IL SUMO: LO SPORT NAZIONALE DEL SOL LEVANTE
Il sumō (相撲, sumō, lett. “strattonarsi”) è la disciplina sportiva nazionale del Giappone, trattata come un vero e proprio rituale e come tale impregnata di spiritualità shintoista. Si tratta di un combattimento corpo a corpo tra due lottatori, detti in lingua giapponese rikishi, che si sfidano all’interno di un ring, il dohyō, con l’obiettivo di spingere l’avversario fuori dall’area designata o costringerlo a toccare il terreno con una qualsiasi parte del corpo che non sia la pianta del piede. Photo credits: http://www.giapponepertutti.it La particolarità del sumō è la stazza dei rikishi, che si sottopongono ad un rigido stile di vita per mantenere la corporatura richiesta, e lottano sul dohyō coperti solo dal mawashi, un vistoso perizoma che indica il rango di chi lo indossa in base al colore e al materiale di fattura. Sono riconoscibili anche per la loro particolare pettinatura a chignon. Photo credits: http://www.mondojapan.net Il dohyō invece si compone di una parte a terra ed una aerea. La zona a terra, che ospita il match, è costituita d’argilla e delimitata da balle di paglia; prima di ogni incontro, il terreno d’argilla viene cosparso di sale, elemento purificatore nella visione shintoista. La zona aerea sovrasta il ring e ricrea nelle sembianze un tempio shintoista con pendagli e struttura a baldacchino. Photo credits: http://it.wikipedia.org LA DURA VITA DI UN LOTTATORE Photo credits: http://: www.zojirushi.com Testo di Martina Condello, martinacondello.cm@gmail.com
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I rikishi professionisti vivono in ritiro presso le palestre dove si sottopongono ogni giorno a faticose sessioni di allenamento e dove vengono seguiti sul piano alimentare in modo che assumano più di 20.000 kcal giornaliere, riuscendo così a mantenere l’adipe in eccesso che li contraddistingue. La pietanza preferita di un lottatore di sumō è il Chankonabe (ちゃんこ鍋) parola composta da “chan” (ちゃん), termine che indica la dieta dei rekishi, e dall’abbreviazione di “nabemono” (鍋物), ovvero un piatto della cucina giapponese composto da una grossa pentola di brodo dashi posta al centro del tavolo in cui i commensali possono immergere gli ingredienti che preferiscono, come carne, verdure ecc. In pratica, uno stufato ipercalorico e nutriente che viene servito con riso e birra.
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KOMOREBI: luce che filtra tra gli alberi
Prova, caro lettore, a immaginare un luogo dove ogni angolo è avvolto dalla pace e dall’armonia in una fresca mattina d’inizio autunno. Un luogo dove gli unici suoni percepibili sono il mormorio dell’acqua che scorre, il fruscio delle foglie mosse dal vento e i propri passi sulla pietra. Un luogo dove si possa alzare lo sguardo e vedere il komorebi, la luce che passa attraverso le chiome degli alberi appena tinte di kojo, una parola che indica il rosso tipico delle foglie degli aceri d’autunno.
Questi sono alcuni dei detagli che ricordo del Tenjuan garden, un giardino a Kyoto. Fu costruito nel 1337 su richiesta del quindicesimo capo sacerdote del tempio buddhista, ma fu distrutto durante il periodo di conflitti interni chiamato Sengoku (quindicesimo – sedicesimo secolo). La costruzione attuale risale al 1602. Non è possibile vistare il tempio ma solo il giardino, che rimane comunque una piccola gemma tra le varie attrazioni della città, spesso non citata nelle guide. È diviso in due lati, est e ovest. Il percorso costeggia l’edificio, passa sotto un torii e attraverso un bosco, finendo con un laghetto con ninfee. Nella prima parte a est si calpestano muschio e ghiaia e si arriva al lato sud percorrendo un piccolo ponte, mentre a sinistra si possono osservare le canne di bambù che coronano uno stagno. Più avanti il vialetto, fatto di piccoli massi posati nell’acqua, vi porta a un laghetto più grande. Sul lato ovest l’acqua è coperta da decine di ninfee e, lungo un argine, le carpe nuotano pacifiche. Alle spalle del lago c’è l’ala principale del tempio, coperta in parte dagli aceri.
Per la prima volta mi è sembrato che tutte le preoccupazioni che affollano la mia mente nell’inconscio, come in una piazza del mercato il sabato mattina, fossero molto lontane, piccole, non meritevoli della pena e dell’attenzione che gli davo. La città era lontana e avrei potuto passare ben più dell’ora trascorsa ad ascoltare i rumori dell’acqua e del vento, rapita e assorta. Quando posso ritorno con la mente a quel momento e sto meglio subito, ricordandomi che non posso esercitare il controllo su tutto e che sono in grado di trovare una soluzione a molti dei miei crucci. Non mi sono serviti oggetti o soldi per sentirmi in pace. Mi è bastato un giardino, l’acqua e il vero silenzio. Testo e foto di Valentina Zucchelli
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MONO NO AWARE, ACCETTARE IL CAMBIAMENTO
Tutto ciò che esiste, esiste solo nel qui ed ora. Photo credits: http://blurb.com Se capire che il cambiamento fa parte della vita è di per sé facile (si tratta di un’esperienza che viviamo quotidianamente del resto), raggiungere la consapevolezza di essere inermi al cospetto del tempo che passa non è cosa scontata; rassegnarsi a questa condizione dell’essere, abbracciare il cambiamento, accettarlo e conviverci serenamente è tutto un altro paio di maniche. Mono no aware significa questo: vivere ogni istante consci che sarà l’unica copia di sé stesso, l’ultima disponibile, e meravigliarsi della fugacità delle cose. Si tratta di una meraviglia nostalgica, quella sorta di malinconia positiva che ci strizza il cuore quando realizziamo di essere immersi in un momento irripetibile della nostra vita, qualcosa che non ricapiterà di cui dobbiamo essere grati. Stupirsi per le piccole cose, Mono no aware. ETIMOLOGIA DEL TERMINE Mono no aware (物の哀, lett. compassione delle cose) è un’espressione che nasce nella letteratura giapponese, dove indica la partecipazione emotiva ad esperienze che ricordano quanto sia effimera la vita: una foglia secca che cade dall’albero, un bocciolo che diventa fiore, un tramonto sul mare… La natura è maestra nel mostrarsi precaria e perciò il pensiero tradizionale giapponese la ammira e ne rispetta i tempi, senza alterazione alcuna, in un esercizio di spirito in cui gli esseri umani sono spettatori affascinati e commossi dalla fragilità del mondo. Al di là della poetica e dell’estetica, il termine aware in origine altro non era che un’esclamazione di meraviglia, come il più banale degli “Ohhh” in italiano. Niente di più, niente di meno di una manifestazione di stupore, sia positivo sia negativo, che col tempo si è vista attribuire un significato profondo. Photo credits: http://unsplash.com Testo di Martina Condello, martinacondello.cm@gmail.com
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A livello concettuale, non è difficile da comprendere: tutto scorre, il famoso Panta rei di Eraclito, qualsiasi sia l’oggetto, esso è soggetto allo scorrere del tempo ed irreversibilmente si modifica.
Oggi non è ieri e non sarà domani, inevitabilmente. Ciò accade agli esseri umani, come a quello che li circonda e che l’uomo tenta invano di controllare.Segui Giappone in Italia
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KINTSUGI: L’ARTE DI ESIBIRE LE FERITE
Leggenda narra che nel XV secolo, Ashikaga Yoshimasa, l’ottavo shōgun (capo militare) dello shogunato Ashikawa (governo militare della dinastia Ashikaga), ruppe la sua tazza preferita. Provò a spedire i cocci in Cina per farla riparare, ma il risultato non lo soddisfò, a causa della scarsa qualità dei materiai utilizzati per la ricostruzione. Allora si affidò ad alcuni artigiani giapponesi che, colpiti dalla caparbietà del loro signore, decisero di riempire le crepe tra i cocci con resina laccata e polvere d’oro, in modo da rendere la tazza un gioiello unico. Photo credits: japantimes.co.jp La tecnica artistica del Kintsugi (金継ぎ, lett. “ricongiungere con l’oro”) consiste nell’unire i frammenti di un oggetto rotto, molto spesso una ceramica, impreziosendo le spaccature con oro, argento o lacca mescolata a polvere d’oro; in questo modo si concede nuova vita a qualcosa che altrimenti verrebbe buttato. Siccome le crepe non seguono mai uno schema regolare, ogni oggetto riparato sarà irripetibile nella sua forma, proprio grazie alle “ferite” che ha subito. Photo credits: http://japan.travel.it Si parte dall’estrazione della resina urushi, prodotta da una pianta autoctona del Giappone. Si procede mischiandola ad un amido, che può essere farina di riso o di grano, e poi si passa alla stuccatura: l’urushi così lavorata incontra l’argilla macinata fine. Dopodiché, si inizia la campitura vera e propria della crepa con la lacca ottenuta. È il momento di spolverare la polvere d’oro e lasciar asciugare il composto nelle crepe per due settimane. Passata la prima, occorre togliere l’oro in eccesso con un batuffolo di cotone di seta e al termine della seconda settimana lo si può brunire per ottenere un effetto naturale e antico. Photo credits: http://kintsugi.chiaraarte.it Il parallelismo è chiaro: sono le nostre cicatrici a fare di noi delle persone uniche, a renderci creature preziose ed importanti. I segni del nostro vissuto sono qualcosa da esibire con fierezza, perché sono la prova della nostra resilienza, anche di fronte alle peggiori cadute. Testo di Martina Condello, martinacondello.cm@gmail.com
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Shuhei Matsuyama: l'arte che matura ma non si ferma
Il 17 Febbraio si è conclusa la mostra del Maestro Shuhei Matsuyama, durata circa 10 giorni, presso la iKonica Art Gallery di Milano. La mostra è stata calorosamente accolta da coloro che già seguivano il Maestro da molti anni e molto apprezzata da coloro che ancora non lo conoscevano. Presenti anche molti studenti giapponesi che vivono a Milano. © Alberto Moro Il Maestro Matsuyama ha esposto quattro diverse espressioni della sua produzione artistica, corrispondenti anche a quattro momenti diversi della sua vita. “Shin-on”, tecniche shodō, “Diario” e arti plastiche si susseguivano e si alternavano nei tre ambienti della galleria. Il Maestro Matsuyama ha offerto, in concomitanza con l’esposizione delle sue opere, una dimostrazione dal vivo di shodō, l’arte della calligrafia giapponese. Aprendo la performance con degli accenni storici alla disciplina, il Maestro ha sottolineato come nello shodō non sia concesso il ripensamento: è necessario mantenere l’intenzione con cui si è partiti. Essere consapevoli che non si può tornare indietro a ridefinire il tratto, rappresenta anche un’importante lezione di vita: nonostante gli errori, non si può tornare indietro sui propri passi ma solo guardare avanti. Alcune opere del Maestro Shuhei Matsuyama, realizzate seguendo la tecnica dello shodō, sono state esposte nella Sala 2 della iKonica Art Gallery. Tra queste troviamo un’interpretazione personale della frase idiomatica giapponese “ 一期一会 ” (ichi-go ichi-e; una volta, un incontro che indica che ogni incontro, ogni esperienza è speciale e unica nel momento in cui avviene, poiché non si ripeterà mai allo stesso modo). © Alberto Moro La mostra è stata caratterizzata perlopiù da opere realizzate con varie tecniche di pittura. Tuttavia, sempre nella Sala 2, è stato possibile ammirare delle installazioni di arte plastica (implicano, cioè, l’uso di materiali che possono essere plasmati o modulati). Come ci rivela proprio il Maestro, fu in quel libro che studiò le sculture delle antiche popolazioni che abitarono l’Italia ancor prima dei Romani; ma soprattutto, fu lì che scoprì i graffiti realizzati dai Camuni, popolazione che visse nella Val Camonica (Brescia) e che fu tra i massimi produttori d’arte rupestre in Europa. Il Maestro Shuhei Matsuyama nel suo studio con il manuale “Italia sconosciuta” che lo ha iniziato alla pittura Se nella Sala 2 della iKonica art Gallery hanno dialogato diverse tecniche artistiche, la Sala 1 è stata dedicata ad alcune opere della serie “Shin-on”, tema iniziato negli anni ‘90, che il Maestro Matsuyama descrive come “un grido del cuore, un’espressione in sintonia con il sé”. La prima mostra di “Shin-on” si è svolta nel 1991 presso la Galleria Gariboldi di Milano, ci rivela il Maestro Shuhei Matsuyama quando andiamo a trovarlo nel suo studio, mentre ci mostra alcune vecchie foto delle sue prime mostre. Si potrebbe affermare che “Shin-on” abbia trovato la sua matrice creativa proprio in Italia: “l’Italia permette un tempo di maturazione della propria arte che in Giappone non è possibile. Il Giappone richiede novità e moda. L’Italia lascia fare e maturare le persone” ci rivela il Maestro. E, seppur negli anni ‘70, molti aspiranti artisti giapponesi si fossero trasferiti negli Stati Uniti o a Parigi, Shuhei Matsuyama scelse l’Italia. E ad oggi si rivela essere stata una scelta vincente. Durante la nostra visita allo studio del Maestro Matsuyama, abbiamo, invece, voluto chiedere di parlarci di un tema nuovo, sviluppato negli ultimi anni, e che ha catturato la nostra attenzione durante la mostra alla iKonica Art Gallery di Milano. Il Maestro Matsuyama ci rivela che “Diario” è una serie fortemente basata sulle emozioni, poiché nasce come un vero e proprio diario durante il periodo di quarantena del 2020, ma che continua ancora oggi. A sinistra: dimostrazione in studio di come nasce un’opera della serie “Diario”. Da un semplice foglio, l’uso di acqua, inchiostro nero e una sottile linea di vernice bianca si creano spazio e luce; Il Maestro ci confida che, inizialmente, non pensava che avrebbe mai esposto il suo “Diario”. Ma quando si presentò l’occasione di raccontare al Giappone come avesse vissuto il Covid-19 in Italia, è stato a Tokyo l’inizio di una serie di esposizioni che ha fatto approdare “Diario” anche alla mostra che si è tenuta alla iKonica Art Gallery di Milano (esposto nella Sala 3). © Alberto Moro Se avete mai avuto l’opportunità di incontrare il Maestro Shuhei Matsuyama, vi sarete accorti che il suo saluto consueto è “Buona luce!”. Il Maestro ci spiega, innanzitutto, come l’elemento luce sia arrivato nella sua pittura: “In arte bisogna avere tecnica e la tecnica si applica attraverso la prospettiva. Da qui è nata l’idea di dipingere la direzione della luce, seguendo la prospettiva che avevo deciso per quell’opera”. Afferma anche che “La luce permette di aggiungere il concetto di tempo, che consente, poi, di creare movimento”. Per il Maestro Shuhei Matsuyama quello che conta di più è la comunicazione con l’“Altro”, non importa che stia creando un “micromondo” che racchiude in sé “il suono di tutte le cose”; o che stia raccontando la vita attraverso la pittura di pagine di Diario; o ancora che si stia concentrando nell’istante unico e sacro dello shodō. Per il Maestro Shuhei Matsuyama fare arte ed esporre le sue opere, significa comunicare. Perché è nel momento in cui la sua arte parla al pubblico che si crea quel flusso che altro non è che “il suono di tutte le cose”.
Vi segnaliamo che è ancora possibile ammirare le opere di cui abbiamo parlato in questo articolo visitando la iKonica Art Gallery (Via Nicola Antonio Porpora, 16/A – Milano), che ha voluto rendere omaggio al Maestro Shuhei Matsuyama rendendo la Sala 3 della galleria “la sala di Shin-on”. Si tratta di una mostra continua delle opere di Shuhei Matsuyama, che però cambieranno periodicamente, per creare una sala che mantiene lo stesso spirito, con colori e luci diverse. Testo di Danila Alfano, danilaalfano0@gmail.com
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Sapevate infatti che il Maestro Matsuyama è arrivato in Italia, a 21 anni, spinto dalla passione per la scultura? E che il suo primo libro acquistato in italiano è stato “Italia sconosciuta” di Sabatino Moscati?
Guardando e studiando quei graffiti che sembrava gli parlassero, il Maestro Matsuyama decise di dedicarsi alla pittura poiché, come lui stesso ci confessa, “i quadri hanno un’espressione più immediata rispetto alla scultura”.
e il suo catalogo delle installazioni di “Shin-on” presenti in varie città del mondo;
in alto, realizzazione in arte plastica di “Shin-on”.
Il termine Shin-on, in giapponese, racchiude 16 significati diversi, attraverso la diversa realizzazione in kanji (caratteri giapponesi usati nella scrittura) del suono shin-on.
Il tema, inoltre, si divide in “Shin-on” che comprende le nuove opere della serie; e “Furikaeri-Shin-on,” in cui possiamo trovare le opere realizzate precedentemente e quindi legate alla creazione artistica passata.
A partire da questa differenza, il Maestro ci svela che la creazione di “Shin-on” è una creazione continua, che a distanza di anni non cerca una conclusione. Come dice il Maestro, Shin-on rappresenta “un flusso ininterrotto di passato, presente e futuro”.
Stiamo parlando di “Diario”. Il nome della serie è in italiano, ma la prima esposizione viene fatta a Tokyo dopo il periodo della pandemia di Covid-19.
Le opere di “Diario” sono nate in casa, e per questo ogni dipinto è realizzato su fogli di diverso materiale, che dovevano essere buttati, a cui il Maestro Shuhei Matsuyama decide di dare nuova vita. Fogli A4 per stampanti, fogli già stampati, vecchie copertine di quaderni; ma anche fogli creati dalla stamperia all’interno del quale si trova lo studio del Maestro, che non saranno mai utilizzati.
Ma attraverso la sua ricerca continua di luce, il Maestro Shuhei Matsuyama reinventa il supporto della creazione artistica, facendo diventare arte ciò che si credeva inutilizzabile.
a destra: “Diario” del 24/02/2024 (giorno 1350), che altro non è che lo schizzo che aveva creato in nostra presenza, che poi ha arricchito e inserito tra le opere della serie.
Durante la nostra visita al Maestro, gli abbiamo chiesto proprio del rapporto che ha con la luce e di questa sua continua ricerca.
Conclude affermando che la luce è dappertutto in natura ma poi, ridendo, si lascia scappare che “Buon giorno lo usano tutti, mentre Buona luce! è un augurio più vero”, che ci fa pensare istintivamente a qualcosa di positivo.Segui Giappone in Italia
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HANAMI: QUANDO LA PRIMAVERA SI TINGE DI ROSA
Sono certa che qualsiasi appassionato di cultura e tradizioni giapponesi abbia almeno una volta sentito parlare di Hanami (花見, lett. “guardare i fiori”), l’atto di contemplare la fioritura dei ciliegi giapponesi, i cosiddetti sakura, nel periodo primaverile. Come il Momijigari in autunno (紅葉狩り, lett. “caccia alle foglie di acero rosso”), anche l’Hanami in primavera è un esempio del rapporto simbiotico che lega il popolo nipponico alla natura; infatti per lo Shintoismo (corrente filosofica autoctona del Giappone) ogni elemento naturale è un’entità vivente animata, che come tale non permane immutata nel tempo e che per questo assume valore in ogni suo istante. Ecco perché il calendario giapponese accompagna l’essere umano nel percorso di convivenza armoniosa con i ritmi della natura, invitandolo ad apprezzare le caratteristiche di ogni stagione nella loro fugacità. L’Hanami è come una festa nazionale, tanto che, nel periodo di febbraio-marzo, l’Agenzia Metereologica Giapponese inizia ad aggiornare i cittadini con le previsioni sulla comparsa dei boccioli, indicando anche le presunte date di massima fioritura in base al clima di ogni regione e fornendo consigli sui luoghi migliori per ammirare i ciliegi. Photo credits: http://metropolitanmagazine.it UN’ESPERIENZA MOZZAFIATO Ecco 3 spot disseminati lungo il Giappone, ideali per fare Hanami. 1- Goryokaku Park – Hakodate, isola di Hokkaidō Photo credits: http://peopletour.it 2- Monte Yoshino – Prefettura di Nara, isola di Honshū Photo credits: http://peopletour.it 3- Castello di Kumamoto – Kumamoto, isola di Kyūshū Photo credits: http://peopletour.it Testo di Martina Condello, martinacondello.cm@gmail.com
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Si tratta di una ricorrenza davvero sentita in tutto il Giappone, un pretesto per celebrare la natura e la socialità: pic-nic al parco ed escursioni fuori porta con la famiglia, gli amici ed i colleghi sono le attività preferite dai giapponesi per godersi all’aria aperta lo spettacolo dei sakura in fiore.
Quest’anno, nell’isola più a nord del Giappone si prevede l’inizio della fioritura il 22 marzo, per raggiungere il culmine verso il 29 dello stesso mese. Un luogo fantastico per godersi la primavera si trova nella città di Hakodate: il parco di Goryokaku, in antichità fortezza con fossato, vanta 1500 alberi di ciliegio e una particolare forma a stella che offre numerosi punti panoramici, tra cui una torre alta 107 metri dalla quale si può avere una visione d’insieme sulle chiome rosa dei sakura.
Nella prefettura di Nara, i sakura sbocceranno verso il 25 marzo e avranno il punto di massima fioritura i primi di aprile. Qui è possibile programmare un’escursione al Monte Yoshino, uno degli spot più famosi, suggestivi (ed affollati) per l’Hanami: i suoi versanti contano più di 30.000 esemplari di ciliegio giapponese, tanto da essere patrimonio dell’UNESCO, anche grazie alla sua importanza storico-religiosa. Il monte infatti è disseminato di templi e santuari, oltre a rappresentare il punto di partenza del pellegrinaggio sacro al Monte Omine.
Siamo nel sud del Giappone, dove la fioritura avverrà nelle ultime settimane di marzo, secondo le stime degli esperti. Nella città di Kumamoto, su una collina, si erge maestosa la ricostruzione di uno dei più bei castelli feudali dell’intero Giappone, purtroppo definitivamente distrutto durante il terremoto del 14 aprile 2016. La struttura, situata nel centro città, in primavera sembra fluttuare su una soffice nuvola rosa pastello, un’esplosione di fiori di ciliegio che incorniciano il castello in uno scenario da cartolina.Segui Giappone in Italia
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PREFETTURA DI YAMAGATA E TERME DI GINZAN
Quando pensiamo al Giappone ci vengono subito in mente le 3 grandi metropoli di Tōkyō, Kyōto e Ōsaka, ovvero le mete giapponesi più visitate dai turisti, che spesso si lanciano alla scoperta delle zone turistiche scartando le aree “fuori mano”. Eppure vi assicuro che vale la pena di allungare un po’ il viaggio per spingersi nelle prefetture rurali e respirare l’atmosfera di un Giappone più autentico. Durante le stagioni fredde, addentrandosi nell’entroterra della prefettura di Yamagata, nel nord dell’Honshū, si incontrano luoghi innevati dove il tempo sembra essersi fermato qualche secolo fa, tra vecchi ryōkan (locande in stile tradizionale) e Ōnsen, cioè le tipiche terme giapponesi. IL VILLAGGIO INCANTATO Ginzan Ōnsen è sicuramente turistica rispetto ad altre località della zona, ma offre un’esperienza fiabesca che difficilmente si trova altrove: dai ryōkan a più piani, ai ponticelli che scavalcano il fiume, al bagno pubblico Shirogane-yū, particolare per la sua estetica minimalista, dove i visitatori possono concedersi una pausa terapeutica. Photo credits: http://thehiddenjapan.com L’ŌNSEN GIAPPONESE Photo credits: http://watabi.it Innanzitutto l’Ōnsen è qualsiasi stazione termale all’aperto o al coperto, pubblica o privata, artificiale o naturale presente sul suolo giapponese, spesso accompagnata da una residenza per gli ospiti, nella quale si dorme in yūkata sul fūton, ovvero sul tipico materasso che di giorno si arrotola negli armadi per salvare spazio e di notte di srotola a terra, e si mangia inginocchiati sul kotatsu, il tavolino basso che non poteva mancare nelle case giapponesi di una volta. ROBA DA YAKUZA Photo credits: http://sempredirebanzai.it Testo di Martina Condello, martinacondello.cm@gmail.com
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Nello specifico, a qualche ora dalla città di Yamagata, a nord di Tōkyō, si può sostare in una località magica incasellata tra i boschi di sempreverdi, il Ginzan Ōnsen-kyō, il villaggio termale che sorge lungo le sponde del fiume Ginzan, sul sito di una vecchia miniera d’argento (infatti Ginzan significa “montagna d’argento”).
Sembra di vivere tra le pagine di un romanzo dello scrittore Yukio Mishima mentre si cammina tra le stradine illuminate dai lampioni a gas, costeggiando edifici in legno di epoca Taishō (1912-1926) e chiedendosi spaesati quale macchina del tempo o quale arcano incantesimo ci abbia catapultato nel passato.
È così che ci si sente a Ginzan Ōnsen-kyō, il piccolo conglomerato di locande e strutture sorte in prossimità della sorgente termale di Ginzan, per ospitare chi arriva a scaldarsi nel tepore delle Ōnsen.
Finora ho usato il termine “terme”, pur sapendo che l’Ōnsen giapponese non ha propriamente le stesse regole e caratteristiche di un sito termale occidentale. Quindi è doveroso spiegare meglio cos’è un Ōnsen nella sua unicità di tradizione radicata nella cultura dei giapponesi.
Generalmente le Ōnsen prevedono che ci si lavi per bene prima di entrare nelle vasche, usufruendo di secchi, doccini e sgabelli adibiti appositamente; una volta puliti si può entrare rigorosamente nudi nelle varie piscine, divise tra uomini e donne (regola non valida per i bambini, che sono ammessi in entrambe le sezioni senza distinzione di sesso).
Se vi è venuta voglia di provare l’esperienza dell’Ōnsen, magari proprio al Ginzan Ōnsen-kyō, dovete tenere a mente un’accortezza riguardante i tatuaggi, così ampiamente diffusi in occidente quanto evitati dalla maggior parte dei giapponesi perché simbolo d’appartenenza alla Yakuza, la mafia giapponese. È vero che oggigiorno la situazione sta cambiando, ma molte stazioni termali ancora non accettano persone con tatuaggi (o le costringono a coprirli per la durata della permanenza in vasca) proprio per questo retaggio culturale. Con gli stranieri le restrizioni in tema sono meno stringenti, ma solo in caso di tatuaggi piccoli e poco visibili.Segui Giappone in Italia
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IL TEATRO NŌ: IL RITUALE DELLA SUGGESTIONE
I FONDATORI Kan’ami e Zeami furono gli iniziatori di un processo di trasformazione durato decenni, che portò dal sarugaku (猿楽, lett. “musica di scimmie”), una forma di intrattenimento che combinava acrobazie circensi e mimica, ad una nuova forma di rappresentazione codificata, accompagnata da musica e danze, basata sull’artificio (difatti Nō si può tradurre con “artificio”) come espediente volto a creare suggestione e stupore nello spettatore. Photo credits: http://nidodepalabras.blogspot.com I TRATTATI DI ZEAMI I punti chiave della filosofia designata da Zeami furono la poetica del fiore e l’estetica della grazia. Yūgen, ovvero la grazia necessaria per provocare suggestioni profonde in chi guarda; l’attore deve esercitare l’armonia dei movimenti, la coordinazione tra danza, musica e recitazione in modo che la sua interpretazione risulti fine, elegante e potente. Chi si esibisce deve riuscire a mantenere l’imprescindibile tensione che lega l’interprete alla platea, per questo grande importanza è data all’esercizio e alla pratica costanti. Photo credits: http://watabi.it LE MASCHERE DEL TEATRO NŌ L’uso della maschera richiede molta tecnica da parte del teatrante. Ogni maschera infatti è costruita in modo da dare l’impressione di cambiare espressione in base a giochi di luce e movimenti della testa di chi la porta; perciò diventa importante il controllo del corpo e dei muscoli facciali, per “rattristare” la maschera quando il personaggio è triste o “rallegrarla” quando è felice. La gamma delle emozioni che si possono simulare copre comunque una gamma più vasta: le maschere sono adattabili a qualsiasi intenzione il ruolo richieda. Photo credits: http://viverezen.it Testo di Martina Condello, martinacondello.cm@gmail.com
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Nel 1367, durante il periodo Muromachi (1336-1573), Ashikaga Yoshimitsu (足利 義満, 1358-1408) assunse il titolo di shōgun, ovvero di supremo capo militare e signore feudale, e decise di finanziare e promuovere le proposte artistiche di due attori e drammaturghi dell’epoca a suo avviso particolarmente interessanti, Kan’ami Kiyotsugu (観阿弥 清次, 1333-1384) e suo figlio Zeami Motokiyo (世阿弥 元清, 1363-1443). Questo fu il punto di partenza per quello che oggi conosciamo come Teatro Nō (能楽, Nōgaku), ovvero una delle forme del teatro classico giapponese più conosciuta e complessa.
Zeami dedicò la propria vita al teatro, scrivendo e applicando nella pratica dell’insegnamento numerosi trattati sull’argomento, lasciati poi in eredità al genero Konparu Zenchiku (金春 禅竹, 1405-1468 circa), che cristallizzò il Nō attraverso una codificazione ancora più formale.
Il fiore è metafora dell’emozione suscitata nello spettatore, quindi del fascino e dell’abilità dell’attore; infatti si distingue tra “il fiore del momento” (jibun no hana), cioè la bellezza e la sinuosità di un corpo giovane che recita sul palco, e il “fiore autentico” (makoto no hana), la sapienza e la maestria che superano i limiti del tempo e dell’età. La buona riuscita della performance dipende dalla capacità dei teatranti di cambiare ed evolversi, di essere fuggevoli proprio come il fiore che cresce con delicatezza prima di spegnersi.
Le opere inscenate nel Teatro Nō toccano temi limitati quali eventi storici, leggende e racconti con elementi soprannaturali, e i figuranti recitano la maggior parte delle loro apparizioni indossando particolari maschere che rappresentano dei tipi stereotipati, ovvero muniti di connotati utili al loro riconoscimento: personaggi femminili, presenze demoniache, spiriti dei morti… Le maschere sono parte integrante dell’attore, fatta eccezione per i ruoli da bambini e da personaggi maschili vivi. Segui Giappone in Italia
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AMORE AL CIOCCOLATO
San Valentino, la festa dell’amore per eccellenza, richiama subito alla mente le cene a lume di candela, i mazzi di rose rosse e le gite fuori porta con la propria dolce metà. Photo credits: mary.co.jp DIMMI CHE CIOCCOLATO MI REGALI E TI DIRÒ SE MI AMI La società giapponese prevede un rigido rispetto delle gerarchie e, più in generale, la cortesia è una componente fondamentale nelle relazioni lavorative, scolastiche ed affettive. È per questo che a San Valentino non ci si limita a regalare cioccolato solo se si è innamorati, ma è prassi omaggiare anche i propri colleghi di lavoro, i compagni di scuola e gli amici più cari per dimostrare la stima o l’affetto che nutriamo nei loro confronti. – Honmei choko (本命チョコ), ovvero il cioccolato del preferito, il soggetto della dichiarazione d’amore. Può essere home made, a sottolineare cura e interesse, oppure essere il più costoso in commercio. Photo credits: http://angologiapponese.blogspot.com IL SENTIMENTO È RECIPROCO Il 14 marzo, esattamente un mese dopo San Valentino, i coraggiosi che si sono dichiarati potranno essere ricompensati: si tratta del White Day, il giorno in cui chi ha ricevuto il cioccolato regala a sua volta qualcosa al mittente, in segno d’amore reciproco. Al contrario, se non si ottiene nulla in cambio, vorrà dire che purtroppo si è stati rifiutati. Photo credits: http://akibagamers.it Testo di Martina Condello, martinacondello.cm@gmail.com
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Il 14 febbraio in Occidente è la giornata perfetta da trascorrere insieme al partner all’insegna del romanticismo. Invece in Giappone le coppie festeggiano il 24 dicembre, la Vigilia di Natale, e San Valentino diventa quindi un’occasione diversa, dedicata a chi vuole dichiarare i propri sentimenti.
La tradizione nasce negli anni Cinquanta del Novecento, dalla grande trovata di marketing di una nota azienda dolciaria giapponese: la Mary’s Chocolate Company incentivò le donne ad esprimere i loro sentimenti il giorno di San Valentino, regalando cioccolato alla persona amata.
Vengono venduti vari tipi di cioccolato a San Valentino, in base all’intensità del sentimento che si vuole esprimere. I più famosi sono:
– Giri Choko (義理チョコ), cioè il cioccolato del dovere, che va distribuito ai colleghi o ai compagni di classe per convenzione sociale.
– Tomo Choko (友チョコ), il cioccolato che si regala agli amici più cari per esprimere affetto sincero.
Anche il White Day venne istituito dalle aziende dolciarie che negli anni Settanta del Novecento crearono questo pretesto per vendere di più; infatti il regalo del White Day per eccellenza è il cioccolato bianco, ma anche altri dolci (ad esempio marshmallow e biscotti), peluches e gioielli: tutto rigorosamente bianco, come suggerisce il nome della ricorrenza.Segui Giappone in Italia
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Omotenashi
In giapponese c’è un’espressione da tenere a mente quando si interagisce con la popolazione locale: “Omotenashi”. Possiamo tradurre “Omotenashi” come “Ospitalità”, ma sarebbe riduttivo. Significa infondere tutte le proprie energie nell’accogliere l’ospite nel miglior modo possibile, prestando attenzione anche ai più piccoli dettagli. “Omotenashi” è il commesso del supermercato che 8 anni fa mi aiutò a trovare la strada che stavo cercando ad Akihabara. Ero arrivata da qualche settimana, quindi le mie conoscenze linguistiche erano ancora scarse, grezze, da modellare e affinare, come un blocco di creta sul quale sono stati tracciati solo i primi tratti di una forma. Non riuscivo a trovare un negozio che stavo cercando, così entrai in un konbini (un supermercato aperto 24h, ne esistono di diversi tipi in tutto il Giappone). Pioveva forte e lo scroscio d’acqua rendeva le strade di quel quartiere simili alla scenografia di Blade Runner. Luci, negozi, insegne, ristoranti, macchinette gatcha-gatcha: tutto era confuso e ordinato allo stesso tempo. Entrai dentro al negozio e provai a pronunciare una richiesta di indicazioni in un giapponese stentato, cercando di rispettare le formule di cortesia che mi ricordavo. Avevo una cartina con me e provai a mostrarla al commesso, che a sua volta provò a farmi capire la strada: prima in giapponese, poi in un inglese non proprio chiaro. Purtroppo, le strade in Giappone non hanno la stessa codifica occidentale: non sono codificate in base a un nome come in Europa. Ogni quartiere (Ueno, Akihabara, etc). Ogni quartiere in un indirizzo è preceduto da tre cifre: 4-8-12 Ueno, Taito-ku, Tokyo Il 4 è il chome, cioé indica la zona di Tokyo, l’8 indica la suddivisione del chome e 12 è il civico. I civici però non sempre sono in ordine lungo la via! Inoltre, non esiste il piano terra: il nostro piano terra è il 1° piano. Così, il negozio che stavo cercando era su qualche piano di un grattacielo ad Akihabara. Alla fine, il commesso uscì da dietro il balcone, mi accompagnò all’uscita, prese l’ombrello e mi guidò sotto la pioggia fino a destinazione. Photo credits: Zucchelli Valentina Otto anni dopo durante la mia vacanza a Tokyo, ho vissuto altri esempi di Omotenashi. Il primo fra tutti che mi sovviene è quello di una coppia di anziani volontari che io e la mia Dolce metà abbiamo incontrato una mattina fuori dalla stazione di Ueno, vicino al Panda Bridge (così chiamato perché nel parco adiacente si trova uno zoo che ospita alcuni esemplari di questa specie). Stavamo cercando la strada per raggiungere Yanaka, uno dei quartieri antichi di Tokyo. Ho alzato per un attimo lo sguardo dalla cartina e ho visto avvicinarsi una coppia di anziani signori, un uomo e una donna, che indossavano una pettorina, azzurra come il cielo, ed in mano avevano tante cartelline, volantini e mappe. Sorprendendoci, ci rivolsero la parola in inglese (non è una lingua così diffusa in questo paese) e si offrirono di aiutarci a trovare la strada. Non solo, ci accompagnarono chiacchierando amabilmente attraverso il parco verso il vialetto giusto da percorrere e ci regalarono alcune cartine! Anche questo per me è Omotenashi: comprendere come ciò che per noi può sembrare naturale per altri risulta difficile così lo semplifichiamo facendo uno sforzo in più affinché l’Altro stia meglio. Omotenashi è non limitarsi a servire i clienti al ristorante ma scambiare due parole con i clienti, dare suggerimenti spontanei sulle attrazioni turistiche della zona, come ci è successo con una cameriera in un ristorante di fronte alla stazione di Tokyo. Nello stesso edificio poco prima una commessa di un negozio ci aveva aiutati a trovare quel ristorante, spiegandoci le indicazioni con voce tenera e gentile per mostrare rispetto nei nostri confronti, in quanto potenziali clienti. Omotenashi è il cuoco che dall’altra parte del bancone di un locale a Kyoto ha cercato una lavanderia a gettoni più vicina al nostro albergo, perché era dispiaciuto che avessimo dovuto fare tanta strada (20 minuti a piedi) per raggiungere quella vicina al suo ristorante. La prossima volta che vi chiederanno indicazioni o vedrete qualcuno cercare la strada su una cartina, ricordatevi di Omotenashi. Photo credits: Zucchelli Valentina Testo di Valentina Zucchelli, valezu92@gmail.com
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