte foreste di pini e criptomerie. La terra dei tengu si chiama Tengudō, che può corrispondere ad una locazione geografica, una parte di un regno demoniaco, o semplicemente un nome per ogni accampamento di tengu.

credits:pinterest.jp

La differenza fra yūrei e yōkai

Gli yūrei 幽霊 sono i fantasmi della tradizione giapponese. Il nome è composto dai kanji 幽 (yū, flebile”, “evanescente”, ma anche “oscuro”) e 霊 (rei, anima” o “spirito”). Secondo la tradizione giapponese, tutti gli esseri umani hanno uno spirito/anima chiamata reikon 霊魂. Quando essi muoiono, il reikon lascia il corpo e resta in attesa del funerale e dei riti successivi prima di potersi riunire ai propri antenati nell’aldilà. Se le cerimonie sono svolte nel modo appropriato, lo spirito del defunto diventa un protettore della famiglia a cui torna a far visita ogni anno durante la festa Obon. Se i riti funebri non vengono effettuati, come in caso di morte improvvisa o violenta, il reikon può trasformarsi in yūrei ed entrare in contatto con il mondo fisico. Solo dopo aver celebrato i riti funebri e risolto il conflitto emotivo che tiene il fantasma legato al mondo dei vivi, lo yūrei può essere scacciato.

Le caratteristiche degli yūrei

Ci sono peculiarità che contraddistinguono gli yūrei e che aiutano a distinguerli dagli yōkai. Intanto questi spiriti non si impossessano mai di un umano a caso. Appaiono infatti solamente dinanzi a quelle persone che hanno causato loro dei ricordi infelici. Se ne vanno solo quando le loro lamentele e i loro desideri vengono attentamente ascoltati e quindi cessa quel dolore che prima li tratteneva nel mondo terreno. Gli yūrei vengono sempre rappresentati senza gambe, per differenziarsi dal mondo dei vivi, e spesso sono vestiti di un ampio abito bianco che ricorda il kimono funerario in uso durante il periodo Edo.
Un’altra caratteristica è che spesso i fantasmi compaiono con indosso gli stessi vestiti di quando sono morti. Infine, le mani dello yūrei sono un tratto caratterizzante di queste figure: queste infatti penzolano senza vita dai polsi che sono generalmente portati in avanti con il gomito all’altezza dei fianchi.

credits:0plusart.com

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Approfondimenti: La casa moderna giapponese

La casa moderna giapponese presenta delle caratteristiche particolari soprattutto in termini di spazi abitativi , piuttosto piccoli se paragonati alle nostre abitazioni. Per approfondire questo aspetto è necessario conoscere intanto il Giappone da un punto di vista geografico e sociale.

Questione geografica e sociale del Giappone

Il 75% della superficie del paese è composto da montagne e terreni collinari. Solo il 30,2% del terreno risulta abitabile. La limitata superficie abitabile fa sì che la densità di popolazione del Giappone sia tre volte più alta rispetto a quella europea. Le tre maggiori aree metropolitane dell’isola Honshū sono il Kantō (Area di Tokyo), Chukyo (Nagoya) e il Kansai (Ōsaka) e costituiscono il 51% del totale della popolazione giapponese.

credits:eubusinessinjapan.eu

Negli ultimi anni è cresciuta la forte migrazione dalle zone rurali a quelle urbane. Nell’anno 2013 è avvenuta quella più grande e contava ben 89,786 persone trasferitesi nelle maggiori aree di Tokyo, Nagoya e Ōsaka. Il limitato terreno edificabile in Giappone, dovuto alle sue caratteristiche geografiche e la densità di popolazione presente nelle aree urbane delle maggiori città, ha avuto una notevole influenza sulla costruzione delle case e soprattutto sulla loro dimensione.

Le dimensioni delle case moderne giapponesi

Mediamente un’abitazione moderna giapponese va dai di 50m² ai 70m².  Tuttavia, la dimensione può cambiare in base al tipo di appartamento e al posto in cui è situato. Ultimamente nei centri urbani si nota una maggiore presenza di appartamenti abitati da una sola persona. Su questo trend gioca un fattore fondamentale sociale del Giappone: i nuovi single. Dal 1973 infatti il declino del numero dei matrimoni è stato costante con l’aumento di giovani professionisti sempre più concentrati sulla carriera. Di conseguenza il settore delle costruzione di case mono-abitante registra un’altissima crescita. Seguendo questo trend, nella città di Tokyo è sempre più comune trovare appartamenti chiamati one-room ワンルーム. Si tratta di monolocali di piccole dimensioni che vanno solitamente dai 13m² ai 20m² ma possono essere anche più piccoli.

 

credits:news-postseven.com

La concezione dell’arredamento

La dimensione degli spazi abitativi giapponesi moderni influisce sull’arredamento. Quando si tratta di arredare spazi più o meno ridotti, in primo luogo la scelta ricade su mobili e accessori di piccole dimensioni. Inoltre è importante che siano funzionali in modo da essere combinati e utilizzati in vari modi. Emerge da ciò il concetto di polifunzionalità di spazi e oggetti. Le diverse aree abitative possono essere utilizzate con finalità diverse ma anche una stessa piattaforma può funzionare come piano di seduta, scrivania, tavolo per mangiare ecc. Un esempio di polifunzionalità è l’idea nata in Giappone di includere nell’arredamento delle proprie case la cosiddetta Draw a line. Si tratta di un bastone in tensione da porre alla due estremità di un pavimento, soffitto o parete a cui si possono appoggiare o attaccare supporti, ripiani, luci e simili. Già negli anni Cinquanta il brand Heian Shindo aveva iniziato a produrre queste aste che con il tempo hanno avuto un successo inaudito. La Draw a line è una soluzione essenziale, salva-spazio e rappresenta l’incontro di semplicità, linearità e stile giapponese.

credits: heianshindo.com

La scelta dei mobili

I giapponesi scelgono abilmente i mobili per arredare le proprie case basandosi sul principio di far sembrare le stanze più grandi. I divani vengono spesso spostati verso gli angoli o il muro in modo da sfruttare tutto lo spazio a disposizione. Posizionando gli oggetti in tale maniera, il pavimento sarà più libero e di conseguenza la casa sembrerà anche più spaziosa.
I mobili sono normalmente bassi e larghi così da essere in grado di offrire una visione più ampia della stanza. Tavoli, letti ma anche sofà, tutti con altezze contenute in modo tale da mantenere la linea degli occhi bassa.Nelle case moderne giapponesi di solito la cucina e la sala da pranzo rappresentano un unico spazio. Ultimamente in Giappone sta crescendo il numero di cucine con bancone che serve per consumare pasti veloci come la colazione. Per i pasti più formali con la famiglia si usa il tavolo posto di fronte al bancone. Un altro aspetto che differenzia le cucine giapponesi dalle altre è che gli elettrodomestici molto spesso sono già incorporati nella cucina. In altre parole nelle cucine molto spesso sono già preinstallati gli elettrodomestici tradizionali come il forno, fornelli, lavello, frigorifero ecc.

credits:suumo.jp

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Il potere delle onomatopee nella lingua giapponese

In ogni lingua ci sono suoni o azioni che difficilmente sono traducibili con una parola esatta, è per questo che esistono le Onomatopee e anche per il giapponese non si fa eccezione.

Ogni lingua ha la propria grammatica, la propria fonetica e anche le proprie onomatopee. Infatti, ci sono veri e propri studi che sostengono che il linguaggio è a tutti gli effetti arbitrario. Se ci pensiamo, non c’è nulla riguardante la parola gatto che rappresenti effettivamente un gatto. Inoltre, ogni lingua e ogni nazione ha la sua parola per chiamare questo animale. “Gatto” in Italiano, “neko” in giapponese, “mao” in cinese, “bilee” in hindi, “kissa” in fillandese, ma perchè? Andando ad analizzare, i suoni di questa parola non rimandano in alcun modo al ciò che un gatto fa (ad esclusione forse del cinese). Inoltre, anche la scrittura, non solo il suono, non ha niente a che fare con ciò che il gatto effettivamente è.

Lo studio della lingua

Andando più in profondità, possiamo anche notare come la parola assegnata ad un determinato significato ci influenzi sul percepito di esso. infatti, “aurora” suona e sembra bella e il nostro cervello collega questa sensazione a questa parola. Se l’aurora dovesse effettivamente essere chiamata “aknabart” avremmo la stessa sensazione? Direi di no. Infatti, le parole lunghe suonano complicate e le parole corte semplici. Le parole con consonanti gutturali suonano dure, invece quelle con consinanti morbide suonano gentili. Che sia tutto dovuto al contesto culturale, o c’è qualcosa di innato nei suoni delle parole che ne influenzano il significato?

Dietro ad ogni lingua, c’è un vero e proprio studio che la riguarda. I ricercatori hanno infatti indagato sull’ipotesi appunto che il linguaggio sia arbitrario. Questo spiegherebbe perchè esistono alcune parole che, pur non conoscendo la lingua, ci permettono di capire di cosa stiamo parlando. Mi riferisco precisamente ai suoni “ideofoni”, ovvero parole fonosimboliche che ci permettono di indovinare il significato anche quando non conosciamo la lingua.

La definizione di onomatopea

Dal dizionario Treccani:

onomatopèa (meno com. onomatopèia) s. f. [dal lat. tardo onomatopoeia, gr. ὀνοματοποιία, der. di ὀνοματοποιέω, comp. di ὄνομα –ατος «nome» e ποιέω «fare»]. – In linguistica, modo di arricchimento delle capacità espressive della lingua mediante la creazione di elementi lessicali che vogliono suggerire acusticamente, con l’imitazione fonetica, l’oggetto o l’azione significata; può consistere in un gruppo o in una successione di gruppi fonici (brrrcracbau bautic tacdin don dan), in una serie di sillabe in unità grafica (patapumtaratatàchicchirichì), o anche in una successione di più complesse unità ritmiche, per es. interi versi (costituendo in tal caso un accorgimento retorico, comunem. detto armonia imitativa: v. armonia, n. 2).

In senso più concr., la serie fonica stessa, o la parola, la locuzione formate in seguito a tale procedimento, alcune delle quali subiscono un completo adattamento grammaticale, con l’aggiunta di desinenze e suffissi che le rendono elementi stabili (soprattutto sostantivi e verbi) del lessico della lingua (così bisbigliarechioccolare e chioccolìotentennare, ecc.).

Per questi, non si parla più di onomatopea ma di origine onomatopeica, e il fenomeno rientra nel più vasto ambito dell’etimologia. Un particolare tipo di onomatopea è il fonosimbolismo (v. fonosimbolico). ◆ Con sign. simile, il termine è usato nella musica, con riferimento ai suoni imitativi che si hanno, per es., nella musica descrittiva.

Sia in italiano che in giapponese, le onomatopee seguono lo stesso principio di altre lingue (pensiamo infatti a “crash” in inglese). Tuttavia, nella lingua nipponica, queste onomatopee sono usate molto più frequentemente. Infatti, uno dei tips & tricks per dimostrare di conoscere la lingua giapponese, è quello di usare molte onomatopee, questo vi permetterà di risultare fluenti.

Onomatopee giapponesi

Photo credits: hiragananinja.tumblr.com

Le onomatopee giapponesi

Il giapponese ha diverse di queste parole e le onomatopee rientrano in questo ambito. Esse si dividono in due categorie: 擬音語 (giongo), parole che rappresentano suoni, e 擬態語 (gitaigo), parole che rappresentano un’azione, movimento o stato.

Tuttavia, è molto importante conoscere non solo la cultura del paese, ma anche il “lessico interno” della nazione. In altre parole, un ingelse per esempio può sentire istintivamente che la parola じゅくじゅく (juku-juku, trasudante / che cola) suona un po’ “appiccicosa e volgare”. E’ importante però capire perchè le queste parole si riferiscono a determinati significati.

Alcune onomatopee infatti hanno un senso immediato, specialmente quelle che usano la stessa sillaba ripetuta due volte. Per esempio こんこん (kon-kon, tap tap/knock knock), o はらはら (hara-hara, tremolio/palpitazione, sensazione di nervosismo/ansia) dove la ripetizione indica l’effetto sonoro o lo stato descritto.

Le peculiarità llinguistiche

Ci sono diversi modi per creare le onomatopee in giapponese, un altro è quello di aggiungere la vocale lunga alla parola per rappresentare la lunghezza o la continuazione.Per esempio, guardiamo チューチュー (chū-chū, sorseggiare/saltare liquidi) e ぐーぐー (gū-gū, russare). Un altro esempio è l’aggiunta di 濁点 (dakuten) nell’onomatopea. Dakuten sono i piccoli segni che trasformano か (ka) in が (ga). Questi vanno ad indicare un’onomatopea più forte di quella originale. Infatti, こそこそ (koso-koso, furtivamente/sussurrando) diventa ごそごごそ (goso-goso, frusciando/strisciando in giro). サクサク (saku-saku), il suono del camminare sulla brina o sulla sabbia, diventa ザクザク (zaku-zaku), il suono dello scricchiolio sulla ghiaia

Per essere ancora più precisi, dovremmo anche andare ad analizzare l’alfabeto giapponese, in particolare le sue vocali. Se guardiamo infatti la vocale お (o) contro い (i). お tende a rappresentare stati più lunghi e lenti, mentre い rappresenta quelli più piccoli e veloci. Applichiamolo alle onomatopee e avremo おどおど (odo-odo) che significa esitare o vacillare, mentre いそいそ (iso-iso) essere esaltato o entusiasta. Invece びくっ (biku) è un sussulto, mentre こてっ (kote) appisolarsi.
Invece, え (e) spesso indica gli stati negativi, come へべれけ (hebereke, essere super ubriaco), せかせか (seka-seka, sentirsi impaziente) e げっそり(gessori, completamente esausto).

Onomatopee manga

Photo credits: animeclick.it

Tuttavia, nella lingua giapponese, le onomatopee non sono solo formate da ripetizioni. Infatti molte terminano in り(ri), っ (uno stop glottale) o ん (n). Le onomatopee che terminano con uno stop glottale danno l’impressione di repentinità, ad esempio ごくっ (goku, gulp) o かりっ (kari, mordere qualcosa). Allo stesso modo, quelle he finiscono con り indicano morbidezza e lentezza. Guardiamo per esempio けろり (kerori, il cielo che diventa luminoso e chiaro) e しょんぼり (shonbori, sentirsi depressi/soli). Infine, ん indica spesso una risonanza, una vibrazione o un suono, come con かたん (katan, suono di qualcosa che cade) o るんるん (run-run, sensazione di euforia).

La scrittura delle onomatopee

Solitamente, troviamo le onomatopee scritte sia in hiragana che in katakana. Il primo ha un aspetto più morbido e gentile e viene usato spesso per i suoni morbidi, il secondo, più tagliente e pungente, lo troviamo nei suoni duri e in momenti di enfasi.

Questo deriva dal contesto culturale giapponese secondo due aspetti. Infatti gli hiragana li troviamo nelle parole nativi e grammaticali. Al contrario, i katakata indicano principalmente parole straniere in prestito. Il secondo aspetto invece emerge dai suoni intriseci delle parole ed è proprio questo che rende le onomatopee giapponesi uniche. Se imparate e usate nel modo corretto, si può diventare veramente potenti nell’uso di questa lingua.

E voi, quali onomatopee conoscete? Fatecelo sapere nei commenti!

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Approfondimenti: La storia del riso in Giappone, molto più di un semplice alimento

Il riso e le sue origini

Il riso in Giappone ricopre un’importanza fondamentale in quanto alimento base ma vi siete mai chiesti quale sia la sua vera origine? Il riso è stato introdotto per la prima volta in Giappone verso la fine del periodo Jōmon, intorno al 300 a.c. L’origine esatta del riso è ancora incerta ma la maggior parte degli studiosi è d’accordo sul fatto che provenga dalla Cina. Ci sono diverse teorie circa il percorso che il riso abbia compiuto per arrivare in Giappone. Potrebbe aver viaggiato dalla Cina settentrionale fino alla Corea per poi raggiungere il Giappone via mare. Secondo un’altra teoria sarebbe arrivato sulle coste giapponesi sempre via mare dal delta del Fiume Azzurro Yangzi per poi passare dalla Corea. Un’altra teoria ancora sostiene che sarebbe arrivato via mare dal delta dello Yangzi fino alla regione del Kyūshū. Qualunque sia stato il percorso, non vi è dubbio comunque che il riso sia arrivato in Giappone dal continente attraverso il Mar Cinese Orientale.

Le varietà del riso e i suoi diversi utilizzi

Oggi il riso è un alimento onnipresente sulla tavola giapponese e viene elaborato in infinite varianti. Il riso bianco, detto shirogohan 白ご飯, è quello che accompagna i tre pasti principali. Il kamameshi 釜飯 invece, letteralmente “riso bollente”, consiste in un piatto di riso insaporito da carne, pesce e piatti vegetali. Un’altra variante è l’okayu お 粥 e consiste in una sorta di porridge giapponese. Si tratta di una minestra semplice e digeribile a cui si ricorre se si è leggermente indisposti di stomaco. Sono inoltre moltissimi i prodotti nazionali lavorati con il riso. Ad esempio il famoso mochi 餅 non è nient’altro che un dolcetto preparato dal riso glutinoso, tritato e pestato per ottenere una pasta bianca morbida e appiccicosa che viene poi modellata in forme sferiche o rettangolari. Il sakè 酒, famosissima bevanda alcolica nazionale, è ottenuto da un processo di fermentazione che coinvolge il riso. Proprio per questo il sakè viene anche detto “vino di riso”. Ancora, i senbei 煎餅, sono i famosi cracker di riso molto amati anche fuori dal Giappone.

riso bianco

credits: newsweekjapan.jp

Tuttavia il riso non costituisce solo un alimento importante per la cucina giapponese. L’intera pianta del riso viene infatti utilizzata in diverse modalità. È il caso ad esempio dell’architettura tradizionale giapponese i cui elementi non sono altro che prodotti naturali composti da paglia di riso. Una volta che i grani vengono rimossi, la paglia viene utilizzata per rivestire i tetti tradizionali delle case giapponesi. Ma non solo! Se tessuta la ritroviamo nella pavimentazione a tatami 畳.

 

paglia di riso

credits: livejapan.com

Il riso nell’arte e nel teatro giapponese

L’importanza del riso per il popolo giapponese si riflette anche nella letteratura e nell’arte. La coltivazione del riso è uno dei tanti temi affrontati dalle poesie di Matsuo Bashō, uno dei più grandi maestri di haiku in Giappone. Inoltre, è notoriamente raffigurata anche nelle famose stampe artistiche giapponesi ukiyo-e 浮世絵 da artisti come Katsushika Hokusai e Utagawa Hiroshige. I paesaggi agrari delle risaie sono infatti un motivo comune che simboleggia l’identità giapponese incentrata sul riso.

Ukiyoe riso

credits: ukiyo-e.org

 

Questo alimento ha influenzato profondamente le arti dello spettacolo tradizionale in Giappone. Come ci spiega il Prof. Bonaventura Ruperti dell’Università Ca’ Foscari di Venezia nel suo libro “Storia del teatro giapponese dalle origini all’Ottocento”, la nascita delle prime forme autoctone di spettacolo la si attribuisce ai canti e le musiche che accompagnavano la coltura del riso: il tamai 田舞e taasobi 田遊び. I primi consistono in “danze delle risaie” che con flauto e tamburo accompagnavano il trapianto del riso allo scopo di ingraziarsi la divinità per suscitarne le energie e favorire la prosperità del raccolto. I secondi sono “intrattenimenti delle risaie” ossia performances eseguite a capodanno da personaggi mascherati che ripercorrevano i gesti del ciclo agricolo.  Lo scopo era quello di auspicarne l’abbondanza attirando l’energia vitale della divinità.

Le feste tradizionali giapponesi

Non sorprende che il riso sia presente in tantissime celebrazioni tradizionali che scandiscono la vita di un giapponese. Ad esempio l’okuizome お食い初め è una tradizione risalente all’VIII secolo che si celebra intorno al 100° giorno di vita del bambino in quanto segna un momento importante nella sua vita: il primo pasto diverso dal latte. In realtà, l’atto del mangiare è solo simbolico: il cibo infatti viene semplicemente avvicinato alle sue labbra nel gesto di imboccarlo con le bacchette. Questa cerimonia costituisce un rito di passaggio per augurare salute e abbondanza al bambino. Il pasto prevede cibi che hanno un grande valore simbolico e ben augurante tra cui il riso insieme a pesce e verdure. Lo svezzamento vero e proprio si ha intorno ai 5 mesi con la prima pappa costituita proprio dall’okayu, il porridge che abbiamo menzionato in precedenza.

Man mano che il bambino cresce ci sono diverse festività che ne celebrano la crescita e i cibi contenenti il riso sono sempre al centro di esse. Ad esempio durante la ricorrenza dell’Hina-matsuri 雛祭り, nota anche con il nome di “Festa delle bambine”, i familiari delle bambine pregano affinché vengano loro date bellezza e salute. La bevanda tradizionale di questa festività è l’amazake 甘酒, una versione analcolica del sakè. Insieme all’amazake 甘酒 si mangiano gli arare あられ, dei salatini di riso, spesso conditi con della salsa di soia. Sempre per l’occasione si prepara un dolce detto hishimochi 菱餅, costituito da tre strati di riso: verde, simbolo della terra, bianco, simbolo della neve e rosa, simbolo dei fiori di pesco. Insieme, questi tre strati indicano la primavera, quando la neve si scioglie, l’erba cresce e germogliano i fiori di pesco.

hishimochi di riso

credits: hoikushibank.com

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Approfondimenti: La casa tradizionale giapponese

Se ci chiediamo quali siano le caratteristiche di una casa tradizionale giapponese le possiamo vedere tutte guardando un qualunque tempio in Giappone: austerità, materiali leggeri e porosi, pareti interne ed esterne molto sottili. La casa tradizionale giapponese, come la conosciamo oggi, ha le sue origini nelle case dei ricchi agricoltori nei primi anni del periodo Edo (1603-1868) costruite con strumenti e metodi importati dalla Cina e dalla Corea. Il materiale predominante è il legno, scelto dagli architetti giapponesi in una continua ricerca di armonia e sintonia con la natura. Il legno è un materiale leggero che riassume in sé il concetto di transitorio: il calore che trasmette agli ambienti interni, le sue irregolarità e texture sono elementi considerati di alto valore estetico.

La zona d’ingresso si chiama genkan 玄関, ed è quel luogo in cui è necessario togliersi le scarpe prima di entrare. La presenza del gradino, che pone il genkan ad un piano inferiore rispetto al resto della casa, serve proprio a definire il confine fra lo spazio interno abitativo e quello esterno. Allo stesso tempo però, proprio per la sua posizione ribassata rispetto agli altri piani della casa, il genkan si pone come uno spazio in continuità con la natura e non di separazione da essa. 

credits: jp.fotolia.com

 

Washitsu 和室: la stanza tradizionale giapponese

Le stanze di una casa tradizionale giapponese hanno la pavimentazione in tatami 畳 ovvero composta da pannelli rettangolari modulari rivestiti da paglia intrecciata. Queste stuoie non solo conferiscono bellezza alle case ma aiutano anche a conservare il calore durante le fredde giornate invernali. Tutte le stanze hanno questo tipo di pavimentazione fatta eccezione per la cucina e i corridoi, dove il materiale predominante è il legno. Proprio per questo tipo di pavimentazione è difficile utilizzare le sedie all’interno delle stanze tradizionali. A queste si preferiscono invece cuscini speciali utilizzati per sedersi chiamati zabuton 座布団.

tatami casa tradizionale

credits: jp.fotolia.com

Un’altra peculiarità delle case tradizionali giapponesi sono le porte scorrevoli: i fusuma 襖. Si tratta di pannelli rettangolari con il lato lungo in verticale che separano i locali interni della casa. Sono costituiti da una struttura in legno a reticolato ricoperta da cartone e da uno strato di carta o tessuto su entrambi i lati. Anticamente venivano dipinti per abbellire la residenza con scene naturali come paesaggi montani, foreste o animali. Esiste poi un altro tipo di parete scorrevole chiamata shōji, realizzata in carta di riso montata su un telaio in legno. A differenza dei fusuma, gli shōji separano l’interno delle case dall’esterno. Inoltre, essendo la carta che li riveste molto sottile, permettono alla luce naturale di filtrare attraverso la porta.

 

fusuma casa tradizionale

credits: jp.fotolia.com

 

L’ofuro nella casa tradizionale giapponese

La stanza da bagno nelle case tradizionali giapponesi è normalmente separata da quella adibita alla toilette.  L’ofuro お風呂 tradizionale è una vasca di legno compatta e profonda rispetto alle vasche comuni, colma d’acqua ad una temperatura di circa 43 °C o anche più calda. Costruita tradizionalmente in legno hinoki ヒノキ, cipresso giapponese, la vasca a contatto con i vapori e con l’acqua calda emana una fragranza molto particolare. Prima di utilizzare l’ofuro ci si siede su un piccolo sgabello all’interno della stanza per lavarsi corpo e capelli e si entra nella vasca solamente dopo essersi ben sciacquati. Fare il bagno per molti è un’esperienza che va oltre la semplice igiene personale. Per alcuni è religiosa, per altri curativa. Entrambi i due aspetti sono strettamente connessi al rito della purificazione: non ci si immerge nell’acqua bollente solo per una questione di igiene ma anche per purificare l’animo.

ofuro casa tradizionale

credits:tatezou-house.com

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