AMORE AL CIOCCOLATO

 

San Valentino, la festa dell’amore per eccellenza, richiama subito alla mente le cene a lume di candela, i mazzi di rose rosse e le gite fuori porta con la propria dolce metà.
Il 14 febbraio in Occidente è la giornata perfetta da trascorrere insieme al partner all’insegna del romanticismo. Invece in Giappone le coppie festeggiano il 24 dicembre, la Vigilia di Natale, e San Valentino diventa quindi un’occasione diversa, dedicata a chi vuole dichiarare i propri sentimenti.
La tradizione nasce negli anni Cinquanta del Novecento, dalla grande trovata di marketing di una nota azienda dolciaria giapponese: la Mary’s Chocolate Company incentivò le donne ad esprimere i loro sentimenti il giorno di San Valentino, regalando cioccolato alla persona amata.

Photo credits: mary.co.jp

 

DIMMI CHE CIOCCOLATO MI REGALI E TI DIRÒ SE MI AMI

La società giapponese prevede un rigido rispetto delle gerarchie e, più in generale, la cortesia è una componente fondamentale nelle relazioni lavorative, scolastiche ed affettive. È per questo che a San Valentino non ci si limita a regalare cioccolato solo se si è innamorati, ma è prassi omaggiare anche i propri colleghi di lavoro, i compagni di scuola e gli amici più cari per dimostrare la stima o l’affetto che nutriamo nei loro confronti.
Vengono venduti vari tipi di cioccolato a San Valentino, in base all’intensità del sentimento che si vuole esprimere. I più famosi sono:

Honmei choko (本命チョコ), ovvero il cioccolato del preferito, il soggetto della dichiarazione d’amore. Può essere home made, a sottolineare cura e interesse, oppure essere il più costoso in commercio.
Giri Choko (義理チョコ), cioè il cioccolato del dovere, che va distribuito ai colleghi o ai compagni di classe per convenzione sociale.
Tomo Choko (友チョコ), il cioccolato che si regala agli amici più cari per esprimere affetto sincero.

Photo credits: http://angologiapponese.blogspot.com

 

IL SENTIMENTO È RECIPROCO

Il 14 marzo, esattamente un mese dopo San Valentino, i coraggiosi che si sono dichiarati potranno essere ricompensati: si tratta del White Day, il giorno in cui chi ha ricevuto il cioccolato regala a sua volta qualcosa al mittente, in segno d’amore reciproco. Al contrario, se non si ottiene nulla in cambio, vorrà dire che purtroppo si è stati rifiutati.
Anche il White Day venne istituito dalle aziende dolciarie che negli anni Settanta del Novecento crearono questo pretesto per vendere di più; infatti il regalo del White Day per eccellenza è il cioccolato bianco, ma anche altri dolci (ad esempio marshmallow e biscotti), peluches e gioielli: tutto rigorosamente bianco, come suggerisce il nome della ricorrenza.

Photo credits: http://akibagamers.it

 

 

Testo di Martina Condello, martinacondello.cm@gmail.com

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Omotenashi

In giapponese c’è un’espressione da tenere a mente quando si interagisce con la popolazione locale: “Omotenashi”.

Possiamo tradurre “Omotenashi” come “Ospitalità”, ma sarebbe riduttivo. Significa infondere tutte le proprie energie nell’accogliere l’ospite nel miglior modo possibile, prestando attenzione anche ai più piccoli dettagli. “Omotenashi” è il commesso del supermercato che 8 anni fa mi aiutò a trovare la strada che stavo cercando ad Akihabara. Ero arrivata da qualche settimana, quindi le mie conoscenze linguistiche erano ancora scarse, grezze, da modellare e affinare, come un blocco di creta sul quale sono stati tracciati solo i primi tratti di una forma.

Non riuscivo a trovare un negozio che stavo cercando, così entrai in un konbini (un supermercato aperto 24h, ne esistono di diversi tipi in tutto il Giappone). Pioveva forte e lo scroscio d’acqua rendeva le strade di quel quartiere simili alla scenografia di Blade Runner. Luci, negozi, insegne, ristoranti, macchinette gatcha-gatcha: tutto era confuso e ordinato allo stesso tempo. Entrai dentro al negozio e provai a pronunciare una richiesta di indicazioni in un giapponese stentato, cercando di rispettare le formule di cortesia che mi ricordavo.

Avevo una cartina con me e provai a mostrarla al commesso, che a sua volta provò a farmi capire la strada: prima in giapponese, poi in un inglese non proprio chiaro. Purtroppo, le strade in Giappone non hanno la stessa codifica occidentale: non sono codificate in base a un nome come in Europa. Ogni quartiere (Ueno, Akihabara, etc). Ogni quartiere in un indirizzo è preceduto da tre cifre:

4-8-12 Ueno, Taito-ku, Tokyo

Il 4 è il chome, cioé indica la zona di Tokyo, l’8 indica la suddivisione del chome e 12 è il civico. I civici però non sempre sono in ordine lungo la via! Inoltre, non esiste il piano terra: il nostro piano terra è il 1° piano. Così, il negozio che stavo cercando era su qualche piano di un grattacielo ad Akihabara. Alla fine, il commesso uscì da dietro il balcone, mi accompagnò all’uscita, prese l’ombrello e mi guidò sotto la pioggia fino a destinazione.

Photo credits: Zucchelli Valentina

Otto anni dopo durante la mia vacanza a Tokyo, ho vissuto altri esempi di Omotenashi. Il primo fra tutti che mi sovviene è quello di una coppia di anziani volontari che io e la mia Dolce metà abbiamo incontrato una mattina fuori dalla stazione di Ueno, vicino al Panda Bridge (così chiamato perché nel parco adiacente si trova uno zoo che ospita alcuni esemplari di questa specie). Stavamo cercando la strada per raggiungere Yanaka, uno dei quartieri antichi di Tokyo. Ho alzato per un attimo lo sguardo dalla cartina e ho visto avvicinarsi una coppia di anziani signori, un uomo e una donna, che indossavano una pettorina, azzurra come il cielo, ed in mano avevano tante cartelline, volantini e mappe. Sorprendendoci, ci rivolsero la parola in inglese (non è una lingua così diffusa in questo paese) e si offrirono di aiutarci a trovare la strada. Non solo, ci accompagnarono chiacchierando amabilmente attraverso il parco verso il vialetto giusto da percorrere e ci regalarono alcune cartine!

Anche questo per me è Omotenashi: comprendere come ciò che per noi può sembrare naturale per altri risulta difficile così lo semplifichiamo facendo uno sforzo in più affinché l’Altro stia meglio.

Omotenashi è non limitarsi a servire i clienti al ristorante ma scambiare due parole con i clienti, dare suggerimenti spontanei sulle attrazioni turistiche della zona, come ci è successo con una cameriera in un ristorante di fronte alla stazione di Tokyo. Nello stesso edificio poco prima una commessa di un negozio ci aveva aiutati a trovare quel ristorante, spiegandoci le indicazioni con voce tenera e gentile per mostrare rispetto nei nostri confronti, in quanto potenziali clienti. Omotenashi è il cuoco che dall’altra parte del bancone di un locale a Kyoto ha cercato una lavanderia a gettoni più vicina al nostro albergo, perché era dispiaciuto che avessimo dovuto fare tanta strada (20 minuti a piedi) per raggiungere quella vicina al suo ristorante.

La prossima volta che vi chiederanno indicazioni o vedrete qualcuno cercare la strada su una cartina, ricordatevi di Omotenashi.

Photo credits: Zucchelli Valentina

 

 

 

Testo di Valentina Zucchelli, valezu92@gmail.com

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GIAPPONE AL CINEMA

Lo scorso gennaio sono usciti nelle sale dei cinema italiani due film giapponesi che vale sicuramente la pena di recuperare: il Ragazzo e l’airone (君たちはどう生きるか, Kimi-tachi wa dō ikiru ka, lett. “E voi come vivrete?”) di Hayao Miyazaki e Perfect Days di Wim Wenders.

Il primo è il testamento autobiografico del regista di Studio Ghibli, famoso per aver prodotto diversi capisaldi dell’animazione giapponese Per citarne alcuni: Nausicaä della Valle del vento (風の谷のナウシカ, Kaze no tani no Naushika. 1984), Il castello errante di Howl (ハウルの動く城, Hauru no ugoku shiro. 2004) e Si alza il vento (風立ちぬ, Kaze tachinu. 2013).

Il secondo è una profonda riflessione sulla vita e sullo scorrere del tempo, la pellicola di ritorno del regista de Il cielo sopra Berlino (Der Himmel über Berlin. 1987).

 

IL RAGAZZO E L’AIRONE: E VOI COME VIVRETE?

Photo credits: mymovies.it

1944. Mahito Maki vive a Tōkyō col padre, imprenditore nel settore dell’aeronautica militare, mentre la madre è costretta in ospedale. Quando la donna muore per un incendio divampato nella struttura dove è ricoverata, il figlio si trasferisce con il padre e la sua nuova moglie in una vecchia tenuta di campagna. È qui che il ragazzo, guidato da un airone cenerino parlante, scopre una torre abitata da personaggi bislacchi.
Mahito intraprende così un percorso di formazione attraverso cui supera il dolore per la perdita della madre.
Il luogo magico nascosto nella torre altro non è che il subconscio del protagonista stesso, in una rappresentazione del viaggio fisico come pretesto per compiere un viaggio metafisico, raggiungere il cambiamento interiore e risolvere i propri traumi, proprio come succede al Dante della Divina Commedia; infatti la frase latina che sovrasta l’ingresso della torre di Miyazaki è la stessa che troviamo sulla porta dell’Inferno dantesco: “Fecemi la divina potestate”, cioè “Sono stato creato dal potere divino”.
Il Dio creatore del mondo incantato è il Prozio, un uomo ormai prossimo alla morte che cerca invano in Mahito il suo successore, qualcuno in grado di mantenere inalterato il precario equilibrio della sua creazione, sacrificandosi per essa.
Il ragazzo e L’airone è una produzione autobiografica che lascia vasto spazio all’immaginazione dello spettatore: il piccolo Miyazaki e Mahito affrontano uguali esperienze di vita ed entrambi si rifugiano nelle fantasie strampalate ed infantili dei bambini, le stesse che popolano i film del regista. Il mondo in cui si perde Mahito nel film può facilmente essere la metafora di Studio Ghibli, co-creato da Isao Takahata e Miyazaki nel 1985. Tant’è che la figura del Prozio si può assimilare sia a Miyazaki, ormai uomo anziano che riflette sul futuro incerto della sua casa di produzione, sia ad Isao, che ha affidato al suo socio la gestione di Studio Ghibli. In questo secondo caso, Hayao potrebbe essere, nel film, il Re dei Parrocchetti che prima governa e poi distrugge il regno.

 

PERFECT DAYS

Photo credits: mymovies.it

Hirayama si alza all’alba, bagna le sue amate piante, prende una lattina di caffè al distributore automatico e, accompagnato dalla musica anni ‘70 delle sue vecchie cassette, guida verso il lavoro.
Finito il turno si lava in un’ōnsen pubblica, cena sempre nella stessa bettola della stazione e prima di addormentarsi legge.
Nel suo giorno libero frequenta un piccolo izakaya di fronte alla lavanderia; poi porta a sviluppare il rullino della sua macchinetta analogica e seleziona le foto da tenere tra quelle che ha scattato in settimana. Tutte foto dello stesso grande albero che gli tiene compagnia ogni giorno durante la pausa pranzo.
Nonostante qualche sporadico avvenimento arrivi di tanto in tanto a turbare la quiete di Hirayama, le sue giornate da addetto alle pulizie dei bagni pubblici di Tōkyō trascorrono tranquillamente.
Perfect Days è la quotidianità del protagonista raccontata giorno dopo giorno, semplicemente. Tutto qui, si può pensare? Sì, tutto qui. Tutto ciò di cui c’è bisogno per essere sereni è qui, nell’atto rivoluzionario di vivere lo scorrere del tempo senza fretta, in una società in cui ogni instante deve invece essere un’esperienza entusiasmante da poter raccontare.
Wenders ci ricorda che la felicità è bagnare ogni mattina i germogli per veder crescere le piantine, è mettere cura e dedizione in ciò che si fa, anche se si tratta di pulire dei gabinetti che dopo poco verranno sporcati di nuovo, è scattare una foto ai raggi del sole che ondeggiano tra le fronde degli alberi… Hirayama riesce ad apprezzare la ripetitività della vita assaporando le gioie nascoste nei piccoli avvenimenti, senza pretese e senza affanno, in pace con sé stesso e con ciò che lo circonda, in piena filosofia zen.
Il prezzo da pagare per questa grande consapevolezza è però la solitudine.
Il protagonista vive da solo, lontano dalla vita agiata che conduce la famiglia d’origine. Non parla molto e non riesce ad instaurare rapporti duraturi con nessuno, nonostante si dimostri sempre buono e gentile con chi richiede il suo aiuto. D’altronde la natura delle relazioni umane è effimera: un giorno incontri qualcuno che condivide il suo percorso con te per un po’ e poi ognuno riparte per la sua strada, nulla rimane uguale per sempre.
Il tempo scorre e cambia inevitabilmente le cose. L’importante è sapere che “adesso è adesso, un’altra volta è un’altra volta”.

 

 

Testo di Martina Condello, martinacondello.cm@gmail.com

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kokoro 心

 

La prima volta che ho toccato il suolo giapponese fu il 16/06/2015 alle 13 circa. Come dimenticarlo?

Mi ero laureata a luglio dell’anno precedente in Lingue e Letterature Straniere e subito dopo avevo frequentato un corso singolo di Lingua Giapponese presso l’università Statale di Milano. Studiare giapponese era sempre stato il mio sogno, ma fino a quel momento non ero riuscita a realizzarlo. Così, dopo la laurea, mi dissi “Ora o mai più”, trovai un lavoro come insegnante di inglese e, nel frattempo, mi avvicinavo a un mondo che mi avrebbe cambiato la vita.

A febbraio 2015 mi capitò un’occasione più unica che rara: una scuola di Lingue internazionale annunciò una campagna di promozione dei propri corsi in occasione del 50° anniversario della propria fondazione. Parlandone con i miei genitori, ai quali sarò sempre grata per avermi dato la possibilità di vivere quest’esperienza, decisi di partire per un soggiorno studio a Tokyo, da giugno a novembre 2015.

Photo credits: Zucchelli Valentina

 

Fino a quel momento le occasioni di approfondimento della cultura giapponese erano state frammentarie e casuali, perché all’epoca era ancora considerato un argomento di nicchia, bizzarro. In Italia era possibile trovare i manga in fumetteria e alla televisione trasmettevano gli anime più famosi, ma i coetanei che frequentavo non ne parlavano. Cominciai il mio viaggio grazi ai libri, ai film, ai documentari che trovavo in biblioteca. Ero curiosa e affascinata da tutte le differenze che scoprivo, e più ne scoprivo più diventavo affamata di conoscenza. Non era un periodo facile per me a livello personale e ormai posso voltarmi indietro e affermare che il Giappone, in parte, mi ha salvata.

 

Photo credits: Zucchelli Valentina

 

Quando inizio il racconto della mia esperienza di soggiorno studio, la prima cosa che dico sempre è che fu come attraversare uno specchio, come quando Alice cade nella tana del coniglio bianco e da lì raggiunge il Paese delle Meraviglie. Immergermi nella vita quotidiana locale, i cui usi e costumi erano così tanto diversi da quelli a cui ero abituata, mi fece mettere in discussione tutti gli assunti sui quali avevo basato la mia vita fino a quel momento: dai rumori per strada, a come dosare i silenzi e pesare le risposte, dalla gentilezza mai data per scontata alla cura nei gesti. Avendo vissuto tutto questo a 23 anni, so di essere diventata la donna che sono oggi grazie a quegli insegnamenti che conservo nel kokoro (心), cioè nel cuore.

Dopo 8 anni, sono tornata in Giappone lo scorso ottobre con la mia Dolce Metà, che invece non era mai stato prima in questo paese ma è appassionato della sua cultura tanto quanto me. Ha dimostrato così tanta gioia, curiosità e tenerezza da farmi scoppiare il cuore e rivivere quanto avevo provato io la prima volta.

Ho riscoperto questo paese dopo 8 anni, con gli occhi da trentenne e attraverso i suoi, e ho capito che esiste, secondo me, un Giappone diverso per ognuno di noi. È esistito il Giappone di mia madre, che mi insegnò a creare gli Origami quando ero bambina. È esistito il Giappone di mio papà, che per il mio diciottesimo compleanno mi regalò una statuina in kimono che conservo ancora oggi, insieme al dizionario dei Kanji. Esiste il Giappone della cerimonia del tè, con le sue regole e i suoi riti sacri. Esiste il Giappone di Akihabara, per gli appassionati di anime, manga e videogiochi.

Esiste il Giappone dei santuari shintoisti e buddhisti, oasi di silenzio e pace in armonia con la natura, così insoliti per noi occidentali, abituati al rumore e alla confusione. Consiste tutto nel tutelare e proteggere l’armonia con chi ci sta intorno. Ecco allora che rispettando il silenzio rispettiamo l’Altro, mettendo il nostro piano i nostri impulsi, desideri, necessità. Il Giappone che ho vissuto a 23 anni era quello di una ragazza che imparava a stare da sola dopo aver cercato la compagnia per tanto tempo. E’ stato una scoperta, veloce, intensa, frastornante, piena di ricordi da quant’ero vorace di provare tutto, assaporare tutto, vedere tutto, e la realizzazione di un sogno. Il Giappone che ho vissuto a 31 è stato una lezione: imparare il silenzio, accettare i limiti, perdere la strada, cercare la quiete e calmare il cuore. Non c’è niente come tornare negli stessi posti dopo tanto tempo per vedere quanto si è cambiati. Vorrei che i miei lettori potessero scoprire il proprio Giappone e magari avrò io stessa l’occasione di scoprirne di nuovi.

Venite con me?

 

 

Testo di Valentina Zucchelli, valezu92@gmail.com

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3 cose che non sapevi sul San Marino Jinja - Shinto in Italia

 

3 cose che non sapevi sul San Marino Jinja – Shinto in Italia

Una delle cose più attraenti del Giappone e dei suoi abitanti è la perenne e voluta capacità di
rimanere eterei e difficilmente codificabili. L’aspetto religioso è uno di questi.

I giapponesi hanno un rapporto abbastanza complesso con la definizione di cosa sia religione e
cosa no. Tanto è vero che credenza popolare vuole che, come dice un detto, i giapponesi
nascano shintoisti per derivazione familiare, si sposino cristiani per via della bellezza del rito, e
muoiano buddhisti per reincarnarsi.

Ma uno degli aspetti più toccanti ed emozionanti di chiunque vada in Giappone è l’esperienza al
santuario, specie in occasione di eventi specifici dove migliaia di persone confluiscono per una
piccola offerta e una preghiera.

E se ti dicessi che per ripetere questa esperienza non c’è bisogno di andare in Giappone, ma puoi
assaporarne il gusto rimanendo in nel nostro stivale?

Per farlo non servirà una porta che collega a un altro mondo come negli anime, ma ti basterà
seguirci al San Marino Jinja

Che cos’è il San Marino Jinja

Il San Marino Jinja (サンマリノ神社) è un santuario shintoista chiamato così proprio perché
situato a San Marino. Nello specifico, lo si può trovare nella frazione di Lesignano, tra le colline del
titano, una zona ricchissima di verde presso l’agriturismo Podere Lesignano di Serravalle.

 

Photo credits: http://sanmarinojinja.com

 

Il santuario è nato per volere dell’associazione Japan San Marino Friendship Society, il cui
presidente è il professor Hideaki Ase e ha visto la sua inaugurazione nel 2014, dove 150 persone
hanno partecipato alla kermesse, tra cui Yoko Kishi, madre dello scomparso e allora primo
ministro del Giappone, Abe Shinzō.

Nella religione shintoista, il santuario ha una importanza fondamentale: è il luogo che custodisce
l’anima di un kami, un’anima eterea nonché divinità della religione nipponica.

È quindi il luogo in cui ci si reca per mostrare riverenza ad uno spirito, consci di ciò che
rappresenta quel determinato kami. Non esiste un rapporto 1:1 spirito-monumento. Infatti, oggi, in
Giappone, si contano circa 88.000 santuari shintoisti.

Il San Marino Jinja è dedicato ad Amaterasu (天照), la meravigliosa dea che splende nel cielo. Il
sole. Una figura così importante per il popolo nipponico e rappresentata un po’ ovunque, dal
nome della nazione “Nihon” alla bandiera nazionale. Si crede che la famiglia imperiale giapponese
derivi dalla dea Amaterasu, il che ci fa capire l’importanza di questo luogo.

Il San Marino Jinja è l’unico santuario shintoista in Europa

A testimoniare che si tratti di un vero edificio shinto ci sono i torii, simboli del Giappone e della
cultura shintoista, che crede fermamente che queste porte siano un varco sovrannaturale, che
separa il mondo terreno da quello in cui abitano gli spiriti.

In ogni caso il santuario sammarinese è una vera rarità europea. Dal 2019 infatti, il santuario è
stato riconosciuto come dalla Jinja Honcho, l’associazione dei santuari shintoisti. Con questo
passaggio, si può dire che il San Marino Jinja sia ufficialmente l’unico santuario in cui celebrare un
kami in Europa. Ma non è un unicum nel mondo.

Ad ergere queste strutture nel mondo sono stati giapponesi emigrati o espiantati in vari punti del
mondo. Sono una rarità, ma ce ne sono. Possiamo trovare altri santuari fuori dai confini nipponici
in Taiwan, nelle isole delle Marianne Settentrionali e a Palau. Infine, ci sono degli shinto shrine
anche alle Hawaii, meta prediletta dalla popolazione nipponica, e del Nambei Jingu di San Paolo
in Brasile, sede della più grande comunità nipponica al di fuori del paese del sol levante.

Il San Marino Jinja è stato eretto in onore del terremoto del 2011

Se abbiamo parlato di cose interessanti e curiose, non possiamo esentarci dall’aspetto
tristemente storico per cui è stato eretto questo luogo. Infatti, il San Marino Jinja è stato eretto
in memoria delle vittime di quanto accaduto a seguito degli eventi dell’11 Marzo 2011.

Il “Gran Terremoto del Tohoku” è stato l’evento sismico più nefasto della storia di un paese già
morfologicamente prone ai fenomeni sismici. Si tratta infatti del terremoto più forte mai registrato
in Giappone e del sesto terremoto più potente al mondo, con una magnitudine di 9.1 registrata
dai sismografi. Questo fu causa scatenante per un maremoto, uno tsunami. Le negligenza umana
portò alla reazione di alcuni reattori nucleari della centrale TEPCO di Fukushima, la Daichi Plant.

Il santuario è quindi stato fondato per ricordare le 29.000 vite umane vittime di questi tragici
eventi, nonché le centinaia di migliaia di animali coinvolte nella catastrofe.

Il San Marino Jinja deriva dal Gran Santuario di Ise

Nonostante il passaggio che precede l’arrivo al tempio, con i toro e il torii abbiano una portata
abbastanza importante, il tempio in sè non è grandissimo. Anzi, si tratta di uno spazio aperto con
un piccolo monumento.

Ma per i giapponesi, qualità batte quantità 10-0 a ogni partita.

Il cipresso utilizzato per il San Marino Jinja deriva dall’Ise Jingu (伊勢神宮), che prende il
nome dall’omonima città, Ise, situata nella prefettura di Mie, in un passaggio importantissimo per
il Tokaido. Per capire l’importanza di questo legno e della sua provenienza, si pensi che l’Ise
Jingu è la casa dello Yata no Kagami (八咫鏡), una delle tre regalie del Giappone, assieme alla
spada Kusanagi e al gioiello Yakasani. Lo specchio Yata è il simbolo della saggazza.

Come visitare il San Marino Jinja

Non ci sono limiti di nessun genere per visitare il San Marino Jinja. Il monumento è visitabile 24/7
e aperto a tutti, senza nessuna discriminazione religiosa o culturale di sorta. Ci si può avvicinare al
temizuya, l’altare, battere le mani due volte e inchinarsi.

Anche il sito del santuario esorta alla libertà religiosa, affermando che lo shinto non entra mai in
contrasto con le altre religioni, in quanto religione non convenzionale e per questo aperto a tutte le
manifestazioni religiose.

È possibile ritrovare il jinja anche su Google Maps cercando il tempio per nome o inserendo
l’indirizzo Via dei Dativi 75 a Serravalle, Repubblica di San Marino.

Quanto costa visitare il San Marino Jinja

La visita al jinja, nonostante sia sito in un agriturismo, è assolutamente gratuita.

 

Testo di Marco Di Martino, dimartino.marco22@gmail.com

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"A Tōkyō con Murakami. La città che gira le viti del mondo" di Sallusti Giorgia

 

A Tōkyō con Murakami. La città che gira le viti del mondo

 

“A Tōkyō con Murakami. La città che gira le viti del mondo” è il nuovo titolo di Passaggi di dogana, la collana di Giulio Perrone Editore che indaga i luoghi a partire dagli autori che li hanno vissuti e raccontati. L’opera scritta da Giorgia Sallusti è in uscita il 26 Gennaio per mostrarvi una Tōkyō mai vista prima.
La scrittrice ci accompagna non solo tra vari quartieri, tra le situazioni più comuni che si possono vivere nella più grande metropoli del mondo ma soprattutto tra le narrazioni di Murakami Haruki: sono i posti vissuti dai suoi personaggi e i loro pensieri e punti di vista a dare un contorno e una luce diversa alla Tokyo che conosciamo o crediamo di conoscere.

Così come dice il titolo, il viaggio in cui ci trasporta la scrittrice prevede di farci scoprire i vari luoghi toccati dall’esperienza del nostro amato Murakami e riportarti direttamente dalla sua penna.
Ma leggendo questo libro, troviamo una piacevolissima sorpresa! Il viaggio che compiremo non è solo uno: Giorgia Sallusti, accennandoci le sue esperienze passate e raccontandoci aneddoti e retroscena storici legati alla costruzione della Tōkyō che ci si presenta sotto gli occhi, ci porta in una Tokyo diversa da come ve la ricordavate.
Con una fluidità di scrittura che la scrittrice fa sembrare naturale, questo libro trasporta il lettore non in una città, ma in molteplici mondi, quasi come se, con l’ausilio di svariate porte, si possa entrare e uscire da Tōkyō per ritrovarla sempre nuova e diversa.

Se vi piace viaggiare, se vi manca Tokyo o volete conoscerla, o se Murakami Haruki è già nelle vostre librerie, il 26 Gennaio correte alla scoperta di “A Tōkyō con Murakami. La città che gira le viti del mondo” di Giorgia Sallusti.

 

Photo credits: Giulio Perrone Editore

 

Volete saperne di più sull’autrice?

Giorgia Sallusti, (Roma, 1981) è libraia, yamatologa, traduttrice. Laureata in lingue e civiltà orientali alla Sapienza, ha aperto Bookish, libreria indipendente specializzata in letterature del Nord Africa, del Medio e dell’Estremo Oriente. È autrice e voce del podcast “Yamato. Un viaggio nel Giappone che non vi hanno mai raccontato” (Emons Record). Ha tradotto “Io, lui e Muhammad Ali” di Randa Jarrar per Racconti edizioni, e “Ace. Cosa ci rivela l’asessualità sul desiderio, la società e il significato del sesso” di Angela Chen per Mondadori. Scrive di libri per «Il manifesto» e «Altri animali», rivista di cui è anche editor, occupandosi di Giappone, Oriente e femminismi.

 

Testo di Danila Alfano, danilaalfano0@gmail.com

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HAYAO MIYAZAKI

 

Un giovane ragazzino si trasferisce e, affiancato da un airone parlante, scopre che la sua nuova dimora nasconde l’ingresso di un mondo fantastico. Questa è la brevissima sinossi del più recente lungometraggio targato Hayao Miyazaki, il grande maestro dell’animazione giapponese conosciuto per essere regista, sceneggiatore, produttore, animatore, mangaka e fondatore del famoso studio di produzione cinematografica Ghibli. Il film in questione si intitola Il ragazzo e l’airone (君たちはどう生きるか, Kimi-tachi wa dō ikiru ka. 2023) ed è forse l’ultimo della serie lunghissima di capolavori usciti dalla mente e dalle mani di questo artista giapponese.

 

Photo credits: http://ciakmagazine.it

BIOGRAFIA DI UN MAESTRO

 

Photo credits: http://unive.it

Myazaki nasce nel 1941 nei pressi di Tōkyō, durante il secondo conflitto mondiale, da famiglia benestante; il padre produceva componenti di aerei militari nella fabbrica di sua proprietà, arricchendosi grazie alla guerra e suscitando per questo l’antipatia del figlio, mentre la madre soffriva di tubercolosi spinale, una malattia che la costrinse a letto per molti anni.                                                                                                                                L’infanzia di Hayao fu costellata da numerose letture di fumetti giapponesi, i cosiddetti manga, un interesse che ben presto si trasformò in una passione così forte da spingere lo stesso Miyazaki a disegnare le sue idee e storie su carta, nello stesso periodo in cui Osamu Tezuka, il Dio dei Manga, operava al suo massimo splendore.
Da mangaka ad animatore il passo fu breve, considerato il forte legame simbiotico che ancora oggi lega il linguaggio del manga e quello dell’anime: con il lungometraggio pionieristico La leggenda del serpente bianco (白蛇伝, Hakujaden. 1958) Hayao Myazaki debutta come animatore, per poi acquisire sempre più esperienza negli anni a venire presso la casa di produzione Toei Doga e collaborando a prodotti animati del calibro di Le Avventure di Lupen III (ルパン三世, Rupan Sansei 1972) e Heidi (アルプスの少女ハイジ, Arupusu no shōjo Haiji. 1974).     

Nel 1985 Miyazaki fondò il suo personale studio d’animazione, lo studio Ghibli, dove sono nati i più celebri lungometraggi del maestro, i più maturi e utili per capire appieno i suoi temi cari: il volo, l’ambientalismo, i bambini come portatori di speranza nel futuro, la guerra contrapposta all’amore e alla pace, armi contro una società sempre meno umana… Temi specifici dell’autore che meritano di essere approfonditi attraverso l’analisi di alcuni di questi film.

 

TEMI CARI ALL’AUTORE

Il mio vicino Totoro (となりのトトロ, Tonari no Totoro. 1988)

Photo credits: http://studioghibli.it

La maggior parte dei protagonisti di Miyazaki sono bambini, ma in questo lungometraggio più che in altri il tema centrale è proprio il mondo infantile come rifugio dalla tristezza della vita: due sorelline si trasferiscono con il papà in campagna, per stare più vicine alla mamma che è ricoverata in un ospedale della zona. Qui incontreranno creature fantastiche di ogni tipo, tra cui Totoro, il paffuto custode del bosco metà orso e metà procione.
Il parallelismo con la situazione familiare del piccolo Hayao è chiaro e nel corso della pellicola si comprende come la figura di Totoro e il mondo incantato da cui proviene siano la rappresentazione della fantasia sconfinata delle bambine, che così sfuggono al dolore provato per le condizioni di salute della mamma.

 

Porco Rosso (紅の豚, Kurenai no buta. 1992)

Photo credits: http://mymovies.it

In questa pellicola Miyazaki affronta i temi del volo, della guerra (soprattutto aerea) e dell’amore senza limiti: il protagonista è il pilota d’aereo Marco, cacciatore di taglie che insegue sul suo biplano rosso i “pirati del cielo”, aviatori rimasti disoccupati dopo la fine della guerra che hanno iniziato a rubare per vivere. Marco però è rimasto vittima di un incantesimo durante una battaglia di cui è l’unico sopravvissuto, ed ora ha la faccia di un maiale (secondo la visione culturale giapponese, essere l’unico sopravvissuto in battaglia è un disonore). Questo difetto però non impedirà a Fio di innamorarsi di lui, a dimostrazione che l’amore non conosce confini. È un film pregno di riferimenti storici e anche politici, come suggerisce l’aggettivo rosso nel titolo.

 

Principessa Mononoke (もののけ姫, Mononoke-hime. 1997)

Photo credits: http://mymovies.it

Durante il periodo Muromachi (1336-1573), il clan dei Tatari sfrutta le risorse naturali senza sosta e ritegno, quindi per sopravvivere alla barbarie umana, il Dio della Foresta trasforma gli animali in grandi e forti bestie. Un giorno il guerriero ed eroe Ashitaka uccide per sbaglio una di queste, attirando su di sé una potente maledizione che lo costringe a chiedere aiuto al clan dei Tatara; mentre si reca da loro incontra la Principessa Mononoke, una ragazza metà donna e metà lupo che ha il potere di comunicare con la Natura e odia gli esseri umani per il modo in cui trattano la natura.                                                                                                          Il messaggio sotteso è lampante: Miyazaki auspica la convivenza pacifica tra Natura e Uomo denunciando la crudeltà con cui gli esseri umani si appropriano di ciò che non appartiene loro ergendosi a padroni del mondo.

 

Testo di Martina Condello, martinacondello.cm@gmail.com

https://www.giapponeinitalia.org/wp-content/uploads/2023/05/2023-Evento_CampsiragoResidenza.pdf

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LE ORIGINI DELL’ANIMAZIONE GIAPPONESE

AGLI ALBORI

1958: La casa di produzione Toei Doga, oggi operante nel settore come Toei Animation (madre di Dragon Ball, Slam Dunk, Sailor Moon e One Piece, tra gli altri) produce il primo lungometraggio animato e a colori del Giappone, che verrà proiettato solo al cinema: Hakuja den, ovvero La leggenda del serpente bianco, storia del travagliato amore tra uno studente e una principessa che in realtà è un demone, il Serpente Bianco per l’appunto. Lo stile è disneyano, con animazioni fluide, colori delicati e inserzioni musicali, ancora lontano dalle caratteristiche grafiche tipiche degli anime, ad esempio gli occhi grandi e le espressioni caricaturali; ciò nonostante Hakuja den apre le porte all’era dell’animazione giapponese anche sul piccolo schermo, poiché vince come miglior film per ragazzi alla Mostra del Cinema di Venezia e ottiene il primo premio al concorso Mainichi, raggiungendo così una buona popolarità. È interessante sapere che il lungometraggio precursore di tutti gli anime tratti di una leggenda cinese e sia stato creato dalla Toei proprio per tendere un ponte tra Cina e Giappone dopo i brutti trascorsi storici e politici tra i due Paesi.

 

Photo credits: festival-cannes.com

OSAMU TEZUKA, IL DIO DEI MANGA

1963: Il manga, cioè il fumetto giapponese, diventa la base principale da cui attingere materiale da animare. Figura chiave di questo importante passaggio è Osamu Tezuka, autore del celeberrimo Tetsuwan Atom (Astro Boy in occidente): mangaka di spicco che diede una spinta innovativa al fumetto giapponese e poi si affacciò al mondo dell’animazione fondando la casa di produzione Mushi Production; viene ricordato come “Dio dei manga” ed egli stesso definì le sue passioni per il fumetto e per l’animazione rispettivamente coma “una moglie e un’amante”. La sua opera, Atom dal Braccio di Ferro (traduzione di Tetsuwan Atom), narra delle avventure belle e brutte Di un piccolo automa dalla storia simile a Pinocchio, di nome Atom. Prima personaggio su carta, acquisisce fama anche all’estero quando diventa il protagonista di una trasposizione animata, serializzata in TV. Ecco che nasce il concetto di anime a puntate con continuità narrativa, episodio dopo episodio. Inoltre Tetsuwan Atom presentava le caratteristiche grafiche e stilistiche proprie degli anime come li conosciamo noi oggi, dettandone i canoni per gli anni a seguire.

Photo credt: https://anidb.net/anime/807

  

PAROLA D’ORDINE: INNOVAZIONE

È sempre lui, un passo avanti a tutti quando si tratta di innovazione: nel 1965, Osamu Tezuka con la sua Mushi Production, rilascia la prima serie TV animata a colori, tratta dall’omonimo manga di Osamu dal nome Jungle Taitei (Kimba il leone bianco). La scelta a colori, sicuramente più accattivante per lo spettatore ma più costosa in termini di produzione, costrinse le altre case d’animazione ad adattarsi velocemente al cambiamento per non essere tagliate fuori dal mercato e in alcuni casi, portò anche ai primi casi di spionaggio industriale. 

https://en.wikipedia.org/wiki/Kimba_the_White_Lion

 

L’anno dopo, nel 1966, ci fu un’altra novità: il primo anime per ragazze, fetta di pubblico completamente trascurata fino ad allora. Stavolta arriva prima la casa Toei, con la trasposizione animata del manga Mahōtsukai Sally (Sally la maga), che come dice il nome fu il precursore del genere Mahō Shōjo, anime pensati per un pubblico femminile caratterizzati dalla presenza di maghette. Si pensi per esempio a Ojamajo Doremi (Magica Doremì) o a Card Capture Sakura.              

 

 

Photo credit: https://www.animeclick.it/anime/2882/sally-la-maga

Infine, per citare un altro dei tanti sviluppi che hanno costellato il panorama dell’animazione giapponese nel suo decennio di nascita, si può parlare dell’ascesa dell’horror nel 1968 e di come il mondo dell’animazione abbia colto la palla al balzo per lavorare a nuovi progetti in linea con le nuove tendenze macabre. Un prodotto di questo fenomeno è l’anime GeGeGe no Kitarō (tradotto letteralmente come Kitaro dell’eh-eh-eh), la storia di uno yōkai dalle sembianze di un ragazzino, quindi una creatura spettrale del folklore giapponese, che con l’aiuto di suo padre fa da tramite tra il mondo degli umani e il mondo degli spettri, cercando di mantenere la pace.

Photo credit: https://www.animeclick.it/anime/23360/gegege-no-kitarou-2018

 

Testo di Martina Condello, martinacondello.cm@gmail.com

https://www.giapponeinitalia.org/wp-content/uploads/2023/05/2023-Evento_CampsiragoResidenza.pdf

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TRA KAPPA, ROKUROKUBI E IKIRYŌ

 

Photo credits: hyakumonogatari.com

Yōkai. È un termine generico che indica qualsiasi mostro, spettro o creatura magica protagonista di racconti e leggende tradizionali giapponesi. Solitamente si tratta di animali antropomorfi o di esseri mutaforma, oppure ancora di strani individui in grado di padroneggiare poteri soprannaturali e arrecare danni agli esseri umani. Nella maggior parte delle narrazioni, gli Yōkai sono entità malvagie e pericolose per gli uomini, che le temono e cercano di starne alla larga, pena incontri spiacevoli, maledizioni o addirittura morte.

Esistono innumerevoli storie e leggende popolate dagli Yōkai, molto spesso raccontate ai bambini per spaventarli, intrattenerli o divertirli. Si parla ad esempio di Kappa, rane umanoidi che mangiano i più piccoli, di Rokurokubi, mutaforma che possono allungare a dismisura il proprio collo, e di Ikiryō, spiriti infestanti che perseguitano i vivi. Famose sono anche le Kitsune, entità ingannevoli che possono assumere forma di donna e di volpe, e la Yuki-Onna, una ragazza bellissima che strega gli uomini di passaggio sui monti innevati.

     ATTENTI ALLE RANE!

Offritegli un cetriolo e vi lascerà andare. è il Kappa, uno Yōkai piccolo quanto un bimbo, ma verde e squamoso come una rana. Viene raffigurato con guscio da tartaruga e becco d’uccello, sempre vicino ad un corso d’acqua perché quello è il suo habitat naturale: nella tradizione si apposta a riva del fiume e aspetta che arrivi qualche bambino da mangiare. Per capire a fondo questa rappresentazione va saputo che in epoca passata, nei villaggi giapponese era uso abbandonare i bambini nati morti alla corrente dei fiumi e lasciarli al loro destino, magari nelle grinfie di un Kappa affamato. Questa creatura del folklore però è temuta soprattutto perché rapisce bambini e animali dai villaggi, per poi annegarli e divorarli.

Allora cosa fare per rendere innocuo un Kappa? Basta regalargli un cetriolo, di cui va matto, o svuotare la depressione piena d’acqua che ha sulla testa, dalla quale trae energia vitale.

Photo credits: tradurreilgiappone.com

 

     I SENZA TESTA

Gli umani sono costantemente animati da sofferenza, odio, rammarico, invidia, gelosia, e mossi da questi sentimenti negativi commettono peccati o gravi atrocità che nella narrazione tradizionale giapponese vengono puniti in un modo singolare. Attraverso una maledizione. È quello che succede ai Rokurokubi, normali uomini e donne di giorno, spiriti in grado di allungare il collo all’infinito di notte; la testa “si stacca” dal corpo per vagare tormentata, sfogare così i suoi malesseri interiori, terrorizzando chi se la ritrova davanti al chiaro di luna o attaccando piccole prede.

I Rokurokubi non sono consci della maledizione con cui convivono, infatti si considerano esseri umani a tutti gli effetti. Peccato che a volte siano riconoscibili agli occhi degli altri grazie ad un minuscolo particolare: un livido rosso alla base del collo.

Photo credits: yokai.com

 

     STORIE DI FANTASMI

Anche il folklore popolare occidentale è popolato dai fantasmi. Basti pensare ai castelli infestati o alle case abbandonate, ambientazioni perfette per storie e film sugli spettri. Mentre i fantasmi occidentali sono le anime dei morti che non riescono a lasciare questo mondo perché hanno delle questioni in sospeso da risolvere, in Giappone gli Ikiryō sono le anime che escono dal corpo ancora vivo del proprietario per perseguitare le vittime della sua collera e del suo odio; veri e propri fantasmi viventi generati da un sentimento così cupo e radicato da non riuscire a rimanere chiuso in corpo.

Photo credits: yokai.com

 

     INGANNI AL FEMMINILE

Nel Giappone antico le donne, soprattutto quelle bellissime e misteriose, venivano associate alla malizia e all’inganno. Erano fonte di problemi per gli uomini che rimanevano ammaliati dalla loro bellezza sovraumana e perdevano la testa.

Nel folklore nipponico infatti le figure ingannevoli sono rappresentate da donne incantevoli e incomprensibili, che appaiono all’improvviso sul cammino dei viaggiatori per prendersi gioco di loro.

Tra le più famose abbiamo la Kitsune, in giapponese volpe, uno Yōkai mutaforma che si presenta come animale, ma può trasformarsi in donna e anche rendersi invisibile (la sua presenza è tradita solo dagli specchi d’acqua, dove si riflette indipendentemente dalla forma che assume).

 

Photo credits: ramen-nation.com

La Yuki-Onna, o Donna delle Nevi, è invece uno spettro pallido, vestito di bianco, con capelli neri e occhi penetranti che terrorizzano i viandanti durante le tempeste di neve nei boschi; ha il potere di confondere gli uomini fino a condurli alla morte.

Photo credits: bakemono.lib.byu.edu

 

Testo di Martina Condello, martinacondello.cm@gmail.com

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GIAPPONISMO, le influenze giapponesi nell'Europa dell'Ottocento.

 

photo credits: arteworld.it

Con il termine Japonisme, o Giapponismo nella versione italianizzata, si intende definire un fenomeno diffusosi nell’Ottocento in Europa e più massicciamente in Francia: artisti e mecenati europei subirono il fascino dell’oggettistica e delle stampe giapponesi che in quegli anni raggiunsero l’Occidente in grandi quantità, influenzando lo stile artistico di grandi pittori e scultori dell’epoca, come Claude Monet, Éduard Manet, Edgar Degas, Gustav Klimt e Vincent Van Gogh.

La domanda sorge spontanea: come mai nell’Ottocento si verificò questa grossa importazione di opere provenienti dal Giappone? Quali furono gli eventi storici alla base del Giapponismo?

     “PAESE CHIUSO”

Nel 1641, lo Shōgun (comandante dell’esercito feudale) Tokugawa Iemitsu emanò un editto con il quale diede inizio al cosiddetto Sakoku, ovvero “Paese incatenato”, un periodo di chiusura semi-totale del Giappone verso gli altri paesi; un governo conservatore che limitò severamente i commerci con l’estero, permettendo l’accesso di navi straniere solo da determinati porti, e minimizzò gli scambi culturali con il resto del mondo.

Fino al 1853, quando uno degli avvenimenti più controversi della storia giapponese interruppe il Sakoku: le Navi da guerra del commodoro statunitense Matthew Perry attraccarono nella baia di Tōkyō, durante l’Epoca Edo, sancendo l’inizio di una serie di pressioni e trattative insistenti volte alla riapertura del Giappone. Fu proprio la fine del Sakoku a facilitare l’arrivo di merce giapponese in tutta Europa (e negli Stati Uniti): dalle suppellettili, alle stoffe, fino alle “immagini del mondo fluttuante”, le ukiyo-e, che affascinarono talmente tanto gli artisti dell’epoca da modificare permanentemente il loro modo di fare arte.

 

Commodoro Matthew Calbraith Perry (1794-1858)

photo credits: musubi.it

DAL MONDO FLUTTUANTE ALLE TELE FRANCESI

photo credits: thecollector.com

Durante il Periodo Edo (1603-1868), nelle città più grandi del Giappone, sì andò pian piano consolidando un nuovo ceto sociale assente dalla rigida piramide sociale che rappresentava il sistema feudale vigente: la figura del cittadino borghese, abitante dei grandi centri urbani, personaggio principale del “mondo fluttuante”, ovvero della trama socioeconomica che intesseva le grandi città. Il cittadino di ceto medio era colui che conduceva un’esistenza dissipata, rincorrendo ai piaceri della vita nella bolla illusoria ed effimera della sua città.

Le stampe Ukiyo-e erano pensate proprio per rappresentare le bellezze come i vizi di questa società: molte infatti raffigurano scene ambientate nei quartieri proibiti delle città, dove i cittadini incontravano geisha e cortigiane, altre invece raffigurano paesaggi innevati, ciliegi in fiore e la potenza del mare, altre ancora attori di teatro impegnati nelle loro performance o semplicemente scene di vita quotidiana.

Fu soprattutto grazie all’osservazione e alla collezione delle ukiyo-e che i pittori impressionisti francesi si cimentarono in nuovi stili più esotici, costellando le loro opere di personaggi orientaleggianti come geisha e samurai.

A chiusura lascio i riferimenti dei tre quadri in foto all’inizio dell’articolo, come esempio lampante del Giapponismo pittorico caratterizzato da forme essenziali, asimmetria e spesso assenza di prospettiva, colori piatti ma vivaci e contorni accentuati: Ritratto di Père Tanguy di Vincent Van Gogh, Ritratto di Émile Zola di Édouard Manet e Mary Cassatt al Louvre di Edgar Degas.

 

Testo di Martina Condello, martinacondello.cm@gmail.com

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