MOMIJIGARI: Autunno fa rima con foliage.

photo credits: inspiringvacations.com

Autunno fa rima con foliage.

Le foglie degli alberi si tingono di colori vivaci, regalando al mondo paesaggi incantevoli, intrisi di una magica atmosfera autunnale; i viali, i parchi e i marciapiedi si ricoprono di foglie cadute dai rami, dipingendo le strade di giallo, arancione, rosso e marrone; lo scalpiccio divertito dei più piccoli si mescola alla meraviglia e gli adulti ne approfittano per rilassarsi ammirando i colori dell’autunno.

In Giappone il rapporto tra esseri umani e natura è profondamento simbiotico, legato alla filosofia Shintoista, ovvero al culto autoctono del Giappone. Per questo non stupisce che l’atto di osservare le foglie d’autunno e ricercare i paesaggi più suggestivi abbia un nome: Momijigari.

Momijigari si scrive con i kanji di “foglie rosse” e “caccia”, quindi letteralmente è la caccia alle foglie rosse, un rituale che consiste nel visitare insieme ad amici e parenti i siti più caratteristici quando le foglie cambiano colore. Proprio come in primavera per l’Hanami (“guardare i fiori di ciliegio”), anche per il Momijigari esistono previsioni metereologiche ad hoc per sapere in tempo reale dove vedere il foliage migliore.

photo credits: jrailpass.com

IL PASSATEMPO DEI LETTERATI

La storia del Momijigari ha origini antiche ed aristocratiche. Risale infatti all’Epoca Heian (794-1185), il periodo di massimo splendore della corte imperiale giapponese, quando i nobili si dilettavano leggendo, componendo poesie o discorrendo di temi filosofici circondati ed ispirati dalla natura autunnale.

Si tratta di un passatempo così radicato nella cultura nipponica da essere descritto addirittura in opere del calibro di Man’yōshū e di Genji Monogatari, rispettivamente, la prima raccolta di poesie giapponesi giunta a noi e il più famoso romanzo di epoca Heian.

CONSIGLI PAESAGGISTICI E… CULINARI

Kyōtō e Nikkō possiedono sentieri e scenari rinomati per godersi il Momijigari.

A Kyōtō, la Camminata dei Filosofi parte dal tempio del Ginkakuji, il Padiglione d’Argento, per arrivare al Santuario Wakaoji. Tra ottobre e novembre passeggiare lungo questo sentiero significa perdersi tra le chiome di aceri rossi che, nei giardini, imitano i colori accesi degli edifici in legno della zona.

Nikkō invece è meta autunnale per chi vuole scappare dalla frenesia della metropoli e rifugiarsi tra i templi incastonati nei boschi di aceri rossi della regione.

A proposito di acero rosso, albero simbolo del Giappone… avete mai sentito parlare della tenpura di foglie d’acero? Una speciale frittura giapponese ottenuta friggendo le foglie con olio di sesamo zuccherato, dopo averle lasciate per un anno immerse in acqua e sale. Da provare assolutamente!

photo credits: ilgiornaledelcibo.it

Testo di Martina Condello, martinacondello.cm@gmail.com

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Tsukimi, il festival della Luna e il Coniglio lunare

Avete mai sentito parlare del Tsukimi o del Jugoya?

photo credits: asiancustoms.eu

Queste parole si riferiscono all’usanza tradizionale giapponese di celebrare la Luna e il raccolto autunnale.  In Giappone si ritiene che la luna più bella dell’anno sia quella autunnale, visibile durante il plenilunio di settembre, noto come plenilunio del raccolto o harvest moon: la luna piena più vicina all’equinozio d’autunno. Ma non solo per il Giappone, questo periodo è speciale in tutta l’Asia: in Cina si celebra la Festa di Metà Autunno, in Giappone si osserva la luna Tsukimi , mentre in Corea si festeggia Chuseok, la festa della Luna del Raccolto.

E quest’anno la festa dello Tsukimi cade il 29 settembre, proprio questo venerdì.

 

Tsukimi e Jugoya

I due termini giapponesi vogliono sottolineare i festeggiamenti che comprendono la Luna e l’equinozio d’autunno.

Jugoya è una parola che intende la quindicesima notte dell’ottavo mese nel calendario lunare, usato nella tradizione giapponese, nella quale cade la Luna piena più vicina all’equinozio autunnale, mentre Tsukimi è la parola utilizzata per chiamare il festival giapponese della Luna, e significa letteralmente “Guardare la Luna”.

 

Tsukimi, il festival della Luna

La tradizione dello Tsukimi nasce nell’Epoca Heian, influenzata dall’usanza del festival autunnale cinese dell’élite aristocratica, che si ritrovava per ascoltare musica e recitare o comporre poesie al chiaro di luna. Solo nel 1600 questa celebrazione passo dall’essere festeggiata unicamente dall’aristocrazia giapponese al diventare parte della tradizione popolare, nella quale non si festeggiano più solo le arti musicali e letterarie, ma anche la festa del raccolto autunnale, dove il riso veniva offerto agli Dei come ringraziamento.

Lo Tsukimi entrando a far parte delle tradizioni esistenti giapponesi, prese ad essere una festa piuttosto solenne. Questo portò alla creazione di cibi tradizionali per l’evento, il più famoso lo Tsukimi dango un tipo particolare di gnocco di riso, rotondo e bianco che celebra la bellezza della luna, e si dice che porti felicità e buona salute nell’anno successivo se mangiato durante la notte di luna piena; delle decorazioni particolari, come ad esempio il susuki, o erba della pampa, posta nel luogo dove si osserverà la luna, perché si crede difenda l’area dal male; e anche visite al santuario, bruciare incenso nei templi e offrire cibo agli Dei.

Inoltre questa festa, celebrando la Luna, porta alla luce una credenza giapponese che posiziona i conigli come abitanti del suolo lunare, e noi, di Giappone in Italia, che abbiamo come simbolo della nostra associazione un coniglio siamo pronti a spiegarvi nei dettagli da dove nasca questa credenza.

 

Il Coniglio lunare

I giapponesi non sono gli unici a credere nella presenza di questi animali sulla luna, anche i cinesi e i coreani condividono la stessa idea dove, “non sia l’uomo a camminare sulla Luna, ma i conigli”.

La più antica testimonianza del mito del coniglio lunare risale al Periodo dei regni combattenti dell’antica Cina (453 a.C. al 221 a.C), nel quale viene menzionata la credenza per la quale sulla Luna, insieme ad un rospo, si troverebbe un coniglio occupato a sminuzzare nel suo pestello le erbe per l’immortalità.

Tuttavia questo mito narra solo della sua presenza sul satellite terrestre, mentre solo leggendo il Śaśajâtaka, un racconto buddhista, si può scoprire come questi piccoli animali siano arrivati così lontano.

Il racconto narra di quattro amici animali, una scimmia, una lontra, uno sciacallo ed un coniglio che, nel giorno sacro buddista di Uposatha (dedicato alla carità e alla meditazione) decisero di cimentarsi in opere di bene. Avendo incontrato un anziano viandante, sfinito dalla fame, i quattro si diedero da fare per procacciargli del cibo; la scimmia, grazie alla sua agilità, riuscì ad arrampicarsi sugli alberi per cogliere della frutta; la lontra pescò del pesce e lo sciacallo, sbagliando, giunse a rubare cibo da una casa incustodita. Il coniglio invece, privo di particolari abilità, non riuscì a procurare altro che dell’erba. Triste ma determinato ad offrire comunque qualcosa al vecchio, il piccolo animale si gettò allora nel fuoco, donando le sue stesse carni al povero mendicante. Questi, tuttavia, si rivelò essere la divinità induista Śakra e, commosso dall’eroica virtù del coniglio, disegnò la sua immagine sulla superficie della Luna, perché fosse ricordata da tutti.

È quindi grazie al suo spirito virtuoso e caritatevole che il coniglio arrivò sul suolo lunare.

Da questo racconto nacquero, con il tempo diverse versioni, con protagonisti a volte diversi, ma sempre con il medesimo finale, una divinità celeste che porta o pone la figura del coniglio sulla Luna.

Ad esempio ecco un’altra versione, una leggenda giapponese che racconta:

“Molto tempo fa, il Vecchio della Luna decise di visitare la Terra. Si travestì come un vecchio mendicante e chiese a Saru (scimmia), Kitsune (volpe) e Usagi (coniglio) un po‘ di cibo. Saru, la scimmia, si arrampicò su un albero e gli portò qualche frutto. Kitsune, la volpe, andò ad un corso d’acqua e gli afferrò un pesce. Ma Usagi, il coniglio non trovò nulla per lui da mangiare, se non l’erba. Così, invece, Usagi chiese al mendicante di accendere un fuoco. Dopo che il mendicante costruì il fuoco, Usagi vi saltò dentro e si offrì come pasto. Improvvisamente, il mendicante si trasformò di nuovo nel Vecchio della Luna e salvò Usagi dalle fiamme. E gli disse: “Usagi-san, non farti del male per causa mia. Dal momento che sei stato il più gentile di tutti, io vi porterò indietro sulla luna a vivere con me.”

Ed è tramite questi racconti dal contenuto educativo e testi mitici, che si è arrivati a credere che la luna sia abitata da conigli il cui lavoro è schiacciare erbe per l’immortalità o altri ingredienti, come ad esempio il riso per creare il tipico dolce giapponese chiamato mochi, anche perché il termine mochizuki in giapponese significa luna piena, ma suona anche come la parola per preparare i mochi, “mochizukuru”.

Cosa ne pensate, questo venerdì osservando la luna cercherete la figura di un coniglio intento a lavorare?

photo credits: asiancustoms.eu

 

Articolo di Elena Ferrario, Stagista presso l’Associazione Giappone in Italia

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L’ARTE CULINARIA GIAPPONESE: RAPPRESENTAZIONE DEL CIBO NEGLI ANIME e MANGA

Gli appassionati sanno che anime e manga non sono solo meri prodotti di intrattenimento. Si tratta di veri e propri strumenti per veicolare pillole di cultura giapponese fuori dai confini nipponici, in modo leggero ed accessibile a tutti. Storia, religione, consuetudini sociali, abitudini quotidiane, sport e… cucina!

Il cibo diventa l’espediente perfetto per avvicinare un pubblico vasto e curioso alle tradizioni del Sol Levante. L’arte culinaria giapponese, con i suoi sapori ricchi e delicati, assume un ruolo di primo piano nella narrazione, arrivando addirittura ad essere la protagonista di alcune opere.

Ciò che propongo in questo articolo è un itinerario gustativo attraverso vari titoli, per scoprire come viene rappresentata la cucina giapponese all’interno del mondo ormai conosciutissimo di anime e manga.

FOOD WARS! – SHOKUGEKI NO SOMA

photo credits: wikipedia.org

Piatti giapponesi presentati e rivisitati in chiave gourmet. Cultura culinaria nipponica e occidentale si fondono per ottenere sapori paradisiaci, capaci di suscitare un piacere quasi erotico in chi li assaggia.

Food Wars – Shokugeki no Soma” (Sōma delle battaglie culinarie) è un’opera completamente dedicata alla buona cucina e alla cura necessaria per maneggiare gli ingredienti e concludere al meglio le preparazioni.

La rappresentazione grafica dei piatti cucinati dal protagonista Sōma e dai suoi amici è assai curata e le spiegazioni delle tecniche di preparazione così appassionanti da rendere Food Wars uno dei più completi Cooking Anime, manga degli ultimi tempi. Dall’omurice al furikake, dal chazuke al curry, fino al bentō: i classici della cucina orientale vengono reinventati, accrescendo ogni volta la conoscenza culinaria del fruitore (ed anche il suo appetito!).

Carry rice omuraisu

photo credits: shokugekinosoma.fandom.com

 

ONE WEEK FRIENDS

photo credits: images.mubicdn.net

Noi italiani sappiamo bene che il cibo è convivialità, gioia di gustare insieme un buon piatto, una scusa per relazionarsi e stringere legami; prepararlo per gli altri è un gesto d’affetto.

One week friends” ci trasmette lo stesso messaggio: Kaori e Yūki consolidano la loro particolare amicizia proprio durante la pausa pranzo sul tetto della scuola, condividendo l’immancabile bentō, il cestino del pranzo che studenti e lavoratori giapponesi mangiano fuori casa. Kaori impara piano piano quali sono i gusti del suo nuovo amico e inizia a preparare il bentō anche per lui, a partire dal tamagoyaki, una frittatina giapponese arrotolata su sé stessa che appare spesso nei cestini del pranzo di anime e manga.

In One week friends il cibo suscita ricordi sopiti, intreccia storie e contribuisce a mantenere intatti legami che altrimenti si spezzerebbero.

 

bentō

photo credits: myanimelist.net

 

KAGUYA-SAMA: LOVE IS WAR

photo credits: imdb.com

Kaguya-sama: love is war” è una commedia romantica, non certo incentrata sul tema food. Al suo interno però non mancano riferimenti divertenti e ben congeniati alla cultura culinaria nipponica, in particolar modo a due capisaldi: il ramen e il kōcha, o tè nero, che diventano intermezzi simpatici per stemperare il ritmo della narrazione. Chika, personaggio bizzarro dai capelli rosa, si rivela essere una dei 4 Mostri Sacri del ramen, e attraverso la sua figura scopriamo le tecniche da veri intenditori per assaporare questo piatto a base di brodo, noodles e verdure. Lo stesso avviene per il kōcha: durante il festival scolastico la protagonista Kaguya serve un tè nero impeccabile a due fanatici estimatori di ramen e tè, eseguendo magistralmente i vari passaggi di pesatura e filtraggio alla base dell’arte del tè.

 

Ramen

photo credits: i.ytimg.com

 

LA VIA DEL GREMBIULE – LO YAKUZA CASALINGO

photo credits: wikimedia.org

E se cucinare fosse un metodo per cambiare vita e redimersi?

La Via del Grembiule” è la storia spassosa di Tatsu, Drago Immortale della Yakuza che decide di abbandonare gli ambienti mafiosi per dedicarsi anima e corpo al lavoro di casalingo a tempo pieno. Sono numerose le scene in cui il protagonista si muove con maestria davanti ai fornelli, cucinando pietanze tipiche e torte di compleanno per sua moglie, mentre frequenta corsi di cucina insieme alle signore del vicinato e sceglie meticolosamente i prodotti in sconto al supermercato, armato della sua amata Carta Fedeltà. Nel frattempo si occupa delle faccende domestiche e cerca di convertire i suoi vecchi alleati e rivali mafiosi alla dura vita del casalingo.

Qui l’arte culinaria giapponese rappresenta un medium di rottura degli schemi sociali giapponesi e degli stereotipi di genere, azzardando che anche l’uomo più temibile della Terra può occuparsi di compiti spesso e volentieri attribuiti alla casalinga, come la cucina.

FRUITS BASKET

photo credits: animeclick.it

Fruits Basket”, cioè il cesto di frutta. Un’opera in grado di utilizzare il cibo come metafora di vita e lanciare un messaggio importante: ci sarà sempre spazio per te da qualche parte, quindi non convincerti di valere meno degli altri.

Vorrei concludere l’articolo proprio con due storie raccontate in Fruits Basket, nelle quali l’onigiri (polpetta di riso giapponese con ripieno di vario tipo) ha un ruolo allegorico e centrale.

La prima riguarda i ricordi d’infanzia della protagonista, quando veniva derisa dai suoi compagni di scuola durante il gioco fruits basket, corrispettivo del nostro ‘lupo mangiafrutta’; invece di un frutto, le veniva affibiato l’onigiri, in modo che non potesse essere chiamata e quindi non potesse partecipare nel vivo del gioco. Ecco qui che l’onigiri diventa metafora di esclusione.

La seconda è il racconto dell’onigiri ripieno di umeboshi (prugne disidratate salate): immaginiamo ogni essere umano come un’onigiri con la sua umeboshi incastonata sulla schiena. Tutti gli altri possono vederla tranne il proprietario. Allora quest’ultimo, che però riesce a vedere a sua volta le prugne degli altri, si convince di valere meno. Ciò che non sa, è che anche lui ha la sua umeboshi: basta soltanto trovare qualche amico che glielo ricordi.  Ecco qui che l’onigiri diventa metafora di inclusione e l’umeboshi metafora del valore di ciascuno di noi.

 

Onigiri

photo credits: cookaround.com

Testo di Martina Condello, martinacondello.cm@gmail.com

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ODAIBA, NEW YORK A TOKYO

photo credits: livejapan.com

Uno scorcio da cartolina: il ponte di Brooklyn sullo sfondo, i grattacieli Newyorkesi dipinti dal rosso del tramonto, la Statua della Libertà che si erge fiera sull’acqua… E invece siamo a Odaiba, Tokyo!

Il ponte si chiama Rainbow Bridge, i grattacieli sono quelli della capitale giapponese e la Statua della Libertà è una riproduzione in scala ridotta dell’originale. Nel 1988 la Francia, per celebrare l’intensificarsi dei commerci con il Giappone, donò temporaneamente ai giapponesi una replica della statua; La popolarità del regalo fu tale che quando venne rimosso, al suo posto se ne costruì una copia permanente.

L’ISOLA ARTIFICIALE DI TOKYO

Odaiba è uno dei quartieri più conosciuti della capitale nipponica per divertimento, shopping e intrattenimento, costruito su un’isola artificiale della Baia di Tokyo e raggiungibile attraverso il suggestivo Ponte dell’Arcobaleno o a bordo di una rilassante crociera.

Il quartiere nacque sotto lo shogunato Tokugawa come parte di un progetto più ampio mai concluso, ovvero la costruzione di 11 isole artificiali a protezione della baia, ma solo negli anni Novanta del Novecento iniziò a prendere la sua forma attuale. Dopo la pandemia molte attrazioni e centri commerciali presenti sull’isoletta hanno chiuso i battenti, ma Odaiba ha ancora molto da offrire a chi vuole passare una giornata di svago.

E allora sarebbe magnifico se chiudendo gli occhi ci catapultassimo con la fantasia tra le strade di Odaiba, per trascorrere un pomeriggio all’insegna del divertimento. Il nostro viaggio virtuale inizia ora.

ODAIBA SEASIDE PARK

photo credits: odaiba-decks.com

Sta calando la sera: seduti sulla piccola spiaggia erbosa del Lungomare di Odaiba, ammiriamo lo skyline del quartiere di Minato e lo spettacolo mozzafiato del Rainbow Bridge illuminato, che si specchia nell’acqua del mare, mentre ascoltiamo le onde infrangersi sul bagnasciuga. Non c’è sensazione più rasserenante.

Ci stiamo riposando dopo aver trascorso il pomeriggio a divertirci tra i negozi del Decks Tokyo Beach, il grande centro commerciale di fronte alla spiaggia, all’interno del quale si possono visitare LegoLand, Il Museo delle Cere di Madame Tussaud’s e il parco divertimenti Joypolis.

GUNDAM GIGANTE

photo credits: japancitytour.com

Di certo non passa inosservato, con i suoi quasi 20 metri di altezza. Camminando fino al centro commerciale Diver City Tokyo, ci troviamo davanti all’imponente statua di Gundam, il famoso robot della fortunata serie d’animazione tratta dall’omonimo manga. Gli appassionati non possono perdersi le trasformazioni di questa statua semovente, accompagnate da effetti audio-visivi, che si susseguono a intervalli regolari durante tutto l’arco della giornata.

FUJI TV BUILDING

photo credits: italiajapan.net

Durante la nostra veloce visita ad Odaiba, ci siamo imbattuti anche in un edificio futuristico, particolare nella sua struttura, con una grande sfera di metallo al centro. Che cos’è? Non è altro che la sede della Fuji TV, un’importante emittente televisiva privata giapponese che ha mandato in onda numerose produzioni note anche in Occidente, come il pionieristico Astro Boy e l’anime One Piece. Andiamo ad esplorare l’interno e saliamo fino al venticinquesimo piano, così potremo godere di un bellissimo panorama dal punto d’osservazione situato in quella grande sfera di metallo che ci incuriosiva dall’esterno.

Qui si conclude il nostro breve viaggio con la fantasia. Ora non resta che imprimersi nella mente questi luoghi lontani in attesa, chissà, di volare un giorno a Tokyo, e perdersi di persona tra le tante bellezze di Odaiba.

Testo di Martina Condello, martinacondello.cm@gmail.com

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JIDŌHANBAIKI, i distributori automatici per ogni occasione

photo credits: arabnews.jp

Le vending machine sono così popolari e famose in Giappone che persino il protagonista dell’anime “Jidōhanbaiki ni umarekawatta boku wa meikyo wo hokou” ‘Sono rinato come distributore automatico, e ora vago per labirinti’, è rinato come un distributore automatico in un nuovo mondo.

Ma ora tornando al tema principale, come mai le jidōhanbaiki, vending machine in inglese e distributore automatico in italiano, sono così popolari in Giappone?

Chiunque faccia una piccola ricerca prima di un viaggio in Giappone può scoprire che i distributori automatici sono tra le prime comodità che il paese offre, secondi solo ai konbini, convinient store.

La loro fama è motivata da diversi fattori, uno di questi la loro presenza nel territorio. Di fatti i distributori sono presenti su tutto il suolo giapponese, dalle grandi città alle città rurali, una realtà possibile anche al basso tasso di criminalità registrato nello stato. La varietà dei loro prodotti, in pase all’azienda produttrice e al periodo dell’anno, che predilige bevande fresche durante le stagioni più calde e propone bibite calde nel periodo invernale, fa sì che i distributori riescano a soddisfare le esigenze di ogni persona.

Ho introdotto il discorso portando l’esempio delle bibite, poiché queste sono le jidōhanbaiki più comuni che si possono trovare dal 1960, data dall’introduzione massiccia della moneta da 100 yen. Tuttavia, storicamente parlando la prima jidōhanbaiki fu prodotta nel 1888 da Tawaraya Koshichi e vendeva tabacco.  Un’altra sua opera rivoluzionaria uscì nel 1904, un distributore automatico che vendeva francobolli e cartoline, con anche la funzione di buca per le lettere.

 

photo credits:plaza.rakuten.co.jp

Con il passare del tempo e grazie l’introduzione di nuovi metodi di pagamento, le tipologie di distributori e i prodotti che mettono a disposizione sono aumentati.

Partirei dal presentare quei prodotti che sono comuni anche qui nei distributori italiani. Già precedentemente presentati abbiamo i distributori di bibite, che in Italia troviamo solo come prodotti freschi, poi abbiamo i distributori di sigarette o prodotti da tabacchi e i distributori di snacks. Tutti distributori comuni nell’utilizzo quotidiano.

In Giappone però è possibile comprare anche bibite alcoliche tramite una semplice vending machine, come magari una bella birra fresca. Rimanendo sempre su alimenti che possano alleviare il caldo perché non prendere un bel cono gelato?

Se invece preferite un pasto più sostanzioso ci sono sempre distributori che vendono nuddles che siano questi ramen, udon, mazesoba, tsukesoba e tanto altro, ce n’è per tutti i gusti! È possibile comprare anche cibi dal gusto più europeo come una bella pizza o paella oppure darsi a qualcosa di più esotico come il loco moco, un piatto hawaiano composto da riso, hamburger, uovo e salsa gravy. E cos’è un buon pasto senza un dolce, perché oltre al gelato sarà possibile prendere anche un qualcosa di un po’ più sfizioso.

Ma il contenuto dei distributori automatici non si ferma solo a prodotti alimentari, in base al quartiere in qui ci si trova si possono trovare action figures, carte da gioco e libri o manga in quelle più comuni, ma andando a controllare i distributori più nascosti chissà cosa si potrebbe trovare, magari proprio la cravatta che avete dimenticato di indossare per il vostro importante colloquio.

 

photo credits: web-japan.org

Le jidōhanbaiki non vi stupiranno solo per il loro contenuto, ma anche per la loro innovazione tecnologica, dagli schermi touch fino al distributore automatico realizzato in collaborazione con un’azienda di cosmetica che utilizza l’IA, questo analizzando il volto dei clienti proporrà loro il prodotto più indicato per la loro fisionomia e carnagione.

 

Articolo di Elena Ferrario, Stagista presso l’Associazione Giappone in Italia

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Lo Yukata l’abito tradizionale estivo giapponese

photo credits: guidable.co

Lo yukata è una tipologia di vestiario più semplice rispetto a quella del kimono, composta solo da tre elementi: la veste, con il nome di yukata, la cintura, con il nome di obi, e i geta, i sandali di legno tradizionali. Rispetto al kimono possiamo vedere l’assenza del juban (sottoveste, biancheria del kimono) e delle tabi (calze). Questo è dovuto al fatto che in principio lo yukata era nato per essere indossato dai nobili durante bagni di vapore per proteggere la loro pelle e asciugane il sudore.

La funzione si può comprendere osservando l’antica l’etimologia della parola. La parola yukata era composta dal termine yu “湯” (acqua calda) e katabira “帷子” (indumento semplice di seta), che uniti in yukatabira “湯帷子” sono traducibili in italiano con la parola ‘accappatoio’, con la specifica che fosse possibile indossarlo dopo o durante il bagno. Tuttavia, con il passare del tempo la scrittura del termine si è semplificata fino a divenire quella che conosciamo noi oggi, composta da una differente coppia di kanji, quali yu “浴” (bagnarsi) e kata “衣” (indumento), ma mantenendo lo stesso senso di fondo un indumento da bagno.

Inizialmente nati quindi, come indumenti da bagno per nobili gli yukata divennero vestiario comune grazie alla loro produzione in cotone nel periodo Edo (1603-1867) e solo in anni più recenti, alla fine del periodo Showa (1926-1989), divennero gli abiti tradizionali da indossare nel periodo estivo, per far visita ai templi o santuari, per essere indossati durante i festival e la sera.

Anticamente lo yukata era di differenti colori in base a quando doveva essere indossato. Solitamente in casa si indossavano yukata semplici e dai colori chiari, come il bianco, mentre per uscire si preferiva indossarne di color indaco anche per via dell’odore dalla colorazione, che creava un repellente naturale per insetti. Oltretutto gli yukata venivano usati al massimo delle loro potenzialità, dopo essersi rovinati erano indossati come pigiami, e quando anche questi non erano più in condizioni ottimali, venivano trasformati in fazzolettini ed in fine stracci per la casa.

Oggigiorno indossare lo yukata è diventata anche una questione di stile. Le fantasie più popolari tra le ragazze sono floreali di colori sgargianti, mentre le donne adulte preferiscono indossarne con motivi più semplici, ma sempre dai colori vivaci. Gli yukata indossati dagli uomini tendono a colori scuri, quali il blu e nero, monotono e dalle lavorazioni classiche. Perché sì, nonostante quando si pensa allo yukata si immagina una ragazza vestita con un elegante abito dai colori brillanti, questo è anche un classico indumento maschile.

È possibile non solo per i giapponesi, ma anche per i turisti vivere l’esperienza di indossare e farsi fotografare in uno yukata mentre si camminare per le strade delle città, grazie a tutti i negozi che ti permettono di prenderli in prestito o li vendono. Tuttavia, se doveste recarvi in Giappone durante il periodo autunnale o invernale, mesi un po’ freddi per fare quest’esperienza, non c’è da preoccuparsi, li potrete indossare negli ryoukan, pensioni in stile giapponese. Difatti queste pensioni mettono a disposizione dei loro clienti lo yukata, sia per muoversi all’interno dello stabile che per andare a fare quattro passi grazie all’ausilio di giacche pesanti quali hanten o chabaori.

photo credits: yamanami-online.jp

 

Articolo di Elena Ferrario, Stagista presso l’Associazione Giappone in Italia

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L'anguilla un piatto estivo che porta fortuna

photo credits: skywardplus.jal.co.jp

In Giappone sin dal Periodo Nara (710-749) si racconta come l’anguilla sia uno dei migliori cibi contro il caldo estivo, di come questo cibo grasso e ricco di vitamina A aiuti l’alleviamento della fatica e migliorare l’appetito per contrastare la calura estiva, che causa a molti di sentirsi male.

Servita grigliata, bagnata da una salsa buonissima di cui sappiamo avere come base la salsa di soia e nulla di più, per via di come i suoi ingredienti sono tenuti segreti dai vari ristoranti che la servono. Viene poi servita su un letto di riso bianco, prendendo il nome di unadon. Termine che si crea all’unione delle parole giapponesi unagi (anguilla) e donburi (ciotola), che può anche identificare una tipologia di cibi giapponesi caratterizzati da una ciotola contenente riso sulla quale vene posto un ingrediente, come in questo caso.

Questo cibo che per la sua pesantezza potremmo non vedere collegato ai leggeri e freschi cibi estivi deve la sua fama ad una festività del periodo Edo che lo ha reso il suo piatto principale. Tale festività prende il nome di Doyō no ushi no hi che in italiano possiamo tradurre con ‘Il giorno del bue di metà estate’, è una festività basata sul calendario lunare e sui suoi dodici animali dello zodiaco. Il ‘Giorno del bue’, secondo tra i dodici animali dello zodiaco, cade in quello che viene definito doyō, i 19, 18 giorni prima del cambio di stagione, che in questo caso è nel mese di luglio, per questo tradotto con ‘metà estate’ in italiano.

Il collegamento tra il piatto a base di anguilla e la festività non si sa bene come sia nato, se sia davvero dovuto alla ricchezza dei nutrienti dell’anguilla o per altri motivi, tuttavia, vi vorrei proporre oltre ad una motivazione nutrizionale, quella che potremmo definire una divertente leggenda.

Si narra infatti che sia stato un certo Gennai Hiraga ad aver suggerito questa usanza nel periodo Edo. Un giorno il Sig. Gennai ricevette la visita di un negoziante che aveva paura di non riuscire più a vendere le sue anguille nel periodo estivo. Gennai ci pensò su e come soluzione gli propose di pubblicizzare la vendita dell’anguilla durante il Giorno del Bue, poiché mangiare qualcosa che inizi con la ‘U’ durante questa festività avrebbe portato molta fortuna.

Ora per noi una frase del genere ha tanto senso quanto chi ci consiglia di guardare il sole quando non riusciamo a starnutire, ma bisogna tenere in conto che in giapponese il Giorno del Bue si dice Ushi no hi e che la parola anguilla in giapponese si dice unagi; quindi, mangiare anguilla il Giorno del Bue è proprio uno di quelle pietanze perfette per diventare fortunati a quanto viene affermato dal Sig. Gennai.

Che questa storia sia davvero alla base di una tradizione che persiste fino ad oggi, lo lascio decidere a voi. Sicuramente dal periodo Edo la festività e il piatto culinario si sono legati molto, tanto che tutt’ora in Giappone dall’inizio di luglio è possibile trovare volantini e cartelli che pubblicizzano l’arrivo del Doyō no ushi no hi e per le strade si può già sentire il dolce profumo dell’anguilla alla brace coperta dalla sua deliziosa salsa, che ti invita ad entrare nei negozi per mangiarla.

Un esempio di volantino pubblicitario. Photo credits: threaf.com

 

Articolo di Elena Ferrario, Stagista presso l’Associazione Giappone in Italia

https://www.giapponeinitalia.org/wp-content/uploads/2023/05/2023-Evento_CampsiragoResidenza.pdf

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Il peso delle aspettative sociali sui giovani nella società giapponese: analisi libro "La ragazza del convenience store"

“La ragazza del convenience store” di Murata Sayaka è un libro che ha riscosso un discreto successo in Giappone nel 2016. Ciò che ha attratto i lettori è stata soprattutto la capacità di Sayaka di rappresentare perfettamente la società giapponese contemporanea come ancora troppo legata a solide aspettative sociali che sembrano pesare ancora molto sui giovani nella transizione all’età adulta. Vediamo, quindi, quali sono queste aspettative attraverso l’analisi dei protagonisti del libro.

photo credits: theguardian.com

La società giapponese è stata interessata da numerosi cambiamenti socioeconomici a partire dal dopoguerra. Il Giappone in quel periodo, infatti, era una nazione in grande crescita economica, costruita su tre pilastri in particolare: famiglia, azienda e scuola. Questo sistema prevedeva una precisa divisione dei ruoli, in cui solamente agli uomini spettava mantenere economicamente la famiglia, mentre le donne dovevano occuparsi delle faccende di casa e dell’educazione dei bambini. Questi ultimi, anche a quell’età, erano comunque spinti ad ottenere ottimi risultati a scuola, poiché dovevano diventare poi i lavoratori del domani. Questo, quindi, era il modello di vita che la maggior parte delle persone seguiva, stimolati anche dalle favorevoli condizioni economiche.
Tuttavia, la situazione cambiò radicalmente con lo scoppio della bolla avvenuto nei primi anni ’90. Prima di tutto, in ambito lavorativo si passò da un tipo di lavoro stabile e duraturo a uno più incerto e flessibile. Le compagnie, infatti, furono costrette a ridurre il personale e assumere a tempo determinato con la politica economica adottata in quel periodo. Se negli anni precedenti, quindi, i giovani potevano legarsi quasi a vita ad una compagnia, ora invece si manifestava un preoccupante senso di precarietà. Tutto ciò ebbe, naturalmente, conseguenze importanti anche all’interno della società.

photo credits: scmp.com

Precarietà e aspettative sociali nei giovani

Con un tipo di lavoro per lo più precario risultava molto difficile impegnarsi in un matrimonio e nella creazione di una famiglia. Ciononostante, entrambi erano e sono tutt’oggi spesso considerati importanti per la transizione all’età adulta dei giovani. Ma cosa significa diventare adulti in Giappone? In generale, una persona per essere considerata pienamente matura dovrebbe conformarsi alle aspettative sociali, che risultano essere differenti in base al genere. Per quanto riguarda le donne, infatti, diverse indagini hanno dimostrato come la maggior parte di loro abbiano intenzione di sposarsi e avere bambini. Tuttavia, a partire dagli anni ’90 sempre più donne hanno deciso di rifiutare il matrimonio per dedicarsi totalmente alla propria carriera. Questa scelta, però, non viene spesso accolta con piacere e, soprattutto nei media, accade che vengano etichettate con termini dispregiativi, quali “parassiti”.

La maturità maschile e l’idea di “mascolinità”, invece, sembrano essere più legati alla figura del salaryman. Un uomo, infatti, secondo l’ideale deve essere diligente, responsabile e dedito al lavoro per mantenere la propria famiglia economicamente. Come vediamo, quindi, le aspettative hanno ancora un peso importante per i giovani, ma occorre comunque notare come negli ultimi anni siano aumentati stili di vita differenti. Si stima, infatti, che tra il 1995 e il 2010, la percentuale di donne ancora single sotto i 34 anni sia passata dal 19,7% al 26,6%. Gli uomini, invece, nella stessa fascia di età dal 37,3% al 42,9%. Tuttavia, coloro i quali non si adattano al “normale” stile di vita vengono spesso allontanati dalla presunta “normalità” e incolpati per la precarietà del Giappone. Come vedremo, esattamente ciò che accade ai due protagonisti del romanzo di Murata Sayaka.

photo credits: amazon.it

“La ragazza del convenience store”

Konbini Ningen è un romanzo scritto da Murata Sayaka nel 2016 e vincitrice nello stesso anno del prestigioso premio Akutagawa. L’autrice ha affermato in un’intervista al Japan Times che per la sua scrittura si è ispirata alla sua esperienza personale come commessa in un konbini. Il romanzo è uscito in Italia nel 2018 con il titolo “La ragazza del convenience store”, tradotto da Gianluca Coci. La protagonista è Keiko, una ragazza di 36 anni considerata “strana” dalle persone intorno a lei per la sua situazione lavorativa e sentimentale. Molto simile a lei è Shiraha, un anno più piccolo di Keiko, che, come vedremo, ricoprirà all’interno del romanzo un ruolo altrettanto importante.

photo credits: wikipedia.org

Il ruolo del konbini

Il konbini, o convenience store, ricopre un ruolo importante all’interno del romanzo. È, infatti, di norma un ambiente regolato da precise direttive, rituali e ripetizioni che tutti i commessi devono seguire. Per Keiko, il konbini rappresenta però un luogo in cui finalmente sente di essere “normale”, proprio grazie al fatto che queste regole sono scritte nero su bianco su un manuale. Al di fuori, invece, la situazione è ben diversa, poiché nella vita quotidiana non esiste alcun manuale che possa spiegarle come vivere in modo “normale”. Il konbini, quindi, diventa per Keiko il rifugio perfetto in cui ogni problema sparisce e si può sentire finalmente una persona come tutte le altre.
Inoltre, il konbini sembra avere un altro punto in comune con la società giapponese. Entrambi, infatti, si basano su di un equilibrio che, se alterato, richiede l’espulsione dell’elemento disturbatore. Esattamente come Keiko viene spesso esclusa quando si trova al di fuori del suo negozio, così anche nel konbini in più episodi coloro che alterano questo equilibrio vengono esclusi. Questo accade prima con un attaccabrighe e poi con Shiraha, come vedremo il secondo personaggio più importante del romanzo.

Le figure di Keiko e Shiraha

Keiko, la protagonista, è stata considerata una ragazza “strana” fin da piccola a causa del suo comportamento fuori dagli schemi. La ragazza si impegnerà a cambiare soprattutto per non far soffrire i propri genitori, ma il suo mutismo finirà per farli preoccupare ugualmente. Una volta finita l’università, Keiko andrà a vivere da sola e continuerà il suo lavoro part-time al konbini trovato qualche anno prima. Keiko, quindi, rappresenta quel cambiamento avvenuto dopo lo scoppio della bolla che ha portato al consolidamento di una nuova forma di individualizzazione. Da quel momento, infatti, sempre più giovani hanno preferito non sposarsi e vivere da soli, sebbene ciò non sia ben visto all’interno della società. Per quanto riguarda l’ambito lavorativo, invece, secondo i dati raccolti dal ministero del lavoro giapponese nel 2011 il 40% delle aziende non valuta positivamente esperienze da freeter, un termine per indicare giovani che non si impegnano in modo volontario in lavori stabili.

Keiko tenterà, quindi, di diventare “normale” con l’aiuto di Shiraha, un uomo di 35 anni non molto diverso da lei. Anche lui, infatti, alla sua età non ha un lavoro stabile e vive da solo, ma è possibile notare alcune differenze con Keiko. Shiraha, infatti, al contrario di Keiko conosce bene le regole che governano la società esterna, ma volontariamente sceglie di non seguirle. È stanco, inoltre, di essere trattato come “anormale” e ciò fa riversare la sua rabbia sulle persone intorno a lui. Ciononostante, si dimostrerà ben lontano da quell’ideale di “uomo mascolino” visto in precedenza. Infatti, il suo comportamento non sarà diligente e responsabile, quanto piuttosto da parassita, come lui stesso affermerà durante una conversazione con Keiko. Tuttavia, alla fine, il piano per cambiare la sua situazione dovrà fare i conti con la scelta di Keiko, che lo spingerà a cercare un’altra soluzione.

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Approfondimenti: La rivolta di Shimabara

La rivolta di Shimabara fu un episodio particolarmente violento della storia del Giappone, in cui persero la vita molte persone di fede cristiana. Siete curiosi di scoprire le cause di questa ribellione e cosa successe in quei giorni? Questa è una storia che non tutti conoscono.

Le cause della rivolta

Photo credits: alchetron.com

La rivolta di Shimabara ebbe luogo nell’era Tokugawa del Giappone (1600-1868), e durò ben cinque mesi, dal dicembre del 1637 all’aprile dell’anno dopo. Tutto iniziò dal discontento che serpeggiava tra i contadini della penisola di Shimabara e Amakusa, a metà degli anni ’30 del 1600.

Infatti, il popolo era stanco di dover subire le angherie dei lord locali, da cui venivano tassati in modo sproporzionato. Inoltre, gli effetti della carestia avevano fatto soffrire gli strati più bassi della popolazione, che pativano ancora la fame.

I lord locali, inoltre, perseguivano gli abitanti di queste regioni perché erano cristiani. Infatti, il bando sul cristianesimo era stato introdotto dallo shogun Toyotomi Hideyoshi nel 1587, che vedeva la fede cattolica come una “perniciosa dottrina”.

Shimabara

Photo Credits: alchetron.com

Il governo centrale, infatti, temeva che il cristianesimo potesse mettere in dubbio le basi ideologiche su cui si fondava il Giappone. Di conseguenza, tale religione poteva minare il potere politico dello shogun e aprire il paese ad un’invasione europea. Per questo motivo, durante gli anni vennero fatti crocifiggere e torturare diversi cristiani giapponesi.

All’insoddisfazione generale si unirono anche i rōnin (samurai senza padrone), non contenti delle condizioni nelle quali vivevano.

L’assedio di Hara

Shimabara

Photo Credits: wikipedia.org

L’inizio della rivolta si ebbe con l’assassinio di un magistrato locale nel 17 dicembre del 1637. Il leader della ribellione fu un giovane di sedici anni, molto carismatico, dal nome di Amakusa Shirō. I ribelli, dopo alcune battaglie, si radunarono nel castello di Hara, costruendo delle vere e proprie fortificazioni fatte di legno.

Tuttavia, ben presto le forze dello shogunato Tokugawa iniziarono l’assedio della roccaforte, il più grande da quello di Osaka del 1615. A prendere parte all’assedio fu anche il famoso spadaccino Miyamoto Musashi, in qualità di consigliere di un daimyō. Di Musashi si racconta che venne disarcionato da cavallo a causa di una pietra tiratagli da un contadino.
Le forze shogunali chiesero l’aiuto dell’esercito olandese, che gli fornì munizioni e armi di particolare potenza, come i cannoni. Tuttavia, tali armamenti non ebbero l’effetto desiderato, e anzi, i ribelli sbeffeggiarono le forze shogunali, deridendole per aver chiesto aiuto a stranieri.

L’assedio si concluse nell’aprile del 1638. I ribelli finirono a corto di cibo e furono annientati dall’esercito alleato, non senza prima aver causato ingenti perdite a quest’ultimo.

Le conseguenze

Shimabara

Photo credits: mag.japaaan.com

I 37.000 ribelli furono tutti decapitati. Tra questi vi era anche Amakusa Shirō, la cui testa venne esposta a Nagasaki per un lungo lasso di tempo, in segno di avvertimento.

Inoltre, lo shogunato sospettava che dietro alla rivolta vi fossero i cattolici europei. Per questo motivo, espulse dal paese tutti i mercanti portoghesi e rese ancora più pesante il bando sul cristianesimo. Infatti, da questo momento in poi la comunità cristiana in Giappone sopravvisse solamente grazie alla segretezza con cui venivano svolti i vari riti.

Questi cristiani venivano chiamati “kakure kirishitan”, i “cristiani nascosti”, che arrivavano a camuffare statuette cristiane con icone buddiste per non farsi scoprire dalle autorità shogunali.

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WEB SERIE: Guardians of Japan - Episodio 02 - Tokugawa Ieyasu

Dopo il primo episodio di Guardians of Japan, condiviso due settimane fa sul nostro canale YouTube, oggi condividiamo con voi il secondo appuntamento della serie con un focus speciale dedicato a Tokugawa Ieyasu.

Alla fine dell'episodio inoltre, potete trovare un'intervista esclusiva ad Hayate Masao, attore che ha interpretato proprio Tokugawa Ieyasu nello show Netflix "Age of Samurai: battle for Japan"! Godetevi l'episodio e fateci sapere cosa ne pensate nei commenti!!

Questa web serie è stata originariamente creata da Japan Italy Bridge che ha gentilmente deciso di donare il contenuto e la distribuzione all'Associazione Culturale Giappone in Italia.